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“Lucia di Lammermoor” potrebbe intitolarsi “Enrico Asthon”

10/05/2017
“Lucia di Lammermoor” potrebbe intitolarsi “Enrico Asthon”Da dove cominciare la recensione della felicissima “Lucia di Lammermoor”, musica di Gaetano Donizetti e poetico libretto di Salvatore Cammarano, andata in scena in questi giorni alla Fenice? Forse dall’entusiasmante esecuzione musicale, che il pubblico saluta spellandosi le mani con gli applausi per venti minuti buoni alla serale cui si riferiscono queste note? O forse dalla brillante intuizione del regista Francesco Micheli, fra l’altro direttore artistico della Fondazione Donizetti di Bergamo?

Va bene, cominciamo da Micheli. La sua idea, di certo vincente, prevede di promuovere Enrico al rango di vero protagonista della vicenda, letta come un lungo flashback nel corso del quale l’ultimo Asthon, distrutto dal rimorso per aver imposto la ragion di Stato alla sorella Lucia fino a provocarne la follia e la morte, rivive quei tragici avvenimenti ora da protagonista diretto, secondo quando gli richiede la parte, ora da spettatore attonito e muto. Sempre presente in scena, se non canta si trascina come un uomo spezzato da un angolo all’altro del palcoscenico, spesso seduto con la testa fra le mani in un eloquente atteggiamento di disperazione, talvolta come ripiegato su se stesso in un rifiuto totale della realtà esterna.

Lo interpreta il baritono viennese Markus Werba, un signor artista, che si cala con autorità e disinvoltura nel ruolo di protagonista di fatto che gli attribuisce la regia: un protagonista sofferente, introverso, problematico, piuttosto che arrogante e protervo; bisognoso di uno psicoanalista, si potrebbe anche dire.
Per questo tipo di personaggio, continuamente bisognoso del sostegno del fido Normanno per non crollare, la voce di Werba è perfetta. L’artista è conosciuto al pubblico della Fenice soprattutto per Mozart. In “Lucia” il suo strumento elastico, di colore chiaro ma pronto a sostenere con rotondità il cantabile, ottiene il massimo risultato. Werba, poi, ci aggiunge di suo un fraseggio nervoso che è l’ideale per un Enrico in perpetua crisi esistenziale. Nell’insieme, un’interpretazione di alta classe.

Il fratello di Lucia, del resto, è la prima vittima di un sistema che si regge sulla difesa a qualunque costo della famiglia e della tradizione: periscano gli uomini, ma sia salvo il casato, ben simboleggiato dalla catasta di vecchi mobili che ingombra la scena (lo scenografo è Nicolas Bovey) e dalla foto dei genitori, che, insieme alla croce, viene sempre mostrata ad Enrico, a rammentargli qual è il suo dovere. Tutt’attorno, come fondale, illuminato dalle suggestive e fosche luci di Fabio Barettin, un ciclorama, cioè una vasta scena ricurva dipinta con immagini della natura, a simboleggiare l’orizzonte di libertà assoluta e di felicità verso il quale la “bell’alma innamorata” vorrebbe “spiegare l’ali” insieme con il suo Edgardo. Ma già si sa che, nell’immaginario romantico, la felicità e l’amore sono possibili solo in una dimensione ultraterrena e quindi nella morte.

L’eccellente idea di base del regista è sostenuta dai costumi di Alessio Rosati, che gioca sulla differenziazione dei colori: verde per gli affiliati al clan degli Asthon, rosso per la fazione avversa dei Ravenswood, bianco di prammatica – ma ci sta – per il candore liliale della sventurata Lucia. Risulta, invece, ininfluente nell’economia dello spettacolo e nella raffigurazione degli incubi di Enrico, la trasposizione temporale della vicenda ai primi del Novecento, in base all’idea, troppo cerebrale e discutibile, secondo la quale quello sarebbe l’ultimo periodo di vita dell’Italia contadina, ancora attaccata alla “roba” (Giovanni Verga docet) come la terra e, appunto, i mobili.
Né giova all’efficacia dello spettacolo quel lavorare per addizione anziché per sottrazione che appartiene alla cifra artistica di Micheli, ma che, in questo caso, con la frequente aggiunta di simboli, di elementi, di segni, di allusioni, finisce per mettere troppa carne al fuoco e per attutire la forza drammatica della presenza allucinata di Enrico in palcoscenico, che sarebbe valorizzata da un contesto più essenziale.

Ma a rendere memorabile questa “Lucia” è stata in primo luogo la magistrale interpretazione che ne ha dato sul podio il maestro Riccardo Frizza, ottimamente coadiuvato dal cast e dagli impeccabili complessi artistici della Fenice. Frizza aveva dichiarato che “Lucia” rappresenta l’eccellenza del belcanto e quindi era sua intenzione sottolineare tutti gli aspetti caratteristici del linguaggio del primo Ottocento, come il canto legato, le varianti, le cadenze, l’elasticità del respiro musicale. Ora, si deve riconoscere che il maestro non è stato di parola. Infatti, non si limita a fare della sua esecuzione una festa dell’opera del primo romanticismo italiano, respirando con i cantanti e valorizzandone l’apporto vocale nelle variazioni, nelle puntature, prima ancora nello svolgersi sinuoso della melodia. In più riesce, grazie anche ai tempi serrati ma mai frenetici, ad infondere alla partitura una vitalità, una teatralità, una drammaticità, che l’ha resa palpitante e coinvolgente. Emozionanti in particolare tutti i pezzi d’assieme, a cominciare dal sestetto “Chi mi frena in tal momento”, reso con una intensità travolgente ma lontana dall’enfasi o dalla ricerca dell’effetto fine a se stesso.

Di alto livello il cast, dominato dalla stupefacente Lucia del soprano USA Nadine Sierra, classe 1988. La ragazza può contare, prima di tutto, su di un timbro inconfondibile di qualità pregiata: un impasto carnoso e morbidissimo, caldo e sensuale, eppure luminoso, splendente, scintillante in acuti e sovracuti che squillano intemerati e perfino insolenti. Ma tutto ciò sarebbe nulla se le doti naturali non fossero sostenute da un imposto tecnico impeccabile, messo vittoriosamente alla prova nelle infinite difficoltà vocali della parte, affrontate, per di più, non con un atteggiamento da usignolo meccanico, che sgrana agilità con algida indifferenza, ma con un’intensità emotiva ed una capacità di comunicazione commoventi. Il temperamento artistico di prim’ordine le consente di essere una Lucia viva, donna fino in fondo, lontana dal cliché dell’eroina romantica angelicata, tutta rossori e timidezze.

Non mi vergogno ad ammettere di aver passato gran parte della scena della pazzia - restituita secondo le intenzioni originali di Donizetti alle arcane sonorità della glassarmonica – con le lacrime agli occhi, tanta è la capacità del giovane soprano di entrare in empatia con il pubblico, di coinvolgerlo, di avvincerlo, di scuoterlo dalle viscere: prima di tutto grazie ad un canto tecnicamente perfetto eppure carico di pathos in virtù di un fraseggio di rara varietà ed espressività; e poi per l’abilità di trarre il massimo risultato drammatico dalla figura avvenente, attraverso un gioco scenico di ammirevole efficacia, ove tragicità e tenerezza, rabbia e rassegnazione, realismo e astrazione, si fondono in un’interpretazione da lasciare a bocca aperta. La ragazza, insomma, sta studiando da prima donna, ma di quelle che si conquistano le stellette sul campo, cioè sui palcoscenici, e non per grazia mediatica ricevuta.

L’Edgardo del tenore Francesco De Muro sembra proprio un ragazzo: per la presenza in scena, per gli atteggiamenti e, prima ancora, per la voce, che è usata con garbo, proprietà e anche con un certo slancio, ma è priva di spessore e muscolarità, anche quando la parte li richiederebbe. Il risultato è un adolescente velleitario, piombato in un gioco troppo grande per lui e dal quale finisce stritolato. Il che non vuol dire un Egardo non riuscito, anzi, al contrario. Perché l’adolescente è un eroe romantico impotente e sconfitto, ma ricco di sentimento, di desiderio, di passione. E tutto questo l’artista lo sa esprimere con il canto.

Il sudcoreano Simon Lim, Raimondo, potrebbe sembrare uno di quei bassi dotati di uno strumento efficace e massiccio ma alieno da sfumature. Invece, messo alla prova, si dimostra capace di alleggerire l’emissione in sonorità più morbide e di lanciare acuti pieni e ben timbrati. Svolge il suo compito al meglio, ma dovrebbe essere più caldo e comunicativo nell’approccio alla parte.

Un Arturo da leccarsi i baffi, per sicurezza di squillo e bellezza di timbro, quello del tenore Francesco Marsiglia. Eccellente anche il tenore Marcello Nardis nel ruolo, molto ben caratterizzato dalla regia con l’insostituibile contributo dell’artista, di un Normanno visto come il vero uomo forte del clan Asthon. Inappuntabile l’Alisa del mezzosoprano Angela Nicoli. Formidabile, come e più di sempre, l’apporto del coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti.

Adolfo Andrighetti

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