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Eccellente “Favorite” di Donizetti senza divi, ma con veri artisti

19/05/2016
Eccellente “Favorite” di Donizetti senza divi, ma con veri artistiE’ sorprendente quali capolavori riuscissero a sfornare i musicisti italiani fra settecento e primo ottocento utilizzando materiale proveniente da altre opere da loro composte. La prassi era diffusa, facilitata dalla concezione che si aveva dell’opera come di una realtà che prendeva vita solo in palcoscenico; prima era considerata più o meno come un’esercitazione, un’antologia di pezzi, comunque qualcosa che non era riconosciuto come un prodotto unitario dell’ingegno da tutelare in quanto tale.

Tanta disinvoltura era però premiata dalla dea della musica, perché capitava che questi prelievi si inserissero nel nuovo contesto drammaturgico come se lì fossero nati e, uniti alla musica nuova, formassero non un centone ma un insieme coerente e spesso affascinante.

Rossini fu il campione impareggiabile di questo sistema, che lo vedeva accostare i brani musicali con la stessa facilità e felicità di esiti con cui sapeva combinare gli ingredienti in cucina. Dopo di lui il costume teatrale cominciò a mutare e la prassi degli imprestiti declinò fino a sparire del tutto con Verdi. Ma non prima che Donizetti ne ricavasse un altro risultato di tutto rispetto con “La favorite”, su libretto di Alphonse Royer e Gustave Vaez, in prima assoluta all’Opéra di Parigi il 2 dicembre 1840 e rimasta in repertorio praticamente fino ai giorni nostri nella versione italiana grazie alla predilezione che i maggiori mezzosoprani hanno sempre mostrato per il ruolo della protagonista.

La Fenice ha fatto benissimo a proporre in questi giorni la versione originale in francese, perché quella italiana presenta, rispetto alla prima, diverse differenze, sia di natura musicale sia nel significato delle parole e delle frasi. Ma, prima ancora, va ricordato che, nel genere dell’opera, le note sono pensate in relazione alla sonorità, alla musicalità, al ritmo interno di una determinata lingua, che crea con la musica una relazione così intima che è pericoloso spezzare.

“La favorite” non è certo la più riuscita fra le opere serie di Donizetti, il quale ci ha donato nel filone titoli talmente belli e noti che non è neppure il caso di menzionare. Tuttavia, se si pensa che la maggior parte della musica proviene da “L’Ange de Nisida” mai rappresentata causa il fallimento dell’impresario che gliela aveva commissionata, e che non mancano altri prestiti quantitativamente più ridotti (“Spirto gentil” viene da “Le Duc d’Albe”), non si può che rimanere sorpresi dalla compattezza, dalla organicità strutturale, dalla felice ispirazione che caratterizzano “La favorite”.

Del resto va riconosciuto che, per una volta, la vicenda non è di ostacolo alla vena del compositore. Il perno è rappresentato dalla collocazione severa, nel convento di San Giacomo di Compostela, del Primo e Quarto Atto, che chiudono così, in una struttura rigorosa e coerente, il Secondo ed il Terzo, di ambientazione mondana. In questo modo si evidenzia ed acquista piena efficacia drammaturgica il contrasto fra la santità un po’ lugubre del convento, incarnata dall’austerità del canto del priore Balthazar, ed il mondo cortigiano e cavalleresco, esposto a tutte le passioni umane, rappresentato dal re e dalla sua corte, e al quale appartiene suo malgrado anche Léonor. Fra l’una e l’altra realtà soffre e si dibatte come dimidiato Fernand, novizio del convento. Il giovane è preso da Léonor al punto da dimenticare la sua vocazione religiosa e poi – dopo averla ritrovata ma come reazione alla scoperta che la sua amata è la “maitresse du roi” – da metterla definitivamente da parte nel finale, quando si ritrova di fronte la sua donna.

Se la riproposta, di alto profilo culturale, della versione originale francese di “La favorite” è completamente riuscita, si deve alla bravura del maestro Donato Renzetti e al cast assemblato con grande competenza dalla direzione artistica del Teatro. Renzetti, che gode della fama – evidentemente meritata – di donizettiano a denominazione di origine, ha sciorinato, insieme all’orchestra ed al coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti, un’interpretazione di alto livello e di grande efficacia teatrale. Ha saputo tenere sempre sostenuta la tensione drammatica che innerva la partitura attraverso la scelta appropriata dei tempi e delle dinamiche, senza però dimenticare la cura del suono, restituito bello, nitido, pieno. Nello stesso tempo ha conferito ampiezza e respiro al fraseggio orchestrale, come è risultato evidente nei concertati che sono stati valorizzati al meglio, ed ha accompagnato con sensibilità i cantanti.

Eccellente il cast, composto non da divi o da fenomeni dell’ugola, ma da professionisti preparatissimi, impegnati, dotati, che sanno fare al meglio il loro lavoro; e particolarmente meritevoli perché tutti debuttanti – ma era impossibile accorgersene - nei rispettivi ruoli.

Veronica Simeoni, Léonor – a suo agio anche in un ruolo “falcon” più che da mezzosoprano puro come questo – sembra nata per il repertorio del primo ottocento, ancora segnato dall’influsso del belcanto ma già aperto verso un’espressività più realistica e meno stilizzata: vi fa valere la sua ben nota educazione vocale legata ad un’accorta padronanza della tecnica e dello stile, che le permette un’emissione omogenea e morbida, un canto sempre sul fiato e mai spinto, insieme ad una sensibilità interpretativa mai esibita, mai plateale, eppure intensa e vibrante.

Le è accanto il Fernand di squisito lirismo di John Osborne, che dimostra una sensibilità spiccata – particolarmente adatta alla prosodia francese - per un fraseggio raffinato ove il gusto del pronunciare e del porgere riveste un’importanza prioritaria. Se aggiungiamo lo smalto prezioso della voce e la facilità nel salire all’acuto, abbiamo un interprete di primo livello in questo repertorio.

L’Alphonse XI del baritono Vito Priante è padrone della nobile cantabilità che Donizetti riserva alla parte. Lo è in virtù di uno strumento morbido e duttile, pronto a sfumare e a rinforzare secondo le necessità, di bel colore brunito e di buona pasta baritonale.

Il basso sudcoreano Simon Lim è un Balthazar autorevole, severo e ben impostato sul piano vocale.

Pienamente risolti anche i due ruoli comprimari: il giovanissimo tenore peruviano (è del 1993!) Ivan Ayon Rias è un Don Gaspar squillante e di bella voce come una prima parte e merita di essere ascoltato in ruoli più impegnativi; il soprano francese Pauline Rouillard è una Inès ben impostata e a suo agio nella parte.

Purtroppo la messa in scena – una coproduzione della Fenice con l’Opéra Royal de Wallonie di Liegi dovuta a Rosetta Cucchi (regia), Massimo Checchetto (scene), Claudia Pernigotti (costumi), Fabio Barettin (luci) – si sovrappone in maniera gratuita alla drammaturgia dell’opera, che ne risulta quasi bloccata, sterilizzata.

L’idea della regia è quella di collocare la vicenda in un mondo atemporale ma proiettato nel futuro, dominato dalla sopraffazione dell’uomo sulla donna, che è condannata ad una rassegnata passività. Pareti e strutture di plexigas hanno la funzione di costringerla, di privarla dello spazio vitale. Il re Alphonse XI, degno duce di questo mondo artificiale e violento, è un aggressivo che non si sa controllare e il cui braccio artificiale possiede una stretta micidiale. Il convento di San Giacomo di Compostela, con buona pace dei numerosi riferimenti cristiani contenuti nel libretto, è rivisto come una setta postmoderna, i cui adepti custodiscono con dedizione misticheggiante, all’interno di teche trasparenti, dei lacerti di vita vegetale, probabilmente gli ultimi rimasti sulla terra.

La messa in scena non è priva di suggestione, per esempio nella cura con cui sono assemblate e movimentate le masse femminili, dalle quali sprigiona un efficace senso di rassegnata apatia che va ormai oltre il dolore; e nei bei costumi femminili, bianchi e velati. Meno bella la spoglia scenografia di plastica, anche se funzionale nella descrizione di un universo da cui la vita reale è stata bandita. Molto, molto meno bello il balletto su movimenti coreografici di Luisa Baldinetti, insufficiente a dare l’idea della festa in quella che comunque è una corte regale o qualcosa di simile.

Ma il problema è che la scelta registica, più adatta ad una serie televisiva di fantasy fantascientifico che ad un’opera del primo romanticismo italiano, appare pretestuosa e forzata se calata sul mondo de “La favorite”, al punto da congelare in una dimensione irreale, quasi onirica, gli snodi principali del dramma, a cominciare dalla scelta trasgressiva e di rottura di Léonor, che decide di vivere ed amare nonostante la realtà in cui è inserita la voglia oggetto e non persona. Lo stesso afflato poetico ed emozionale della melodia donizettiana ne risulta impoverito, anodino, privato del sostegno di un contesto teatrale pertinente.

Alla serale cui si riferiscono queste note successo cordiale ma inferiore ai meriti del podio e dei cantanti.

Adolfo Andrighetti

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