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ALLA FENICE: UN "ERNANI" OPPRESSO DAI TRAUMI DEL PASSATO

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È nata Idrobase Spain; la firma dell’accordo è avvenuta a Borgoricco nell’ “headquarter” dell’azienda padovana, leader nelle tecnologie dell’acqua in pressione e nelle soluzioni per respirare aria sana: in questo modo, il gruppo italiano gestirà direttamente la distribuzione dei propri prodotti sul mercato iberico, grazie ad un accordo con la spagnola Zarzuela Filtracion Industrial. Idrobase Spagna si affianca così alle già operanti Idrobase France, Idrobase Korea e Idrobase Ningbo in Cina, nell’attesa dell’annunciata nascita di Idrobase America e Idrobase Japan. Idrobase Spain sarà presente, con Idrobase France, alla fiera Pollutech, in programma ad Ottobre nella francese Lione e successivamente al salone Ecomondo, in Novembre a Rimini. «In questo modo – precisa Bruno Ferrarese, Co-Presidente di Idrobase Group – continua il nostro rafforzamento sui mercati internazionali, divenuti particolarmente instabili nel dopo Covid, ad iniziare dalla Cina ed in attesa di una soluzione alla guerra fra Russia ed Ucraina. Siamo una caravella in un mare agitato, ma guardiamo oltre con scelte strategiche, indirizzate ad incrementare l’ultradecennale presenza sui mercati orientali, sviluppando al contempo quelli europei ed americani». Al crescente network Idrobase nel mondo sarà dedicato un evento, già previsto nella sede centrale a Borgoricco dopo l’estate.
PRESENTATO IL PROGRAMMA E TORNA LA MOSTRA DELLA LIUTERIA Come consuetudine, con l’arrivo d’Agosto, l’associazione Musikrooms anticipa il cartellone del Festival Internazionale delle Due Città, che nel 2023 compie 21 anni: la manifestazione, considerata tra le kermesse chitarristiche più importanti al mondo, si conferma manifestazione di alto profilo, capace di attrarre svariate tipologie di pubblico, presentando un programma di concerti nel segno del “New Classical World”. Il Festival inizierà venerdì 22 Settembre e si articolerà quest’anno su un fine settimana a Treviso ed uno a Mestre per poi concludersi a Venezia, martedì 3 Ottobre. Nel capoluogo della Marca, i concerti si svolgeranno al Museo di Santa Caterina, mentre a Mestre saranno ospitati nell’ Auditorium del Centro Candiani con concerto finale nel prestigioso Teatro La Fenice a Venezia. Ad inaugurare gli appuntamenti trevigiani, il 22 settembre, sarà la serata “Fado & Fuoco”, che vedrà in scena dapprima la musica portoghese dell’Effetto Ensemble (chitarra e voce), cui seguirà il virtuosismo del duo chitarristico Cantiga con un repertorio di musiche spagnole. Il giorno seguente, sabato 23 settembre, il Festival si rinnova con un programma intitolato ”Spagna & Battisti”. Primo a salire sul palco sarà Josè Luis Del Puerto, chitarrista andaluso, considerato uno dei più importanti virtuosi iberici; la seconda parte della serata vedrà l’attesa esibizione di Roberto Fabbri con il nuovo album su Lucio Battisti, a cavallo fra musica colta e pop. Il weekend trevigiano si concluderà domenica 24 Settembre con lo spettacolo “Brasile Latin Jazz e Tango”. L’avvio di serata sarà affidato al musicista australiano, Sergio Ercole, le cui composizioni traggono ispirazione dalle radici della chitarra classica: dal tango argentino alla bossanova brasiliana fino alla rumba flamenca. La seconda parte di serata sarà dedicata al jazz con l’affermato trio del chitarrista Maurizio Di Fulvio, che ad una tecnica sorprendente affianca una raggiante vena compositiva; il programma del concerto presenterà raffinate interpretazioni di “choro brasilerio” e musica napoletana, accompagnate da standard latin jazz e classical music. Nella giornata di domenica tornerà anche la mostra internazionale di liuteria, dove si potranno ammirare e provare le chitarre esposte, nonchè ascoltarle suonate dagli allievi laureandi di alcuni Conservatori musicali; le esibizioni si svolgeranno nell’auditorium del Museo di Santa Caterina e l’ingresso sarà gratuito. Il weekend successivo il Festival Internazionale delle Due Città si trasferirà all’auditorium Candiani di Mestre. Qui, venerdì 29 Settembre, andrà in scena lo spettacolo “Flamenco y Baile!” con la trascinante musica del gruppo Mediterranea, dove il ballo si accompagna a chitarra, percussioni e flauto, attorno alle composizioni di Federico Garcia Lorca. Sabato 30 Settembre tornerà a Mestre il “Flamenco!” con l’eccezionale concerto del grande virtuoso Carlos Piñana, considerato uno dei flamenchisti più talentuosi, erede del grande Paco de Lucia attraverso la contaminazione di numerosi generi. L’edizione 2023 del Festival Internazionale delle Due Città vivrà, infine, un prestigioso atto finale a Venezia, martedì 3 Ottobre nelle celebri Sale Apollinee del Teatro La Fenice, con lo spettacolo “Soul…”, interpretato dal direttore artistico della manifestazione e chitarrista di fama internazionale, Andrea Vettoretti; sarà un viaggio alla riscoperta di brani del suo percorso artistico: dall’album Wonderland fino al nuovo progetto Q1-Quantum One, ma non mancheranno alcuni nuovi inediti in prima esecuzione assoluta. «E’ un onore tornare a suonare nel Teatro La Fenice al termine di un Festival, determinato quest’anno da precise scelte di format: a Treviso sonderemo sonorità nuove con interpreti di grande livello, impegnati nel ricercare contaminazioni musicali, partendo da consolidati percorsi artistici – precisa Andrea Vettoretti, promotore e Direttore Artistico della rassegna - A Mestre, invece, dove ci proporremo per il quinto anno, presenteremo autentici numeri uno del flamenco per entusiasmare un pubblico più giovane ed in evoluzione». Per maggiori informazioni www.musikrooms.com .
Sarà la rassegna "Racconti d’estate" ad ospitare in Palazzo Grassi, a Chioggia, l’esordio della nuova versione dello spettacolo “Quantum One”, che vede ora protagonista, l’attrice Violante Placido; con lei in scena, mercoledì 19 Luglio alle ore 21.00, ci sarà il chitarrista trevigiano Andrea Vettoretti, compositore delle musiche, accompagnato da Riviera Lazeri al violoncello e Fabio Battistelli al clarinetto. I testi sono tratti dal Calendario Cosmico dell’astrofisico statunitense, Carl Sagan. Frutto di 3 anni di lavoro e ricerca per convertire le vibrazioni elettromagnetiche spaziali in frequenze musicali, “Q1-Quantum One”, di cui è stata pubblicata anche la versione discografica, vuole veicolare un messaggio di pace e responsabilità ambientale verso la Terra, perché è “l’unica casa, che abbiamo”. Il progetto del musicista veneto riprende così slancio ed è già in circuitazione teatrale; la produzione è composta da 9 brani articolati in 3 suites, che richiamano gli echi di un “concept album”, in cui i suoni dell’Universo sono il “quarto elemento” della partitura musicale per chitarra, violoncello e clarinetto. In questo lavoro Andrea Vettoretti interagisce con i suoni cosmici, esplorando le armonie sonore dello spazio, unendole alla musica per creare un’unica, poetica energia. L’ascoltatore può cosi` scoprire suoni primordiali come i 3° K emessi dopo il Big Bang, le stelle Pulsar, le “sinfonie” emesse da galassie come la Via Lattea oppure il suono dei buchi neri, chiamati QPOs. Il percorso musicale di “Quantum One” comincia dalla prima luce dell'Universo fino ad atterrare sul nostro Pianeta, dove il canto delle megattere ci riporta all’elemento primigenio della vita: l’acqua. “Dopo l’Anteprima in occasione della Festa della Musica – evidenzia Andrea Vettoretti - possiamo considerare l’appuntamento di Chioggia, un ulteriore tappa di avvicinamento al Festival Chitarristico delle Due Città Treviso-Venezia, di cui a breve presenteremo il cartellone dell’edizione 2023, che animerà, tra Settembre ed Ottobre, il trevigiano Museo Santa Caterina, il mestrino Auditorium Candiani ed il celeberrimo Teatro La Fenice".
Che senso può avere riproporre oggi, seppure attraverso l’opera di Wagner, l’antica leggenda dell’Olandese volante (Der fliegende Holländer nell’originale) o, come si preferiva dire in Italia, del vascello fantasma? Una leggenda meravigliosa e profonda, a dire il vero, al di là delle sinistre e lugubri brume nordiche di cui si ammanta, perché ci racconta qualcosa di importante sull’essere umano, sulla sua natura, sul suo destino. In effetti l’Olandese, che percorre i mari in lungo e in largo alla ricerca del porto sicuro e definitivo, della vera patria in cui ritrovare sé stesso, alla fine dell’amore assoluto e incondizionato dal quale essere abbracciato ed accolto, non ha nulla di irrazionale, come invece sembra supporre il maestro Markus Stenz, cui è affidata la direzione della nuova produzione dell’opera rappresentata alla Fenice. L’Olandese, invece, porta dentro di sé le stigmate di ogni essere umano che, dalle origini del mondo fino ad oggi, non conosce pace finché non riesce almeno ad intravedere la propria patria, là dove sarà abbracciato per quello che è, pacificato nelle proprie tensioni e ferite, rassicurato sulla meta ove è atteso e dalla quale nello stesso tempo proviene. È più intuitivo il regista di questa produzione veneziana, il polacco Marcin Łakomicki, quando afferma che la leggenda dell’Olandese e di Senta “si allontana da vicende storiche o ancorate geograficamente” aprendosi “verso terreni più vasti, che riguardano l’umanità nella sua lettura cristiana”; per poi aggiungere che entrambi i protagonisti “sono contraddistinti dal desiderio. Lui di...ottenere la grazia di Dio e consistere finalmente in un luogo. Lei, al contrario, desidera...il distacco da un mondo, quello in cui è immersa, che può sembrare noioso nella sua quotidianità”. Con una precisazione, però: il desiderio di Senta in realtà è più profondo e totalizzante, è il desiderio di donarsi a chi si ama per salvarlo, perché la ragazza sa che solo in questa suprema offerta di sé la sua vita si riempie di significato e trova compimento. Che senso ha dunque – torniamo alla domanda di partenza – proporre questa leggenda così ricca e così profonda all’uomo di oggi? Un uomo che sembra una scheggia impazzita e in perenne agitazione come l’Olandese, ma che di quest’ultimo non pare condividere la tensione verso la ricerca di un approdo definitivo, tantomeno se inteso come l’amore totalmente oblativo incarnato da Senta. Ma forse è proprio per questo suo disorientamento esistenziale che c’è bisogno di riparlargli di questa storia: una storia di peccato e di salvezza, una storia che racconta che anche il male più buio e incancrenito può essere redento se abbracciato da un amore che si dona. Purtroppo Marcin Łakomicki, forse per un eccesso di intellettualizzazione dovuto alla sua lunga frequentazione del mondo teatrale tedesco, lascia cadere la sua intuizione originale che vede il desiderio come fattore motivante ed unificante dei comportamenti dell’Olandese e di Senta; o, per meglio dire, non la valorizza nei primi due atti, per poi complicarla inutilmente nel terzo. I primi due atti scorrono secondo un’impostazione astratta e minimalista che risulta poco attraente e, il che è ancora più grave, povera di contenuti almeno percepibili, con una scenografia (Leonie Wolf) ridotta quasi a niente, salvo la prua della nave all’inizio e di tanto in tanto delle rocce stilizzate come in un panorama di Manhattan, costumi anonimi (Cristina Aceti) della consueta foggia genericamente moderna, luci (Irene Selka) funzionali ma certo non in grado di fare spettacolo da sole. I solisti, poi, vengono fatti muovere secondo criteri tutto sommato convenzionali, mentre il coro si presenta come una massa disordinata e dall’agire non ben definito in particolare all’inizio del secondo atto, nella scena cosiddetta delle filatrici. Insomma, fino a questo momento non si va oltre un’astrazione minimalista programmatica, che lascia a bocca asciutta tanto sul piano estetico quanto su quello per così dire etico, cioè dei contenuti comunicati al pubblico. Ciò nonostante lo spettacolo, pur nella sua estrema essenzialità, a suo modo è lineare e gli spettatori possono seguirlo senza farsi venire il mal di testa. Cefalea assicurata, invece, nel terzo atto. Qui il dichiarato tema del desiderio diventa il pretesto di un’elucubrazione autoreferenziale che si serve sistematicamente dell’ormai logoro espediente dei doppi, già sobriamente presenti nel secondo atto, per creare fra i personaggi il caos relazionale, in cui ogni rapporto salta e tutto è nebuloso: a chi si rivolgono i cantanti, perché ai doppi e non ai loro colleghi, cosa fanno tutti, che significato hanno le bambine che entrano ed escono l’una dopo l’altra dal palcoscenico e così via. Il versante musicale riscatta solo in parte le carenze della parte visiva. il maestro Markus Stenz non dispiace affatto, anzi: sa il fatto suo e conduce la non semplice macchina del Fliegende Holländer con risultati apprezzabili, permettendo al pubblico di godere appieno di tutte le suggestioni e le bellezze contenute nella partitura. Stenz conferisce la giusta intensità ai momenti drammatici, nei quali l’orchestra wagneriana fa le prove per gli appuntamenti ancora più impegnativi che l’attenderanno nelle opere successive, ma sa anche concedere il respiro adeguato alle frasi liriche ed accompagnare con proprietà le non infrequenti oasi in cui la quotidianità familiare si esprime attraverso un canto di conversazione che allenta la tensione provocata dai sentimenti sovrumani dell’Olandese e di Senta. Nell’insieme, una prova di apprezzabile sicurezza e affidabilità professionale. Nel cast, alti e bassi. L’Olandese del basso-baritono coreano Samuel Youn appare nel complesso insufficiente rispetto alle esigenze di un ruolo che richiede spiccato carisma sia vocale sia scenico. Soprattutto, mancano autorevolezza e nobiltà, per cui la tragica grandezza del personaggio non si percepisce, non emerge. Il canto è carente di peso specifico, di spessore e del colore adeguato, carenze che si prova a compensare, con risultati controproducenti, attraverso una vociferazione che indebolisce la straordinaria statura morale dell’Olandese anziché rafforzarla. Il timbro, poi, diventa troppo chiaro quando la voce sale, creando una fastidiosa soluzione di continuità con le note gravi, come se i diversi registri non fossero coordinati ed armonizzati fra loro. Purtroppo anche l’atteggiamento scenico non è adeguato, perché non ha nulla di quella solennità, di quella ieraticità, che l’Olandese non può non avere, considerato che porta ad ogni passo e ad ogni gesto sulle proprie spalle un peso di dimensioni cosmiche. Qui, invece, movimenti e gesti sono quasi da commedia e, per rimanere nell’universo wagneriano, sembra di avere davanti, con le ovvie differenze di registro vocale, il Mime del “Siegfried” anziché colui che, come l’Ulisse dantesco o Prometeo, volle essere più grande dei suoi stessi limiti umani. La Senta del glorioso soprano Anja Kampe mostra tutti i segni di una classe autentica e di una professionalità a lungo sperimentata. Il suo canto drammatico, quindi, possiede forza ed incisività, e giunge ad emozionare profondamente il pubblico. Peccato gli estremi acuti scagliati con impeto e coraggio ma sotto sforzo, per cui talvolta si avvicinano pericolosamente al grido. Peccato, soprattutto, che le caratteristiche dello strumento, più ancora che quelle della figura ormai matura, sacrifichino la componente lirica a quella drammatica, per cui viene smarrita quella freschezza ingenua e insieme determinata, così tipicamente adolescenziale, con cui Senta accetta di seguire la sorte dell’Olandese. I panni di Daland sono rivestiti da un altro artista di fama, il basso Franz-Josef Selig. Inizia male, vociferando con un’emissione disomogenea ed una linea di canto disordinata. Ma forse c’è solo bisogno di scaldare lo strumento e, proseguendo lo spettacolo, il canto si fa più morbido e sfumato, vario nel fraseggio e nelle intenzioni espressive. Insomma, un Daland di alto livello, umanamente più ricco rispetto alla consueta macchietta un po’ paternalista e un po’ avida che si incontra di solito in teatro. Di alto livello anche il Timoniere del tenore Leonardo Cortellazzi, la cui preparazione e la cui versatilità il pubblico della Fenice ha ormai imparato ad apprezzare. L’artista sa conferire al personaggio una suggestiva aura di poetica nostalgia, attraverso un canto impregnato di lirismo e modulato con efficace espressività. Adeguato ed apprezzabile, anche se un po’ carente di incisività, l’Erik del tenore inglese Toby Spence e bene in parte il mezzosoprano Annely Peebo come Mary. Resta da dire del coro, anzi dei cori, dal momento che a quello della Fenice, diretto da Alfonso Caiani, è stato affiancato, grazie ad uno stanziamento del Ministero della Cultura a favore delle attività performativa di artisti ucraini, il Coro Taras Shevchenko National Academic Opera and Ballet Theatre of Ukraine, preparato da Bogdan Plish. Il rendimento complessivo può considerarsi buono, anche tenendo conto dell’impegno cui questa partitura chiama le masse corali, con una piccola preferenza per la componente femminile. Alla serale del 4 luglio, accoglienze festose sono state riservate dal pubblico soprattutto al maestro Stenz, a Senta e a Daland. Adolfo Andrighetti
«Il mercato globalizzato post pandemia obbliga le piccole e medie aziende ad una scelta: essere comperate da realtà più grandi o consolidarsi attraverso acquisizioni e joint-venture; noi abbiamo scelto la seconda strada. Per questo, forti delle positive esperienze in Francia e Korea, stiamo lavorando per costituire realtà distributive Idrobase in NordAmerica, Spagna e Giappone». Ad affermarlo è Bruno Ferrarese, Co-presidente di Idrobase Group, rientrato da un “business trip” con obiettivo i mercati di Stati Uniti, Singapore e Cina, da dove arriva una prima novità per la “multinazionale tascabile” veneta: un nuovo distributore sul grande mercato orientale per la linea Autobella, un mix di prodotti per l’automobile “made in Italy”, ma anche targati “Allforclean”, l’azienda cinese, controllata al 100% da Idrobase Group. “Allforclean-Idrobase China”, nata nel 2004, conta una cinquantina di dipendenti; oltre ad essere base logistica per la penetrazione orientale della casa-madre padovana, produce soluzioni per il settore del “cleaning” e del “car washing”: ricerca, ingegnerizzazione, commercializzazione delle produzioni sono italiani, così come il management. La produzione è destinata per il 50% all’estero, soprattutto U.S.A., mentre l’altra metà è assorbita da prodotti specifici per il mercato interno. E’ inoltre definitivamente avviata nello stabilimento di Ningbo la produzione di detergenti per il lavaggio ecologico dell’auto; Daerg China è un’iniziativa imprenditoriale italiana, nata nel 2021 dalla sinergia fra “Idrobase Group” e “Daerg Chimica” per offrire una soluzione combinata fra detergenza e “hardware” meccanico, finalizzata al mercato cinese dell’autolavaggio, che ogni anno si arricchisce di 21 milioni di veicoli. Infine, Idrobase Group annuncia un importante evento: lunedì 10 luglio prossimo, ad un anno dal disastroso incendio, sarà inaugurato il nuovo magazzino con gli annessi uffici, realizzati per favorire nuove modalità lavorative e rispettando la filosofia aziendale “Respira aria sana”; il taglio del nastro sarà anticipato da due giorni dedicati alla clientela internazionale. «Sarà una festa – conclude Ferrarese - ma soprattutto il suggello di un percorso, dove un elemento di crisi è diventato occasione di riflessione e crescita aziendale».
È iniziato nel migliore dei modi il weekend conclusivo del C.U.S. Venezia ai Campionati Nazionali Universitari, ospitati a Camerino nelle Marche: dopo le delusioni da pallavolo femminile e judo, una “pioggia” di medaglie ha arricchito l’esangue bottino lagunare, ora già più ricco della scorsa edizione. La prima medaglia d’argento è arrivata dalla scherma nel fioretto femminile: l’ha conquistata Eleonora Candeago, studentessa di lingue a Ca’ Foscari, superata in finale dalla “padrona di casa”, Elena Tangherlini. Piazza d’onore veneziana anche nel criterium maschile di tennis tavolo: a conquistarla è stato Simone De Vito (testa di serie n.3), anch’egli studente a Ca’ Foscari; il titolo è andato a Francesco Palmieri del C.U.S. Napoli. Una medaglia di bronzo è invece arrivata dal torneo di scacchi a squadre: ad aggiudicarsela sono stati gli studenti cafoscarini Stefano Bortolon, Nicola Ferreri, Lorenzo Orsato e Marco Miatto; da questo sport opzionale ai C.N.U. è arrivato anche un oro, conquistato però da un docente nel torneo individuale: a vincere è stato Pavel Duryagin, professore a Ca’ Foscari. A concludere la presenza biancogranata ai C.N.U. mancano ancora, nel fine settimana, le gare di atletica leggera (l’anno scorso arrivò un oro) e di karate (sul tatami scenderà Desi Rubini, medaglia d’argento 2022 nel kumite).
Saranno 29 i rappresentanti agonistici del C.U.S. Venezia, tra cui un docente, ai Campionati Nazionali Universitari, in calendario a Camerino, nelle Marche, dal 17 al 25 Giugno prossimi; 7 le discipline, in cui saranno impegnati i colori biancogranata: judo, scherma, pallavolo, tennistavolo, scacchi, atletica leggera, karate. La delegazione conta 8 uomini, mentre la restante componente femminile è fortemente rappresentata dalla squadra di pallavolo femminile, vicecampione europea; complessivamente sono ben 25 gli iscritti a Ca’ Foscari e 4 quelli appartenenti allo Iuav. Le speranze lagunari sono affidate soprattutto al volley femminile a conclusione di una stagione ricca di soddisfazioni, ma buone chances sono attribuite anche a scherma, karate e judo, dove il pordenonese Andrea Martin sarà il primo a scendere in gara, sabato prossimo, nella categoria kg.90, dove già vanta una medaglia d’argento ai campionati italiani A2. Da segnalare che a difendere i colori veneziani ci sarà anche Pavel Duryagin, docente a Ca’ Foscari, impegnato in una gara individuale di scacchi, parallela al torneo ufficiale. “Anche quest’anno ci affacciamo ai Campionati Nazionali Universitari con buone prospettive; grazie alla collaborazione con gli Atenei e le società sportive di appartenenza presentiamo una rappresentativa numericamente consistente ed aumentiamo i tornei, cui siamo iscritti” commenta Massimo Zanotto, Presidente del C.U.S. Venezia. Nella scorsa edizione dei C.N.U. , il C.U.S. Venezia conquistò un oro nell’atletica leggera e 2 argenti nel karate.
Una serata di alto profilo attraverso l’incontro virtuosistico tra musica klezmer – ebraica, classica e “new classical world”: accadrà a Treviso, mercoledì 21 Giugno prossimo, alle ore 20, nel Giardino del Centro Culturale Musikrooms per la celebrazione della Festa della Musica 2023 con il chitarrista compositore Andrea Vettoretti ed il Duo Klezmer NIHZ. L’appuntamento sarà l’anteprima del XXI Festival delle Due Città previsto dal 22 settembre al 3 ottobre sull’asse Treviso-Venezia e che presenterà un parterre di artisti internazionali e generi: dal flamenco al latin jazz, dal fado al tango fino al new classical world. Il prologo sarà il 21 Giugno con il Duo NIHZ, che presenterà musica tradizionale klezmer e yiddish mescolata a composizioni classiche, appositamente arrangiate per le capacità di due artisti, che hanno all’attivo più di 1500 concerti in oltre 35 Paesi. "Klezmer and beyond" è il titolo del concerto, che mescola virtuosismo e malinconia con un tocco di ironia, interagendo con il pubblico in un viaggio teatrale, ricco di tecniche inusuali e percussioni con la chitarra, ma anche intimità e pathos. Ad aprire il concerto sarà una performance del “padrone di casa”, il trevigiano Andrea Vettoretti, Direttore Artistico del Festival delle Due Città Treviso-Venezia e riconosciuto caposcuola del genere “new classical world”. Dopo il concerto ad invito, il pubblico potrà cenare a lume di candela e si potranno osservare le stelle, guidati dagli appassionati di “Treviso Astronomica”, in occasione del solstizio d’estate. Informazioni e prenotazioni, scrivendo a festival@musikrooms.com oppure nel sito www.musikrooms.com . Immerso nel verde del parco del Sile, a cinque minuti dal centro storico di Treviso, il Centro Culturale Musikrooms si conferma così uno spazio aperto a quanti amano l’arte. DUO NIHZ Bobby Rootveld (chitarra, percussioni e voce) e Sanna van Elst (polistrumentista e voce) hanno formato il Duo NIHZ nel 2001. Sono specialisti in canzoni yiddish e musica klezmer, composta durante la Shoah. Numerosi compositori hanno scritto appositamente per il Duo NIHZ, tra cui Nikita Koshkin, Richard Vaughan, Annette Kruisbrink. Nel 2009 il Duo NIHZ ha ricevuto uno speciale riconoscimento durante l'International Jewish Music Festival ad Amsterdam. Kulturhaus NIHZ contiene la più grande libreria di chitarra classica d'Europa ed un archivio di ricerca, che include spartiti, cd e lp, tra cui le composizioni e l'archivio del grande chitarrista e compositore tardo classico, Louis Ignatius Gall. Bobby Rootveld si esibisce anche come cabarettista nei Paesi Bassi ed è fondatore, nonchè produttore esecutivo dell'etichetta discografica Samsong Productions. Il Duo NIHZ ha un legame estremamente forte con la musica ebraica: il nonno di Bobby era ebreo ed è stato l'unico sopravvissuto della sua famiglia durante la Shoah. Questo ovviamente ha giocato un ruolo importante non solo nel desiderio di suonare musica klezmer, ma anche di dedicarla alla storia ebraica. La musica è il loro modo di "entrare in contatto" con il proprio background ed onorarlo. ANDREA VETTORETTI Si diploma in conservatorio con il massimo dei voti e prosegue gli studi presso la prestigiosa “Ecole Normale de Musique” di Parigi, sotto la guida del m° Alberto Ponce, dove ottiene in soli due anni, il “Diplome Supe´rieur de Execution” e successivamente il “Diplome Supe´rieur de Concertiste”, massimo riconoscimento dell’ “Ecole Normale”. È risultato vincitore in tredici competizioni musicali internazionali. Andrea Vettoretti gioca con la musica e la plasma per ottenere una rilassatezza ma allo stesso tempo una profondità essenziale che declina il genere da lui fondato, il New Classical World. Fondatore del genere “new classical world”, Vettoretti dice della propria musica: "Mi piace sperimentare, provare nuove strade che portino, anche dopo lunghi percorsi, a una sintesi. Della musica classica mi appassiona la profondita` e la molteplicita`. Di altri generi musicali invece la semplicita` ed allo stesso tempo la forza di comunicazione.”
Il gran problema di come mettere in scena un oratorio, cioè una forma musicale che alla rappresentazione teatrale non è destinata, può essere risolto in un solo modo: cioè assecondando la musica, che anche nell’opera, ma nell’oratorio con ancora maggiore evidenza, costituisce la fonte a la sostanza della drammaturgia. Ciò vale anche per l’oratorio presentato in un nuovo allestimento per la prima volta a Venezia, per la precisione al Teatro Malibran, cioè “Il trionfo del Tempo e del Disinganno”. È il primo musicato da Händel, che vi effonde a piene mani e con larga prodigalità i frutti del suo precoce genio di artista ventiduenne. Ciò che è statico nel libretto, infatti, dovuto alla penna del cardinale romano Benedetto Pamphilj, si trasfigura e diventa dinamico, agitato, contrastato, grazie alla musica. Si tratta solo di ascoltarla e non solo con le orecchie ma anche col cuore, di seguirla, di accompagnarla, come fa, con ottimi esiti, il coreografo di Tokio Saburo Teshigawara, responsabile dell’intera messinscena per regia, scene, costumi, disegno luci e, naturalmente, coreografia. Teshigawara non fa nulla di eclatante, non inventa stranezze per la soddisfazione di scandalizzare il pubblico e di ottenere un briciolo di attenzione in più dai media. Si limita all’essenziale, cioè ad ascoltare la musica e a darle corpo, fisicità e movimento, attraverso le coreografie realizzate da quattro ballerini, fra cui egli stesso. I ballerini non sono dei doppi dei solisti vocali, come si vede fin troppo spesso sui palcoscenici dei teatri d’opera talvolta per riempire un vuoto di idee, ma dei protagonisti che prestano braccia e gambe alla musica per aiutarla ad esprimersi in forma teatrale. Tutta la messinscena, quindi, consiste: delle coreografie, che rappresentano in maniera appropriata e senza forzature la drammaturgia musicale; di un palcoscenico completamente nero, illuminato con misura ed efficacia dalle luci puntate soprattutto sui solisti vocali; degli eleganti costumi in stile allusivamente neoclassico, chiari per i due personaggi spensierati, Bellezza e Piacere, scuri per gli austeri Tempo e Disinganno; infine, di una cornice cubica composta da quattro elementi. Il regista spiega la presenza dominante di questa figura geometrica con la simmetria del quattro: quattro facce per quattro personaggi, quattro interpreti vocali, quattro ballerini. Un equilibrio fra musica e danza, quello che viene così cercato da Teshigawara, che potrebbe essere trasferito su di un altro piano, esistenziale o se si vuole filosofico, a definire la relazione intercorrente fra le quattro figure allegoriche protagoniste dell’oratorio. Queste appaiono fra loro complementari, nel senso che ognuna è necessaria alle altre per comporre nell’essere umano quell’armonia che, sul palcoscenico, viene cercata fra suono e movimento. Vale a dire: la Bellezza, senza il Piacere che ne deriva, sarebbe solo un’algida astrazione, mentre il Piacere, senza la Bellezza, resterebbe senza ragione e quindi senza significato. Ad entrambi, poi, viene posto un limite ad opera del Tempo e del Disinganno, che richiamano l’essere umano alla realtà della sua natura provvisoria e mortale perché ne prenda atto e, all’interno di essa, trovi una ragione di vita solida e non effimera. In questi termini, non lontani dalla concezione registica, si alleggerisce anche il pesante e pedante moralismo del libretto, nel quale Bellezza, a lungo circuita e condizionata da Piacere, si lascia convincere da Tempo e da Disinganno della caducità delle gioie puramente umane e, nel nome della verità, decide di votarsi alla penitenza. In effetti, lo stesso regista afferma che l’intervento di Tempo e Disinganno su Bellezza va interpretato come un avvertimento, un richiamo rivolto a tutti, dalla “valenza molto positiva, perché ti permette di trovare il giusto modo di vivere”, aggiungendo che “questa storia ci parla dei nostri limiti, che non possiamo oltrepassare o superare”. Ma alla fine ciò che conta è che la messinscena è pienamente soddisfacente, ricca di eleganza e di misura, in ammirevole sintonia con la musica di Händel. Si può desiderare di più? La parte musicale, che, anche a dispetto delle mode, rimane la più importante, la determinante nel segnare la riuscita di uno spettacolo di teatro in musica, è affidata alle solide e affidabili mani del maestro Andrea Marcon, che concerta e dirige con l’esperienza e la competenza che gli sono riconosciute in questo repertorio. Certo, questa musica è talmente bella che talvolta rimane la sensazione che l’esecuzione non ne esaurisca tutta la ricchezza melodica, ma rimanga ancora qualcosa da esprimere, da comunicare; come un mistero che si svela solo in parte e custodisce ancora qualche meraviglia che sarà comunicata in altra occasione, chissà dove e chissà quando. Ma questa impressione non dipende dal maestro Marcon, grazie al quale e all’encomiabile apporto dell’Orchestra del Teatro La Fenice, la musica di Händel, dalle “linee melodiche profondamente ispirate”, ci viene restituita in tutta la sua “bellezza struggente” (le espressioni fra virgolette, ovviamente centratissime, sono dello stesso maestro). Nel cast emergono la Bellezza del soprano Silvia Frigato, dalla vocalità luminosa, adamantina e stilisticamente inappuntabile, seppure talvolta un po’ carente di corpo rispetto alle esigenze della parte, e il Tempo del tenore polacco Krystian Adam, che arricchisce il personaggio di un’insolita carica drammatica e di un fraseggio particolarmente espressivo grazie anche alla perfetta dizione italiana, pur senza allontanarsi mai dalla pertinenza stilistica richiesta. Meritano pieno apprezzamento per la musicalità e la preparazione anche il Piacere del mezzosoprano Giuseppina Bridelli, dallo strumento sonoro ma penalizzato da alcune asprezze, migliorabili attraverso un’emissione più raccolta e morbida, e il Disinganno del contralto Valeria Girardello, che, al contrario, esibisce un timbro gradevolmente morbido ed omogeneo, che però, in alcuni momenti, suona leggermente ovattato e bisognoso di una maggiore risonanza. Alla pomeridiana di sabato 3 giugno successo calorosissimo, quasi entusiasta, diviso equamente fra tutti gli artefici dello spettacolo, compreso il regista. Adolfo Andrighetti
È stato l’IIS Algarotti ad aggiudicarsi la 20°edizione del trofeo Ondina Scholz di pallavolo mista, organizzato dal C.U.S. (Centro Sportivo Universitario) Venezia ed intitolato alla memoria di una donna, già giocatrice ed allenatrice cussina, che tanto si dedicò ai giovani. Le finali del torneo, riservato agli Istituti d’Istruzione Superiore veneziani e cui hanno partecipato le rappresentative di 7 scuole, si sono disputate al palasport Gianquinto all’Arsenale ed hanno visto l’Algarotti imporsi per 2-0 sul Liceo Classico e Musicale Marco Polo dopo aver superato in semifinale, con identico punteggio, il Polo Tecnico Professionale Vendramin Corner sconfitto anche dal Liceo Scientifico Benedetti nella finalina per il terzo posto sempre per 2-0. MVP (migliori in campo) sono stati indicati Alice MiyaKe (Liceo Marco Polo) e Samuele Cavagnis (Istituto Algarotti); il trofeo Ondine Scholz è ricompreso fra le iniziative proposte dal C.U.S. Venezia nell’ambito del Progetto Sport e Identità, promosso da FederCusi e “Sport e Salute” per supportare iniziative rivolte alle scuole secondarie con particolare attenzione allo sport come fattore di identità territoriale. «Siamo molto contenti di organizzare questa manifestazione, che arricchisce il nostro tradizionale impegno a servizio dello sport scolastico, con cui intendiamo sviluppare ulteriori progetti – commenta Massimo Zanotto, Presidente del C.U.S. Venezia - A gratificare lo sforzo organizzativo c’è stata una buona risposta da parte delle scuole ed anche una nutrita rappresentanza di insegnanti sugli spalti».

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Sarebbe semplicistico affermare che “Ernani” consiste solo della musica di Verdi: una musica incalzante, trascinante, a tratti travolgente, baciata dalla grazia di una vena melodica sovrabbondante per energia e creatività; perché questa musica è stata pensata e scritta dal suo autore, musicista dall’infallibile intuito teatrale, come un vestito confezionato su misura per il dramma di Victor Hugo adattato da Francesco Maria Piave. Verdi, si sa, componeva per il teatro ed ogni sua nota era studiata per dare vita al personaggio, alla situazione, alla singola parola. Per questo è essenziale cogliere i nuclei drammatici di questa tragedia, “Ernani”, che può apparire irrimediabilmente estranea alla sensibilità moderna, con quei logori e vieti punti d’onore che l’etichetta della nobiltà spagnolesca anteponeva ad ogni altro valore umano; e che trovano la loro assurda apoteosi nella conclusione dell’opera, quando l’eroe si suicida mentre sta entrando nel talamo nuziale per tenere fede ad un ridicolo giuramento pronunciato in precedenza. Quindi, dove cercare l’anima drammatica di questo vuoto armamentario fatto di senso dell’onore, rigide gerarchie nobiliari, e il blasone, e l’onta ecc. ecc.? Prima di tutto, in quel connubio fra sentimenti privati e conflitti politici qui solo abbozzato ma che porterà, una volta approfondito, agli esiti nobilissimi del “Simon Boccanegra” e del “Don Carlos”. E poi nell’amore senile, così egoista e insieme così umano, così patetico, di Silva nei confronti di Elvira. Egoista, certo, ma anche meritevole di comprensione, perché un vecchio, come scrive Hugo mirabilmente ripreso nell’aria “Infelice e tu credevi”, può anche trovarsi a vivere la faticosa e inconciliabile contraddizione di un cuore giovane, capace di emozionarsi ed intenerirsi, custodito dentro un corpo in decadimento. E soprattutto diamo un’occhiata al protagonista, non solo tipico eroe romantico proscritto, perseguitato ed infelice, deciso a combattere fino alla fine contro la sorte avversa in nome della libertà personale e dell’amore; ma anche contraddistinto, meno convenzionalmente, dalla difficoltà a conciliare nel proprio io due personalità distinte, quella del fuorilegge e quella del nobiluomo. Il “bandito Ernani”, infatti, dovrebbe irridere, nel nome della sua scelta di vita romanticamente ribelle, il giuramento che Silva gli impone di osservare richiamandosi all’autorità del codice d’onore spagnolo. Per contro, ritornato don Giovanni d’Aragona in seguito all’indulto generale concesso a tutti i congiurati da re Carlo divenuto imperatore, gli spetterebbe il lieto fine; invece muore alla Ernani, cioè con un suicidio di sapore romantico, pur in osservanza di quel decrepito codice d’onore che solo a don Giovanni poteva importare. Quasi una doppia identità, insomma, da cui deriva un dramma interiore che rimanda ad un altro, umanamente ed artisticamente ben più intenso: quello vissuto da un altro personaggio di Hugo e Verdi dalla personalità dimidiata: Rigoletto. E di un tentativo di interpretazione psicologica di “Ernani” e soprattutto del suo protagonista si può parlare a proposito del nuovo allestimento presentato dalla Fenice in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia (regia di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame, costumi di Elena Beccaro, disegno luci di Marco Alba). Lo dimostra soprattutto il bel filmato iniziale in bianco e nero, che, durante l’ouverture, ci presenta un Ernani ragazzino attonito e rabbioso di fronte alla distruzione del castello di famiglia ed al seppellimento delle spoglie paterne. È chiaro che Ernani vivrà tutte le vicende successive raccontate nel corso dell’opera - a cominciare dall’amore per Elvira e dal desiderio di vendetta nei confronti del re - attraverso la lente deformante di quella terribile esperienza infantile, che tornerà a visitarlo in alcuni momenti topici sotto le apparenze di un guerriero medioevale coperto di ferro e dalle grandi ali bianche: è l’immagine del padre, col quale si ricongiungerà al momento della morte. Si intona a questa visione dell’opera l’impianto scenico, che presenta delle strutture architettoniche d’epoca in forma fortemente stilizzata secondo un modo che si potrebbe definire futurista oppure propone un palcoscenico nudo e buio. La pur apprezzabile intuizione registica di partenza non trova, però, uno sviluppo adeguato, dal momento che lo spettacolo tende a svolgersi in palcoscenico secondo modalità prevedibili e tutto sommato convenzionali, per cui, per esempio, questo Ernani si muove come qualunque altro Ernani della tradizione, senza che il suo trauma infantile abbia modo di manifestarsi in maniera visibile. Corrispondono ad una concezione tradizionale anche i funzionali costumi d’epoca: belli in particolare quelli di Silva, francamente brutti quelli vestiti dal coro durante la festa nuziale dell’ultimo atto così come le coreografie, del tutto estranee al contesto. Ma il problema vero è che lo spettacolo rappresentato alla Fenice, nel suo insieme di scena, musica e canto, sembra accusare un clima generale di scarsa attenzione nei confronti del contesto poetico e culturale rappresentato da “Ernani”, ove gli ideali assoluti e sublimi del romanticismo vengono declinati in chiave araldica, mentre sul palcoscenico sono talvolta proposti con un’ insufficiente sensibilità culturale e stilistica, che porta - non sempre ma più di qualche volta – ad esiti che appaiono fuori gusto. Così il maestro Riccardo Frizza conduce spesso l’orchestra verso un eccesso di platealità, abbandonandosi a sonorità fin troppo intense ed enfatizzando il versante risorgimentale, barricadiero dell’opera, a discapito di quello blasonato e dei momenti più lirici. Altrettanto si deve dire del coro diretto dal maestro Alfonso Caiani, che esegue bene “Si ridesti il Leon di Castiglia” mostrando compattezza ed un impatto sonoro adeguato, ma in altri momenti dà l’impressione di esprimersi in maniera un po’ brada e vociante. La regia, poi, spesso spinge i solisti ad atteggiamenti che non si confanno al loro rango: Elvira gesticola troppo e, complici anche la bella chioma nera, l’appariscente abito scarlatto e una spontanea sovrabbondanza di sensualità, fa venire in mente Carmen, senza contare che non appartiene al personaggio sguainare un pugnale in faccia al re; un gesto accettabile come frutto della disperazione solo nel finale nei confronti di Silva. E anche il re talvolta si dimentica di essere tale, mostrando un incedere non sempre elegante e consono al rango, mettendo le mani addosso ad un bandito, cioè Ernani, e sbattendo le sedie per terra. Anche il canto si dimostra in alcuni casi stilisticamente poco a fuoco. Il Don Carlo del baritono Ernesto Petti ha volume, timbro adeguato, omogeneità di suono, ma se queste doti lo sostengono nella declamazione, non sono sufficienti a rendere con attendibilità l’involo melodico dei pezzi lirici, ove si richiederebbero un’emissione più morbida e carezzevole, una modulazione più sciolta e spontanea. In generale, va tenuto presente che il re è giovanissimo, quindi è bene si presenti impetuoso, irruento, ma rimane sempre il re: la Spagna del XVI secolo non è il luogo adatto per confondere e superare le gerarchie. L’Elvira del soprano Anastasia Bartoli, poi, possiede uno strumento dovizioso soprattutto nella zona medio-acuta e di bel colore, ma di non facile gestione o almeno di gestione non ancora pienamente risolta. L’emissione sembra alla ricerca di una sua scioltezza e fluidità, con la conseguenza che il canto indugia sempre attorno al forte e le variazioni dinamiche scarseggiano. Altro ragionamento si deve fare per l’Ernani del tenore Piero Pretti, che porge e fraseggia con un’eleganza che ben si confà al personaggio, ma che talvolta sembra arrampicarsi su una parte troppo onerosa, che spinge a forzare – ed è un peccato - uno strumento prezioso per la fragranza tenorile del timbro e dell’involo. E un altro ragionamento ancora vale per il superbo Silva del basso Michele Pertusi, dal quale tutti dovrebbero andare a scuola di canto e di portamento per la presenza nobile ed austera e per l’emissione sempre morbida, rotonda, mai forzata, in grado di assecondare senza sforzo apparente le intenzioni dell’interprete. Solo due esempi: Un “Infelice! ...e tu credevi” da manuale non solo per la pienezza pastosa del suono ma anche per il raccolto eppure intenso senso di commozione; i “Morrà” pronunciati nel finale, appena appoggiati, eppure pieni e sonori fino all’ultima fila della platea. Sì, quando il suono è ben impostato, ci si può far sentire senza gridare. “Ernani” comunque è opera strappa applausi e tale si è confermata alla Fenice la sera di mercoledì 22 marzo, in una sala piacevolmente e festosamente gremita. Adolfo Andrighetti

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