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Asterisco Informazioni di Fabrizio Stelluto

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“Elisir di si’ perfetta, di si’ rara qualita’...”

02/11/2010
Può essere divertente ma anche istruttivo leggere “L’elisir d’amore”, la popolarissima opera che Gaetano Donizetti compose su di un eccellente libretto di Felice Romani tratto dalla commedia di Eugene Scribe “Le philtre”, come una parodia di Tristano e Isotta, l’antica leggenda di origine celtica collocabile intorno all’IIX secolo d.C., ripresa più tardi dalle medioevali “canzoni di gesta” francesi; ma anche come una sdrammatizzazione anticipata, semplice e sorridente, dell’opera di Wagner, che segue quella di Donizetti di più di trent’anni: capolavoro, quello del musicista tedesco, certo sublime, ma in un modo talvolta così ampolloso ed enfatico – e per responsabilità degli esegeti forse più che dell’autore – da prestarsi quasi inevitabilmente ad una presa in giro liberatoria.

Il parallelo è suggerito dalla stessa Adina, la ricca fittavola di cui è cotto il paesano Nemorino, che, nella sua cavatina, comunica ai mietitori che sta leggendo una storia che le dà molto gusto, quella appunto di Tristano e Isotta; senza immaginare che di lì a poco sarà chiamata a riviverla in una chiave molto diversa.

In effetti, il terribile filtro preparato dalla maliarda madre di Isotta qui diventa una fiaschetta di bordeaux spacciato come elisir d’amore da un ciarlatano ambulante; i due amanti sublimi, provenienti da leggende che affondano nella notte dei tempi, sono sostituiti da due tenere figurine da idillio campestre, come la fittavola ricca e capricciosa e il giovanotto buono ma ingenuo; la solenne ambientazione araldica fatta di cavalcate e duelli lascia il posto ad un contesto paesano di bucolica serenità ma anche chiuso e pettegolo; la passione erotica assoluta di Tristano e Isotta, tutta giocata intorno al binomio amore e morte, viene ridotta al corteggiamento un po’ sciocco di due giovani che si studiano, si annusano, si girano intorno fra mille indugi e ripicche prima di scoprire che, insomma, in zona non c‘è di meglio; quindi, tutto quanto nella leggenda è grandioso, sublime, terribile, nell’opera di Donizetti è rimpicciolito, banalizzato, ridotto alla quotidianità, per cui dal confronto fra le due dimensioni l’effetto parodistico scaturisce inevitabile.

Tuttavia, la maliziosa lezione impartita da Adina a Dulcamara, che cerca di piazzarle l’elisir, vale per allora come per oggi, per la fresca favola contadina di Donizetti come per l’universo corrusco e sublime in cui sono immersi Tristano e Isotta. Non ho bisogno dei tuoi intrugli, dice Adina al ciarlatano, per conquistare Nemorino, perché “la ricetta è il mio visino, in quest'occhi è l'elisir”. Il che è come dire: non esiste nulla che possa indurre forzatamente un sentimento e tanto meno l’amore fra uomo e donna, che può nascere solo dal libero incontro fra le persone. Quindi non si può considerare vero amore quello che lega Tristano e Isotta, perché è indotto dal filtro magico, non il frutto di una scelta spontanea e consapevole; perde così ogni connotato umano per assumere le inquietanti sembianze del diabolico, per cui l’attrazione diventa ossessione, il cercarsi continuo una condanna, l’unione dei corpi e dei cuori una costrizione, irresistibile ma anche inevitabile. Per cui si capisce che anche la piccola, semplice opera giocosa italiana della prima metà dell’800, può contenere, seppure in via mediata, una piccola, semplice, profonda risposta ai problemi posti da quei monumenti musicali e filosofici che sono le opere wagneriane.

Ma, prima ancora, “L’elisir d’amore” è l’opera che compie l’impresa, in apparenza impossibile, di andar oltre il comico rossiniano, proponendo un umorismo meno meccanico, meno da cartone animato, ma più realistico, più umano, ingentilito da quella vena sentimentale che a Donizetti era molto congeniale. Se si pensa, poi, che questa nuova comicità è realizzata attraverso una miniera di melodie fresche e zampillanti, irresistibili per grazia e felicità inventiva, capaci di caratterizzare con singolare efficacia i caratteri psicologici dei singoli personaggi, l’assoluto valore storico e artistico di “Elisir” balza agli occhi.

E alla Fenice è stata riservata all’”Elisir” l’accoglienza dovuta ad un amico di famiglia molto amato, che non si vede da tanto tempo e ritorna a trovarci più brillante e divertente che mai.

Il regista è il veneziano Bepi Morassi, che ripropone, con degli aggiornamenti, il suo spettacolo del 2003. E’ una regia spigliata, scanzonata, la sua, che non sembra prendersi troppo sul serio né prendere troppo sul serio l’opera, pur rispettandone l’identità. La componente buffa è enfatizzata rispetto a quella sentimentale attraverso un profluvio di trovate e gags, alcune proprio simpatiche, come Dulcamara che canta il suo pezzo finale “Ei corregge ogni difetto” entrando dal fondo della platea accompagnato da due assistenti-veline che distribuiscono dolcetti al pubblico, già visto nel 2003 ma sempre di bell’effetto teatrale; altre invenzioni, invece, risultano più convenzionali e dal retrogusto di déjà vu. Ma, insomma, l’insieme diverte e molto sia il pubblico sia gli interpreti, creando fra palcoscenico e platea un simpatico clima di complicità. Quindi va bene così; anzi, molto bene, anche se un lavoro di ripulitura che eliminasse qualche gags superflua gioverebbe, così come una maggiore attenzione alla componente larmoyant dell’opera, che trova proprio nel geniale equilibrio fra comico e patetico il suo principale motivo di fascino.

Le scene di Gianmaurizio Fercioni, molto essenziali, che incorporano alcune riproduzioni dei fondali dipinti utilizzati per la premiere dell’”Elisir”, non sembrano sempre adatte alla rutilante regia. I costumi, dello stesso Fercioni, sono gradevoli ed appropriati, nonostante qualche inopinata oscilazione fra un look tradizional-paesano ed uno corrispondente ai canoni estetici di oggi.

Sul palcoscenico opera un cast di straordinari specialisti; un manipolo di marpioni, sia detto con l’intenzione più affettuosa e ammirata, capace con una nota o un’occhiata di conquistare il pubblico, metterselo in tasca e portarselo dove vuole. E il pubblico, naturalmente, non chiede di meglio e risponde alla grande, vivendo la vicenda a stretto contatto emotivo con gli interpreti e subissandoli alla fine di applausi grati e commossi.

Il capocomico di questa compagnia di guitti sublimi non può che essere il baritono napoletano Bruno De Simone, fuoriclasse del melodramma giocoso e buffo. Detto questo, conta nulla che qualche nota grave sia appena accennata, che il fiato talvolta sia un po’ corto (dovrebbe imprestargliene un po’ il ben più giovane Nemorino), che lo strumento non sia mai stato iperdotato né per bellezza di timbro né per volume. Conta, invece, che, non solo ma anche attraverso di lui, erede sopraffino della leggendaria scuola dei buffi napoletani, trovi moderna incarnazione il miracolo del teatro in musica, permettendo a questa scatola magica ove si canta invece che parlare di spalancarsi ancora e ancora sciorinando davanti agli occhi stupefatti di chi l’ama tutte le sue meraviglie. De Simone nel suo repertorio è signore del canto, per il fraseggio sempre espressivo, pertinente, incisivo e spiritoso, per la musicalità spiccata e l’intonazione precisa; ed è signore del palcoscenico, dominato con una presenza mai invadente, che trova nell’accenno, nell’allusione, nel tic, la sua irresistibile cifra espressiva.

Accanto ad un capocomico di questo livello si danno da fare altri artisti di assoluto valore. La primadonna, il soprano palermitano Désirée Rancatore, è una Adina fresca, spiritosa e molto divertita, ugualmente sicura e convincente tanto nel canto di coloratura quanto in quello patetico. Difficile immaginare di meglio in questo repertorio, che l’artista domina con esiti di alto livello e con sicurezza assoluta.

L’amoroso, il giovane tenore canario Celso Albelo, è un Nemorino prezioso, dal timbro cristallino e carezzevole, ma capace, quando occorra, di accenti vigorosi. I fiati sono interminabili e quindi il legato è agevole. L’interprete ha personalità, non ha paura del palcoscenico, su cui si muove con assoluta disinvoltura, né del pubblico, con cui entra subito in empatia: e questa è una dote importante almeno quanto le capacità vocali per imporsi nel teatro in musica. Bisogna correggere qualche sporadica forzatura di emissione, lavorare ancora sull’accento e sul fraseggio, non accontentarsi insomma, e l’eccellenza è a portata di mano. Il direttore gli concede due puntature fuori ordinanza, ben acchiappate e a lungo tenute. Scandalo? No, per chi crede che il teatro d’opera sia vita, gioia e divertimento e non un museo ove di tanto in tanto si scoprono dei simulacri polverosi per esporli al culto dei devoti. Ben venga, quindi, entro i limiti opportuni, l’aggiunta di qualche bell’acuto soprattutto per chiudere le cadenze, ove, nel melodramma italiano del primo ottocento, si tendeva a lasciare libertà esecutiva al cantante; purché quest’ultimo, ovviamente, oggi come ieri o l’altro ieri, sappia eseguire a puntino. Il secondo buffo, il baritono Roberto De Candia, è un Sergente Belcore ruvido e spiccio come il personaggio richiede, ma un’emissione più morbida e rotonda in certi momenti poteva essere appropriata e avrebbe permesso di giocare su di una maggiore varietà di tinte.

Il giovane maestro Matteo Beltrami crea un bell’amalgama fra l’orchestra ed il palcoscenico, requisito fondamentale per la buona riuscita di questo repertorio e fa sempre le scelte giuste di tempi e di colori. Nelle dichiarazioni rilasciate alla vigilia comunicava la sua preoccupazione per il bilanciamento tra le voci e l’orchestra, ricordando giustamente come gli ottoni moderni siano più sonori di quelli che comparivano nelle orchestre del primo ottocento. In effetti qualche eccesso dinamico di tanto in tanto si è avvertito, ma non al punto da inficiare una prova che, nel suo insieme, può considerarsi di ottimo livello. Il coro, cui Donizetti affida un ruolo importante di accompagnamento e di commento delle vicende, è quello del teatro, diretto da Claudio Marino Moretti, e si disimpegna bene sia nel canto sia nella recitazione.

Adolfo Andrighetti

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