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ALLA FENICE: UN "ERNANI" OPPRESSO DAI TRAUMI DEL PASSATO

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Inizierà da Cavallino Treporti l’edizione n.22 del Festival delle Due Città (Treviso-Venezia) considerato tra le più importanti kermesse chitarristiche internazionali e punto di rifermento mondiale per il genere musicale “New Classical World”: la novità dell’ “Anteprima Festival” al Museo Batteria Vettor Pisani di Ca’ Savio è annunciata dal Direttore Artistico della manifestazione, Andrea Vettoretti, che nell’occasione si esibirà nel “Quantum One Trio” assieme alla violoncellista, Riviera Lazeri ed al clarinettista, Fabio Battistelli (domenica 22 Settembre, ore 17.00). Da venerdì 27 a domenica 29 Settembre il Festival delle Due Città rientrerà nella tradizionale sede del Museo di Santa Caterina a Treviso, dove proseguirà il suo percorso di ricerca nel mondo della musica “di contaminazione” (classica, “world” e “crossover”) con tre concerti, che vedranno impegnati 6 virtuosi delle “sei corde” e spazieranno dal flamenco alla musica armena nel segno comune dell’innovazione musicale. Domenica 29 Settembre tornerà nel trevigiano Museo di Santa Caterina anche la Mostra Internazionale della Liuteria, cui si affiancherà la novità del “Young Platform Concert” eseguito da 10 allievi di Conservatorio. Venerdì 4 e sabato 5 Ottobre il Festival delle Due Città proseguirà nell’auditorium del Centro Candiani a Mestre con due serate dedicate a musica mediterranea, irlandese ed “etno world”. Il cartellone, i cui protagonisti saranno annunciati nei prossimi giorni, si concluderà mercoledì 4 Dicembre con l’ormai tradizionale concerto nelle Sale Apollinee del Gran Teatro La Fenice: ad esibirsi sarà lo stesso Direttore Artistico della manifestazione, Andrea Vettoretti, che nell’occasione anticiperà alcuni brani del nuovo CD “Il Respiro dell’Acqua” in uscita a fine anno. Grazie a questo progetto, Andrea Vettoretti è stato inviato a tenere un concerto anche in occasione del vertice mondiale “G7 dell’Agricoltura”, in calendario a fine Settembre nella città di Siracusa. Il Festival delle Due Città si conferma così essere una delle manifestazioni più attente all’evoluzione musicale nel mondo, puntando l’attenzione su un nuovo modo di fare musica, che parte dal percorso classico ed arriva a tradizioni culturali diverse in un tessuto continuo di esperienze correlate e componibili.
Contro il caldo opprimente nulla possono né la diplomazia, né il potere bancario e così, se la calura estiva sarà più sopportabile a Ginevra, il merito è della visionaria creatività italiana, targata Idrobase Group: è, infatti, nata a Borgoricco, nel Padovano, la tecnologia delle “isole di freschezza & salubrità”, come pratica risposta di adattamento alla crisi climatica. Ne sono apparse inaspettatamente in una dozzina di siti urbani dell’importante città elvetica e l’ innovativa presenza sta richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale; a presentarle sul mercato è la consociata Idrobase France, perchè oltralpe, così come nel cantone francofono della Svizzera, sono presenti normative (una prevede la creazione di oasi refrigeranti, l’altra regolamenta la qualità dell’acqua nebulizzata), che impongono aree cittadine di benessere, dove potersi difendere da afa e caldo. “In Italia, di fronte alla crisi climatica – commenta amaramente Bruno Ferrarese, contitolare di Idrobase Group – si consiglia ad anziani e persone a rischio di frequentare i centri commerciali, perché ambienti condizionati. All’estero, invece, si assume il problema come una questione sociale, cui contrapporre soluzioni pubbliche di adattamento. La nostra filosofia del respirare aria sana ha precorso i tempi e siamo sicuri che, entro breve, altri Paesi seguiranno l’esempio di Francia e Svizzera.” La normativa franco-svizzera è per altro estremamente severa e solo dopo attenti controlli è stata scelta la soluzione “made in Veneto”. L’acqua diffusa nelle oasi rinfrescanti è infatti microfiltrata in modo da eliminare particelle, sali minerali, calcare, nonchè sterilizzata contro ogni genere di virus, batteri, spore ed è dotata della soluzione tecnologica per prevenire il formarsi della temuta legionella. “Il nostro sistema nebulizzante è modulabile su aree di svariate dimensioni, adattandosi ai progetti, che stanno adottando le diverse municipalità – precisa Bruno Gazzignato, l’altro contitolare di Idrobase Group - Quello, che assicuriamo sempre è la salubrità della soluzione, frutto della qualità made in Italy.” “Le tecnologie dell’acqua in pressione sono il nostro core business qui declinato sulle esigenze di benessere all’interno di una comunità urbana – conclude Bruno Ferrarese – Come sempre, è curioso che ad intuirne le potenzialità siano prima di tutto all’estero, anche perché respirare aria sana è da tempo la nostra la nostra filosofia aziendale e non è certo legata alle normative di questo o quel Paese, ma è il nostro obbiettivo verso la comunità tutta.”
“Cambiare il paradigma finora rappresentato dal rapporto fornitore – cliente: io produco e tu acquisti, io detto le regole e tu esegui, vendendo i miei prodotti; prima comperavano da noi italiani, poi sono arrivati i cinesi, ora c’è voglia di emancipazione imprenditoriale nel Nord Africa” afferma Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group e così, in linea con gli obbiettivi del “Piano Mattei”, l’azienda leader nelle tecnologie dell’acqua in pressione e del “respirare aria sana” ha iniziato i contatti per avviare nuove linee produttive in Algeria e Libia. Il modello di “business” scelto dal gruppo imprenditoriale di Borgoricco, nel padovano, è un’originale integrazione fra “produzione su licenza” e “franchising”: individuati partner locali, Idrobase li metterà in rete, demandando la produzione su licenza di parte dei suoi componenti, assemblati in loco con il “cuore tecnologico” in arrivo dall’headquarter veneto, realizzando così macchinari ad alta qualità tecnologica “made in Italy”, ma a prezzi conformi con il mercato locale, cui sono destinati. Oltre che sulla fornitura di macchinari, gli accordi di partnership interesseranno il “know how”, la fornitura di alcuni particolari sensibili e l’utilizzo del marchio Idrobase, la cui promozione resterà però in capo alla casa madre italiana. “La nostra è una logica diversa dalla delocalizzazione, che chiude linee produttive in Italia per aprirle, dove il lavoro costa meno – precisa Bruno Ferrarese – Noi puntiamo ad aumentare i posti di lavoro, creando nuove opportunità di emancipazione produttiva per economie in crescita, concentrandoci in Italia sul core business aziendale, nonché su ricerca e sviluppo di prodotto. Perseguendo quanto già tracciato da Enrico Mattei negli anni ’50, ciò garantirà sviluppo su entrambe le sponde del Mar Mediterraneo, creando i presupposti per un futuro di pace.” Prima ad essere interessata dalla nuova strategia aziendale è l’Algeria con l’obbiettivo di partnership locali nei settori delle idropulitrici, dei nebulizzatori e dei detergenti; per quest’ultimo settore si stanno verificando opportunità produttive anche in Libia. Conclude il contitolare di Idrobase Group: “Contestualmente alla ricerca di nuove possibilità di mercato, puntiamo a rafforzare la nostra presenza in Cina nel settore del car washing; al contempo stiamo operando per la crescita del network Idrobase nel mondo: consolidata la presenza in Francia ed in crescita quella in Spagna, stiamo ora puntando agli Stati Uniti. In un mercato in costante evoluzione, la nostra caravella del made in Italy continua così a solcare i mercati della globalizzazione, creando collaborazioni sia all’estero che in patria.”
Si può sollevare qualche perplessità – umile, sommessa, sia chiaro – su “Ariadne auf Naxos” di Richard Strauss? Oppure tutto ciò che è uscito dalla mente del compositore tedesco e del suo coautore, il poeta Hugo von Hofmannsthal, deve considerarsi geniale a prescindere, quasi che per questa coppia di (grandissimi) artisti dovesse applicarsi quella presunzione di valore assoluto che si nega a tutti gli altri, anche altrettanto grandi? Insomma, si può dire che la drammaturgia di “Ariadne auf Naxos” sa di artificioso, di costruito, seppure abilmente? Certo non ha aiutato la laboriosa genesi dell’opera, concepita prima per accompagnare delle rappresentazioni della commedia “Bourgeois gentilhomme” di Molière e poi rilanciata come spettacolo autonomo con l’aggiunta di un Prologo, voluto proprio per dare una giustificazione sul piano drammatico a quanto succedeva dopo. Che poi i due autori siano riusciti nell’intento è discutibile, in quanto l’interazione, nell’opera vera e propria, delle maschere della commedia dell’arte con i personaggi del mito greco non scorre fluida ma appare traballante come un tavolino zoppo, al quale il Prologo cerca di restituire un equilibrio spiegando i motivi di questa forzata commistione fra due mondi che rimangono inconciliabili. La trovata del teatro nel teatro, poi, in base alla quale “Ariadne auf Naxos” consta di un’opera che ne costituisce la seconda parte e di un Prologo che racconta i preparativi per metterla in scena, oltre a non essere così originale, appesantisce ulteriormente una drammaturgia di per sé già laboriosa ed involuta. Per cui la versione definitiva di “Ariadne auf Naxos” si presenta quel 4 ottobre 1916 a Vienna con una struttura teatrale talmente costruita, talmente pensata – c’è chi dice genialmente pensata e sia pure – da risultare cerebrale se non addirittura cervellotica. Poi si sa, il pasticcio, anche se aggiustato alla meglio, esce sempre dalle mani non di un cuoco qualunque ma di uno chef della cultura di Hofmannsthal, la cui alta classe lascia qua e là nel testo segni inconfondibili ed eloquenti. Basti pensare all’assolo in cui Zerbinetta confessa, a sé stessa prima che ad Arianna, il segreto della propria femminilità, dalla passionalità trepida, fragile e fedele a sé stessa nella frenetica giostra dei partners. Per quanto riguarda la musica, poi, è preferibile lasciare spazio all’autorevolezza di Franco Abbiati, che così si esprime: “Strauss escogitò innumerevoli ed anche mirabili immagini orchestrali, incise passaggi armonici e tocchi timbrici squisiti, elaborò di gran belle arie, modellò eccellenti recitativi...Ma non fu il suo che un esercizio di alta scuola, il traguardo di una perfezione senza palpiti” (Abbiati, Storia della musica). Lo spettacolo in scena alla Fenice è in coproduzione fra il Teatro veneziano e quelli di Bologna e Trieste, ove si è già visto negli anni scorsi. È una messinscena che rassicura e gratifica il pubblico per la linearità, la chiarezza narrativa, la solida professionalità e il sano buon senso. Che qualche volta, poi, si corra il rischio della convenzionalità un po’ trita e non sempre di gusto impeccabile, come nei movimenti delle Maschere in sincrono col ritmo musicale, è quasi inevitabile in un’impostazione di questo tipo, che privilegia la comprensibilità rispetto all’originalità, e che va comunque apprezzata nel suo insieme proprio perché ricorda che il teatro per sua natura è chiamato a entrare in comunicazione con gli spettatori (paganti) e non rappresenta un’esperienza autoreferenziale. Il regista Paul Curran, molto bene assecondato nella sua visione dell’opera da Gary McCann (scene e costumi) e da Howard Hudson (disegno luci), ambienta il Prologo nella vasta sala, elegante, moderna, bianca e luminosa, di un’abitazione patrizia, ove sono in corso i preparativi per una festa importante. Il via vai dei personaggi, che battibeccano e si rincorrono nella tipica confusione che precede un grande evento, è organizzato con la giusta vivacità ed animazione, in un disordine apparente di cui la sicura mano del regista sa tenere saldamente le fila. Qui è protagonista il baritono austriaco Markus Werba, ottimo artista di casa alla Fenice da diversi anni, che domina la parte del Maestro di musica con piena padronanza tecnica e vocale, anche se la declamazione può risultare talvolta fin troppo imperiosa, quasi stentorea. Apprezzabile, ma perfettibile, risulta Il Compositore del mezzosoprano sudafricano Sophie Harmsen, che affronta l’impegnativo personaggio con apprezzabile impegno ma possiede la sensibilità e i mezzi vocali per scendere più in profondità nell’animo di questo giovane singolare e idealista, ancora convinto che si possa scrivere musica solo per esprimere i valori della bellezza e della verità artistica, senza scendere a compromessi di bottega. In fondo è l’unico personaggio veramente puro di “Ariadne auf Naxos”, considerato che la stessa protagonista, pronta a morire dopo la partenza dell’amato Teseo, finisce per sostituirlo prontamente con Bacco, applicando, certo con più nobiltà ma con gli stessi risultati, la filosofia spensierata e libertina di Zerbinetta. Tutti gli altri, che affollano il divertente e multicolore palcoscenico del Prologo, sono ben calati nella parte e adeguati al ruolo, a cominciare dal tenore di Skopje ma italiano d’adozione Blagoj Nacoski, un Maestro di ballo dalla caratterizzazione gay non particolarmente originale ma eseguita con misura e professionalità. Del tutto pertinente all’azione e all’ambiente anche l’attore bolzanino Karl-Heinz Maceck, un habitué dei ruoli recitati nell’opera lirica, il cui Maggiordomo è, come si conviene, disinvolto, noncurante e impegnatissimo nell’adempimento scrupoloso degli ordini del suo misterioso ed onnipotente signore. L’Opera che segue al Prologo si apre nella suggestiva ambientazione di una sorta di teatrino barocco ricostruito all’interno del palazzo. Qui Arianna piange calde e inconsolabili (?) lacrime sul suo amore perduto, circondata da Najade, Driade ed Eco (rispettivamente il soprano Jasmin Delfs, il mezzosoprano Marie Seidler, il soprano Giulia Bolcato, tutte proprio brave nell’unire le loro voci in un ensemble armonioso e mestamente elegiaco). Il contesto scenico è quello che tradizionalmente viene riferito ad una rappresentazione del mito classico e anche i bei costumi, nel Prologo moderni e molto colorati, rispondono a questo cliché. Ma l’insieme possiede un indubbio fascino evocativo e si sposa alla perfezione con le eleganti frasi musicali messe in bocca ad Arianna. L’attenzione viene catturata dal formidabile soprano USA Sara Jakubiak, che sfoggia come Arianna una colonna sonora compatta ed omogenea senza un’incrinatura e una smagliatura, veramente regale nell’ampiezza e nella solidità, eppure pronta a flettersi nell’espressione di ogni sfumatura espressiva dal pianissimo al fortissimo. Se fosse possibile avanzare qualche riserva su un’organizzazione vocale di tale splendore, sarebbe il caso di chiedersi se gli estremi acuti, peraltro pieni e convincenti, non potrebbero essere ancora più squillanti e risonanti e soprattutto dare meno l’impressione di rappresentare qualcosa di ‘aggiunto’, seppure abilmente, al resto dell’esecuzione, qualora fossero ‘girati’ in modo diverso. Con l’irrompere delle maschere, cambia completamente l’atmosfera. Il teatrino barocco perde la propria ragion d’essere e sparisce dal palcoscenico, sostituito dalla vasta sala con alti finestroni già vista nel Prologo. Qui si esprimono al meglio Arlecchino (il sonoro e ben timbrato baritono zurighese Äneas Humm), Scaramuccio (il tenore di Monaco di Baviera Mathias Frey), Truffaldino (il basso-baritono Szymon Chojnacki), Brighella (il tenore Enrico Casari). Tutti vestiti nelle diverse tonalità del rosa in sintonia cromatica con le luci, danno vita a dei siparietti in parte convenzionali, come si è accennato, ma caratterizzati da un simpatico tocco surreale, eseguiti con correttezza vocale e disinvoltura scenica. E poi, se prima è Sara Jakubiak a dominare la scena come Arianna, qui è lo spettacolare soprano USA Erin Morley a richiamare su di sé ogni attenzione ed ogni applauso. La sua Zerbinetta è vivida, luminosa, sensuale in ogni espressione, padrona della tecnica vocale e della scena, pirotecnica nelle agilità ma sempre con un’espressività ed una pienezza di suono che fanno di tali agilità non una semplice prova di bravura ma uno strumento comunicativo di cui il personaggio si serve per raccontare sé stessa. Giunge il momento del grande duetto d’amore fra Bacco e Arianna, purtroppo privato della sua carica passionale da un’ambientazione scenica livida e raggelante. Anziché riproporre, per esempio, il riuscito teatrino barocco, che sarebbe stato la degna cornice di un amore raccontato dal mito, ritroviamo la consueta grande sala, del tutto spoglia e illuminata da luci grige, prive di vita e di energia. In questo contesto così nudo ed insignificante, il grande amore fra Bacco e Arianna sembra non sbocciare mai, ma restare affidato solo ad una finzione di atteggiamenti e di gesti; un amore solo enunciato, nonostante la musica, mai vissuto. Ritroviamo, naturalmente, la sublime, nobilissima Arianna di Sara Jakubiak, mentre il Bacco del tenore USA John Matthew Myers non è abbastanza seducente sia nella voce, dal timbro anonimo salvo quando si illumina negli acuti, sia nella presenza scenica. Alla fine un Bacco un po’ frigido ed incolore nell’espressione del trasporto amoroso, pur nella correttezza complessiva dell’esecuzione. Ma va anche riconosciuto che del ruolo, più che ingrato, non ricordo esecuzioni che non si prestassero, per una ragione o per l’altra, a mende e riserve. L’interpretazione musicale, affidata ad un’orchestra del Teatro La Fenice in ottima sintonia con quel repertorio e alla direzione e concertazione del maestro Markus Stenz, è apparsa del tutto soddisfacente nel dare vita sia ai momenti di maggiore ampiezza sinfonica sia a quelli ironici ed ammiccanti, così come nel sottolineare le raffinatezze timbriche di una partitura che, da questo punto di vista, è un’autentica delizia. Adolfo Andrighetti
Ha giocato in casa il compositore trevigiano e direttore del Festival delle Due Città Treviso-Venezia, Andrea Vettoretti, per presentare ad un pubblico selezionato, in occasione della Giornata della Musica, la prima esecuzione dal vivo di due brani, che comporranno il nuovo lavoro dedicato alle forme dell’acqua; per il “Fuori Festival”, col padrone di casa sul palco del giardino Musikrooms si sono esibiti il virtuoso della chitarra andalusa, Paco Seco ed il duo olandese NIHZ con un repertorio di musica ebraica. Vettoretti, che viaggia ormai sui 70.000 “streaming” mensili (una platea di assoluto rilievo per un chitarrista “crossover”), sta intanto riscuotendo apprezzamento per “El segreto del agua”, il secondo brano disponibile in rete ed in cui l’artista unisce la maestosità della musica classica con l’energia pulsante di quella techno. Pubblicato da Compagnia Nuove Indye, il nuovo singolo segue la diffusione del brano “La Bellezza del Ghiaccio”, lanciato in Aprile. Altri due singoli sono previsti entro la fine dell’anno, anticipando l’uscita del nuovo album. Lo spettacolo dal precedente concept-album “Quantum One” è tuttora in tour con l’attrice Violante Placido ed il Vettoretti Trio con Riviera Lazeri al violoncello e Fabio Battistelli al clarinetto. Altre info sul sito www.andreavettoretti.it .
Si ripete anche quest’anno l’appuntamento con la Festa della Musica nel Giardino Musikrooms, a Treviso; il cartellone nazionale 2024 ha per tema “La prima orchestra siamo noi” sotto l’egida di Commissione Europea, Ministero della Cultura, Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento per le Politiche Giovanili ed il Servizio Civile Universale). A partire dalle ore 20.00 di domani, in viale Pasteur 38, l’ “Anteprima Festival delle Due Città” presenterà il duo NIHZ con un repertorio di musica ebraica, il flamenco del chitarrista andaluso, Paco Seco ed il “New Classical World” del chitarrista trevigiano e padrone di casa, Andrea Vettoretti. Seguirà cena a buffet ed a lume di candela. Ingresso su prenotazione: festival@musikrooms.com Informazioni: www.musikrooms.com
Con “Il Bajazet” di Antonio Vivaldi (libretto di Agostino Piovene da una tragedia di Jacques Pradon), andata in scena la prima volta il 1735 al Teatro Filarmonico di Verona (perché non a Venezia sarebbe intrigante investigarlo) e ora al Malibran, il regista Fabio Ceresa continua quell’opera di investigazione dello spirito del melodramma barocco che ha conosciuto una tappa del tutto diversa ma altrettanto significativa con la messinscena di “Orlando furioso”, sempre di Vivaldi. Il tentativo, pienamente riuscito, operato allora da Ceresa e ora reiterato con modalità diverse ma con lo stesso spirito, è quello di scendere al fondo del gusto barocco per afferrarne la specificità e riproporla attraverso uno stile adatto ai tempi nostri e insieme fedele all’originale. La sfida nell’”Orlando furioso” viene affrontata e vinta mettendo in scena una sorta di neobarocco ad imitazione deliziosamente affettuosa, ironica e quasi fanciullesca, dell’originale; un’operazione che richiede la sorridente complicità di artefici e pubblico, uniti nel vivere una finzione che, nell’impossibilità di riproporre gli spettacoli barocchi originali, li richiama nello spirito così come oggi può essere capito ed apprezzato. Ne “Il Bajazet” la logica è molto diversa. Qui Ceresa, con l’apporto decisivo di Massimo Checchetto (scene), Giuseppe Palella (costumi) Fabio Barettin (luci), Sergio Metalli (video), si trova a dover rendere accattivante per il pubblico del 2024 un ‘pasticcio’: cioè un’opera la cui drammaturgia originale è sviluppata nei recitativi, mentre le arie provengono da opere diverse, non rappresentando altro che una compilation di quelle all’epoca giudicate più riuscite, più virtuosistiche e di maggiore effetto. Le arie, separate dal contesto drammatico, rappresentano delle oasi di bellezza e anche di esibizionismo canoro ciascuna autosufficiente rispetto alle altre, ciascuna animata da una vita artistica e musicale propria. Nel caso de “Il Bajazet”, informa il maestro Federico Maria Sardelli che dirige l’opera al Malibran, sono di Vivaldi i recitativi, i numeri di insieme e dodici arie (quelle di Bajazet, Asteria e Idaspe), alcune scelte da Sardelli per colmare i vuoti della partitura; mentre sette, eseguite dagli altri personaggi, sono di compositori più giovani di Vivaldi e all’epoca assai di moda: Hasse, Giacomelli e Riccardo Broschi, il fratello del celebre evirato Farinelli. Ebbene, Ceresa riesce nella quadratura del cerchio di rispettare la logica del ‘pasticcio’ come parata di pezzi di bravura privi di un tessuto connettivo drammatico, pur riproponendola secondo modalità che la rendono non solo comprensibile ma anche felicemente – si potrebbe dire entusiasticamente dopo la serale di martedì 11 giugno – fruibile da parte del pubblico; perché, se ciò che si aspettavano gli spettatori del settecento da una serata a teatro ed in particolare da un ‘pasticcio’ era il divertimento, divertimento sia anche nel 2024. Così, mentre per i recitativi i cantanti sono collocati in proscenio davanti al leggio e tutti vestiti di nero, come si trattasse dell’esecuzione di un’opera in forma di concerto o di una prova all’italiana, i venticinque pezzi chiusi si succedono uno dopo l’altro come una serie di siparietti del tutto autonomi l’uno dall’altro e differenti per ambientazione, epoca e impostazione realizzativa: ciascuno un microcosmo immaginato a partire da testo e musica nel quale si racconta una brevissima storia. È lo stesso regista che spiega di essersi ispirato a “Carosello”, la storica trasmissione televisiva pubblicitaria degli anni sessanta, composta di una serie di scenette in ciascuna delle quali si promuoveva un prodotto attraverso un brevissimo filmato auto concluso. Ed è innegabile che i siparietti permettono a Ceresa un tale scatenarsi della fantasia e della creatività da suscitare nello spettatore di oggi quel senso della meraviglia che è identitario del gusto barocco e la cui rivitalizzazione si può considerare un’operazione filologica almeno altrettanto importante quanto eliminare, ce lo spiega il maestro Sardelli, tiorba e chitarra dal basso continuo. È impossibile descrivere quanto succede nei venticinque siparietti, nei quali trova espressione l’universo immaginifico di un regista in grado di evocare infinite atmosfere e situazioni teatrali, dalla tragedia alla farsa passando attraverso un riuscito umorismo, da Jack lo squartatore a Supermario e a Jessica Rabbit, dalle turcherie affascinanti nella loro sublime artificiosità agli abissi del mare e agli orizzonti sconfinati del cosmo celeste. Ma la galleria che si dipana davanti agli occhi del pubblico è quanto di più attraente e accattivante si possa immaginare, nel suo continuo e sorprendente cangiare di situazioni, ambientazione, costumi. Certo, qualcosa si potrebbe limare di questa sovrabbondante creatività, eliminando ad esempio alcune scivolate nel farsesco (Bajazet che diventa Super Mario, appunto, oppure la scena sadomaso che vede impegnata addirittura l’eroina Asteria), ma nell’insieme non si può negare di trovarsi di fronte ad un’operazione quasi geniale nella sua capacità di andare al fondo del gusto barocco rendendolo appetibile per il pubblico di oggi. La fantasmagoria dei siparietti sarebbe fine a sé stessa se non accompagnasse altrettanta meravigliosa varietà delle arie, nella cui esecuzione si impegna con ottimi esiti una compagnia di canto affiatatissima, del tutto consapevole delle esigenze tecniche e stilistiche imposte dal canto barocco e, dote non secondaria, in grado di adeguarsi alle richieste stringenti della regia (a cominciare dai continui e vorticosi cambiamenti d’abito) con una sorprendente e divertita disponibilità. Una menzione speciale va riservata al controtenore Raffaele Pe, un Andronico trepido e sensibile come si conviene all’amoroso della compagnia e dalla grande perizia tecnica, che ammalia con il suo timbro cremoso e rotondo nelle arie patetiche, quando lo strumento non è forzato nell’invettiva ma può adagiarsi nell’espressione elegiaca. L’artista, poi, si dimostra attore finissimo in alcuni siparietti umoristici. Gli è pari il mezzosoprano Lucia Cirillo, un’Irene spericolata nelle arie di bravura anche se un po’ alle corde nelle agilità di forza più acute, ma capace di sedurre con un canto morbido e raccolto nei momenti lirici. Le sue doti di attrice, poi, già ben note al pubblico della Fenice insieme a quelle vocali, hanno modo di esaltarsi ulteriormente in questa occasione. Altrettanto riuscita l’Asteria del mezzosoprano Loriana Castellano, dalla vocalità fluida e corposa anche se non sempre a fuoco nelle note gravi, e straordinariamente disinvolta nei siparietti, a cominciare da quello ove si presenta come un’eroina sadomaso. Il contralto Sonia Prina, Tamerlano, mette in campo la sicurezza di chi è padrona del repertorio. Si segnala per l’incisività del fraseggio e della dizione soprattutto nei recitativi, declamati con la giusta enfasi, oltre che – anche lei! – per la duttilità delle doti sceniche, grazie alle quali, ad esempio, può eseguire un’aria impegnativa mentre, in piedi sulla sommità di una scala alquanto alta, finge di manovrare con i fili un uomo-marionetta posto ai suoi piedi. Da segnalare per la fresca vocalità l’Idaspe del soprano Valeria La Grotta, mentre risulta forse penalizzato dall’acustica del ‘contenitore’ in cui si svolgono i siparietti il Bajazet del baritono Renato Dolcini, autorevole nei recitativi eseguiti in proscenio e invece un po’ esangue, pur nella correttezza dell’approccio stilistico, nelle arie. Il maestro Federico Maria Sardelli mette a disposizione dal podio tutta la propria competenza e il proprio amore per Vivaldi, con esiti significativi tanto nel patetico quanto nell’agitato, che sa restituire entrambi con partecipazione e comunicativa. Adolfo Andrighetti
Sono 60 ugelli con una pressione di lavoro pari a 60 bar e capaci di nebulizzare 42 litri d’acqua al minuto, posizionati su una rampa lunga 18 metri: è l’ effetto nebbia dell’impianto scenografico, realizzato alle celebri Terme romane di Caracalla, richiamando l’attenzione del mondo; a realizzare modulo, sistemi filtranti ed ugelli nebulizzatori è stata Idrobase Group, azienda con headquarter a Borgoricco nel padovano e leader mondiale nelle tecnologie per l’utilizzo dell’ acqua in pressione e per “respirare aria sana”. “Stavolta, finalmente, siamo profeti in Patria – commenta Bruno Gazzignato, contitolare dell’industria veneta – Non è la prima volta, che partecipiamo alla realizzazione di fontane ed impianti scenografici, dalla Polonia al Kuwait, ma questa opportunità è stata unica, perché siamo intervenuti sulla storia in un sito di straordinario fascino. E’ un fantastico biglietto da visita.” “Siamo un’azienda vocata all’internazionalizzazione, dove realizziamo il 97% del nostro business, ma siamo particolarmente orgogliosi di questo lavoro, perché frutto di un impegnativo lavoro di squadra, ulteriore esempio delle grandi capacità della filiera del made in Italy” aggiunge Bruno Ferrarese, anch’egli contitolare di Idrobase Group. Grazie ad un innovativo intervento della Soprintendenza Speciale di Roma è così ora possibile rivivere la presenza dell’elemento idrico alle Terme di Caracalla, grazie ad uno specchio d’acqua di grandi dimensioni, dove si riflettono le maestose architetture termali e deputato ad essere uno spazio per arte, spettacolo e creatività contemporanea. La sua realizzazione è il primo step di un progetto finalizzato a restituire la percezione originaria dei luoghi a 1800 anni dalla costruzione, attivando il ricordo dell’antica funzione termale. Sullo specchio d’acqua sarà possibile assistere a giochi d’acqua e di luce ed alla nebulizzazione idrica, ideata per ricreare la suggestione del vapore negli ambienti riscaldati delle antiche terme. Lo specchio d’acqua, che si configura come una vera installazione architettonica, è stato ideato e progettato dall’architetto altoatesino, Hannes Peer e realizzato in collaborazione con il collega trevigiano, Paolo Bornello. Sul fondale della vasca, 20 getti completamente immersi ed accompagnati da altrettanti riflettori realizzano giochi d’acqua e di luce. Il palco è perimetrato su tre lati con un led lineare a luce calda e, nel lato lungo, con un impianto di nebulizzazione idrica, in grado di produrre la nube, ricreando la suggestione del vapore negli ambienti riscaldati. Nel rispetto del “claim" aziendale “Respira aria sana”, l’acqua nebulizzata è priva di micro particelle ed è sterilizzata da apposite apparecchiature, che la rendono libera da elementi (virus , batteri, spore, etc.), che potrebbero essere inalati, provocando, in alcuni casi, seri problemi alle vie respiratorie. Nei prossimi anni le Terme di Caracalla diventeranno un sito archeologico, riprogettato in chiave contemporanea per renderlo all’avanguardia nella fruizione culturale della Capitale.
La sostenibilità è ancora un concetto poco chiaro, percepito soprattutto in riferimento a tematiche ambientali e non viene associato ad aspetti sociali e di “governance”: è quanto emerge da un’indagine di Molino Rachello presso i propri stakeholders e riportata a commento del primo bilancio di sostenibilità dell’azienda molitoria con sede a Musestre, nel trevigiano e presentato in occasione dell’annuale meeting “Terreni d’incontro” con i partner del progetto Oasi. “Si tratta di una scelta etica e volontaria, perché vogliamo misurare, rendicontare e monitorare le attività ed i progetti collegati alle tematiche ESG, valorizzando il nostro contributo all’Agenda ONU 2030: sono 10 gli obiettivi e 17 i target, che validano le azioni da noi finora intraprese per garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo” dichiara Gabriele Rachello, Direttore Generale del Molino, giunto alla sesta generazione. Il bilancio è articolato in tre “impegni” per consapevolezza alimentare, ambiente e persone: per ognuno vengono presentate le scelte fin qui messe in atto, nonchè indicati gli orizzonti e gli obbiettivi, che l’azienda vuole raggiungere. Molino Rachello fattura annualmente 31 milioni di euro e macina circa 52.000 tonnellate di grano (di cui 8.000 bio), da cui ne ricava 40.000 di farina; il 97% del mercato è nazionale con preponderanza del Triveneto: il 53% della produzione è destinata all’industria alimentare, il 31% al comparto artigiano, 8% ai distributori, il 5% alla Grande Distribuzione Organizzata ed ai suoi panifici; la linea “Oasi Rachello”, composta da farine di cereali italiani con filiera certificata e controllata, rappresenta al momento circa il 10% del volume e si rivolge sia al canale professionale che a quello del consumatore finale attraverso i supermercati e la vendita on-line. I valori affermati sono quelli di sicurezza e trasparenza, tracciabilità e controllo di filiera, innovazione e ricerca (trasmissione di competenze e “know how”), digitalizzazione (ottimizzazione dell’efficienza produttiva), nutrizione sana (incentivazione di metodi colturali naturali e biologici, nonchè organizzazione di momenti informativi, indirizzati all’opinione pubblica). Ne è esempio, l’esperienza delle Oasi Rachello, vale a dire terreni agricoli italiani (attualmente in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Toscana), ubicati lontano da fonti d’inquinamento e dove viene promossa un’agricoltura controllata, secondo un condiviso disciplinare colturale a basso impatto ambientale; ai produttori viene riconosciuto un premio aggiuntivo, che va dal 5% al 7% in più rispetto ai listini della borsa merci di Bologna. Un’interessante conferma arriva dal confronto fra le aree coltivate in modo convenzionale e quelle biologiche: queste ultime hanno una minore incidenza sull’ecosistema, dovuta all’uso limitato di fertilizzanti ed all’assenza di fitofarmaci. Sono varie le certificazioni internazionali di processo e prodotto, che testimoniano l’impegno aziendale verso la sicurezza alimentare: dalle ISO 22005 e 9001 (rintracciabilità della filiera e qualità dei processi interni) alla IFS (International Food Standard) per il rispetto di vincoli e requisiti su qualità e sicurezza dei prodotti alimentari. Il rispetto per l’ambiente è da sempre parte del DNA aziendale e scelte d’impresa mirano costantemente ad una gestione sostenibile delle risorse, riducendo gli sprechi, utilizzando e producendo energia rinnovabile (da Maggio 2024, il 100% di quella utilizzata in azienda deriva da fonti rinnovabili ed il 5% è autoprodotta). Proprio l’esperienza delle Oasi permette di ridurre fortemente le emissioni di anidride carbonica, legate alle attività agricole necessarie alla produzione del grano. Nel ciclo produttivo di Molino Rachello non esistono praticamente scarti di lavorazione, perché anche la crusca ed il cruschello, cioè le parti più esterne del chicco, sono utilizzati per la produzione di farine integrali o destinati a mangime zootecnico (la quantità di rifiuto corrisponde allo 0,05% della materia prima utilizzata, mentre il 72,6% dei rifiuti collegati al ciclo produttivo sono riciclabili). Grande attenzione viene dedicata a “packaging” totalmente riciclabili seppur, per legge, i confezionamenti in carta a diretto contatto con prodotti alimentari devono essere composti da prodotto vergine; ciò significa che i pack non possono derivare da materiali riciclati. Utilizzando un LCA (Life Cycle Assessment) è anche emerso che il ciclo di vita dell’organizzazione aziendale ha impatti significativi sull’ambiente, dovuti per quasi il 92 % alla produzione agricola del grano, e per poco più dell’8% alla fase di produzione farina, packaging e trasporto. Per mitigarli, Molino Rachello si impegna ad attuare azioni mirate ed inserite, per quanto possibile, tra i propri obiettivi futuri. In quest’ottica, con la piattaforma X Farm è stato avviato un progetto triennale 2022-2024, articolato su 3 macro aree: progetto agronomico per lo sviluppo e la gestione di modelli previsionali di agricoltura di precisione; soluzioni digitali per il monitoraggio della filiera; gestione e valorizzazione della sostenibilità di filiera, con calcolo integrato dell’impronta carbonica in campo, per individuare azioni migliorative. Collaboratori, fornitori e clienti sono un patrimonio prioritario per Molino Rachello. Per i dipendenti è stato attivato un programma di welfare aziendale e formazione interna, mentre con i fornitori si ricerca costantemente la condivisione di valori comuni ed un coinvolgimento continuo. Infine, quella con la clientela (artigiani della panificazione, pizzaioli, pasticceri e ristoratori) è una vera propria partnership, basata su attività di consulenza di prodotto e formazione professionale. “Questo primo bilancio di sostenibilità – conclude Gabriele Rachello – rappresenta un punto di partenza importante, perché ci ha permesso di prendere piena consapevolezza dell’impatto delle nostre scelte sull’ambiente. Il nostro impegno rimane ora rivolto al miglioramento continuo, al cambiamento ed all’innovazione, perché vogliamo essere riconosciuti come azienda affidabile, credibile e soprattutto sostenibile.”
E’ iniziata col botto la partecipazione della rappresentativa del C.U.S. Venezia ai Campionati Nazionali Universitari in corso di svolgimento in Molise e cui partecipano circa 2000 studenti: Nicolae Bologa (tesserato per il Dojo Sacile) ha vinto il titolo nel judo (categoria fino a kg. 90), sconfiggendo in finale Tommaso Fava del C.U.S. Camerino; il neo tricolore aveva in precedenza superato judoka universitari di Pisa e Napoli. Dal judo è arrivata anche la medaglia di bronzo di Mattia Tomaselli (Judo Tamai) nella categoria fino a kg.73; in semifinale si è dovuto arrendere a Vincenzo Petruccione Junior del C.U.S. Napoli, poi medaglia d’argento. Un secondo posto è invece arrivato dall’atletica leggera, dove Tommaso Forner (Assindustria Sport Padova) ha conquistato la medaglia d’argento sui 3000 siepi, dietro a Roberto Boni del C.U.S. Modena - Reggio Emilia; terzo è arrivato Davide Rapallo del C.U.S. Torino. Ora (lunedi) inizia l’avventura del C.U.S. Venezia nel torneo finale di pallavolo femminile, mentre mercoledì sarà la volta della scherma.

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Sarebbe semplicistico affermare che “Ernani” consiste solo della musica di Verdi: una musica incalzante, trascinante, a tratti travolgente, baciata dalla grazia di una vena melodica sovrabbondante per energia e creatività; perché questa musica è stata pensata e scritta dal suo autore, musicista dall’infallibile intuito teatrale, come un vestito confezionato su misura per il dramma di Victor Hugo adattato da Francesco Maria Piave. Verdi, si sa, componeva per il teatro ed ogni sua nota era studiata per dare vita al personaggio, alla situazione, alla singola parola. Per questo è essenziale cogliere i nuclei drammatici di questa tragedia, “Ernani”, che può apparire irrimediabilmente estranea alla sensibilità moderna, con quei logori e vieti punti d’onore che l’etichetta della nobiltà spagnolesca anteponeva ad ogni altro valore umano; e che trovano la loro assurda apoteosi nella conclusione dell’opera, quando l’eroe si suicida mentre sta entrando nel talamo nuziale per tenere fede ad un ridicolo giuramento pronunciato in precedenza. Quindi, dove cercare l’anima drammatica di questo vuoto armamentario fatto di senso dell’onore, rigide gerarchie nobiliari, e il blasone, e l’onta ecc. ecc.? Prima di tutto, in quel connubio fra sentimenti privati e conflitti politici qui solo abbozzato ma che porterà, una volta approfondito, agli esiti nobilissimi del “Simon Boccanegra” e del “Don Carlos”. E poi nell’amore senile, così egoista e insieme così umano, così patetico, di Silva nei confronti di Elvira. Egoista, certo, ma anche meritevole di comprensione, perché un vecchio, come scrive Hugo mirabilmente ripreso nell’aria “Infelice e tu credevi”, può anche trovarsi a vivere la faticosa e inconciliabile contraddizione di un cuore giovane, capace di emozionarsi ed intenerirsi, custodito dentro un corpo in decadimento. E soprattutto diamo un’occhiata al protagonista, non solo tipico eroe romantico proscritto, perseguitato ed infelice, deciso a combattere fino alla fine contro la sorte avversa in nome della libertà personale e dell’amore; ma anche contraddistinto, meno convenzionalmente, dalla difficoltà a conciliare nel proprio io due personalità distinte, quella del fuorilegge e quella del nobiluomo. Il “bandito Ernani”, infatti, dovrebbe irridere, nel nome della sua scelta di vita romanticamente ribelle, il giuramento che Silva gli impone di osservare richiamandosi all’autorità del codice d’onore spagnolo. Per contro, ritornato don Giovanni d’Aragona in seguito all’indulto generale concesso a tutti i congiurati da re Carlo divenuto imperatore, gli spetterebbe il lieto fine; invece muore alla Ernani, cioè con un suicidio di sapore romantico, pur in osservanza di quel decrepito codice d’onore che solo a don Giovanni poteva importare. Quasi una doppia identità, insomma, da cui deriva un dramma interiore che rimanda ad un altro, umanamente ed artisticamente ben più intenso: quello vissuto da un altro personaggio di Hugo e Verdi dalla personalità dimidiata: Rigoletto. E di un tentativo di interpretazione psicologica di “Ernani” e soprattutto del suo protagonista si può parlare a proposito del nuovo allestimento presentato dalla Fenice in coproduzione con Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia (regia di Andrea Bernard, scene di Alberto Beltrame, costumi di Elena Beccaro, disegno luci di Marco Alba). Lo dimostra soprattutto il bel filmato iniziale in bianco e nero, che, durante l’ouverture, ci presenta un Ernani ragazzino attonito e rabbioso di fronte alla distruzione del castello di famiglia ed al seppellimento delle spoglie paterne. È chiaro che Ernani vivrà tutte le vicende successive raccontate nel corso dell’opera - a cominciare dall’amore per Elvira e dal desiderio di vendetta nei confronti del re - attraverso la lente deformante di quella terribile esperienza infantile, che tornerà a visitarlo in alcuni momenti topici sotto le apparenze di un guerriero medioevale coperto di ferro e dalle grandi ali bianche: è l’immagine del padre, col quale si ricongiungerà al momento della morte. Si intona a questa visione dell’opera l’impianto scenico, che presenta delle strutture architettoniche d’epoca in forma fortemente stilizzata secondo un modo che si potrebbe definire futurista oppure propone un palcoscenico nudo e buio. La pur apprezzabile intuizione registica di partenza non trova, però, uno sviluppo adeguato, dal momento che lo spettacolo tende a svolgersi in palcoscenico secondo modalità prevedibili e tutto sommato convenzionali, per cui, per esempio, questo Ernani si muove come qualunque altro Ernani della tradizione, senza che il suo trauma infantile abbia modo di manifestarsi in maniera visibile. Corrispondono ad una concezione tradizionale anche i funzionali costumi d’epoca: belli in particolare quelli di Silva, francamente brutti quelli vestiti dal coro durante la festa nuziale dell’ultimo atto così come le coreografie, del tutto estranee al contesto. Ma il problema vero è che lo spettacolo rappresentato alla Fenice, nel suo insieme di scena, musica e canto, sembra accusare un clima generale di scarsa attenzione nei confronti del contesto poetico e culturale rappresentato da “Ernani”, ove gli ideali assoluti e sublimi del romanticismo vengono declinati in chiave araldica, mentre sul palcoscenico sono talvolta proposti con un’ insufficiente sensibilità culturale e stilistica, che porta - non sempre ma più di qualche volta – ad esiti che appaiono fuori gusto. Così il maestro Riccardo Frizza conduce spesso l’orchestra verso un eccesso di platealità, abbandonandosi a sonorità fin troppo intense ed enfatizzando il versante risorgimentale, barricadiero dell’opera, a discapito di quello blasonato e dei momenti più lirici. Altrettanto si deve dire del coro diretto dal maestro Alfonso Caiani, che esegue bene “Si ridesti il Leon di Castiglia” mostrando compattezza ed un impatto sonoro adeguato, ma in altri momenti dà l’impressione di esprimersi in maniera un po’ brada e vociante. La regia, poi, spesso spinge i solisti ad atteggiamenti che non si confanno al loro rango: Elvira gesticola troppo e, complici anche la bella chioma nera, l’appariscente abito scarlatto e una spontanea sovrabbondanza di sensualità, fa venire in mente Carmen, senza contare che non appartiene al personaggio sguainare un pugnale in faccia al re; un gesto accettabile come frutto della disperazione solo nel finale nei confronti di Silva. E anche il re talvolta si dimentica di essere tale, mostrando un incedere non sempre elegante e consono al rango, mettendo le mani addosso ad un bandito, cioè Ernani, e sbattendo le sedie per terra. Anche il canto si dimostra in alcuni casi stilisticamente poco a fuoco. Il Don Carlo del baritono Ernesto Petti ha volume, timbro adeguato, omogeneità di suono, ma se queste doti lo sostengono nella declamazione, non sono sufficienti a rendere con attendibilità l’involo melodico dei pezzi lirici, ove si richiederebbero un’emissione più morbida e carezzevole, una modulazione più sciolta e spontanea. In generale, va tenuto presente che il re è giovanissimo, quindi è bene si presenti impetuoso, irruento, ma rimane sempre il re: la Spagna del XVI secolo non è il luogo adatto per confondere e superare le gerarchie. L’Elvira del soprano Anastasia Bartoli, poi, possiede uno strumento dovizioso soprattutto nella zona medio-acuta e di bel colore, ma di non facile gestione o almeno di gestione non ancora pienamente risolta. L’emissione sembra alla ricerca di una sua scioltezza e fluidità, con la conseguenza che il canto indugia sempre attorno al forte e le variazioni dinamiche scarseggiano. Altro ragionamento si deve fare per l’Ernani del tenore Piero Pretti, che porge e fraseggia con un’eleganza che ben si confà al personaggio, ma che talvolta sembra arrampicarsi su una parte troppo onerosa, che spinge a forzare – ed è un peccato - uno strumento prezioso per la fragranza tenorile del timbro e dell’involo. E un altro ragionamento ancora vale per il superbo Silva del basso Michele Pertusi, dal quale tutti dovrebbero andare a scuola di canto e di portamento per la presenza nobile ed austera e per l’emissione sempre morbida, rotonda, mai forzata, in grado di assecondare senza sforzo apparente le intenzioni dell’interprete. Solo due esempi: Un “Infelice! ...e tu credevi” da manuale non solo per la pienezza pastosa del suono ma anche per il raccolto eppure intenso senso di commozione; i “Morrà” pronunciati nel finale, appena appoggiati, eppure pieni e sonori fino all’ultima fila della platea. Sì, quando il suono è ben impostato, ci si può far sentire senza gridare. “Ernani” comunque è opera strappa applausi e tale si è confermata alla Fenice la sera di mercoledì 22 marzo, in una sala piacevolmente e festosamente gremita. Adolfo Andrighetti

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