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Fenice: si inaugura la stagione con il trionfo di Macbeth

06/12/2018
Fenice: si inaugura la stagione con il trionfo di  MacbethSi può dire che “Macbeth” è la partitura più intensa, più potente, più inquietante, fra tutte quelle che ha composto Verdi? Una partitura in tutto degna della tragedia shakespeariana da cui è tratta, della quale raccoglie e condensa, con geniale efficacia, il nucleo drammatico, mettendolo a nudo con poderosa energia?
La tragedia originale, infatti, si avvantaggia dell’essenzialità verdiana, che la spoglia di ogni verbosità e la incide nella pietra e nel ferro, evidenziando, come in un altorilievo di impressionante forza scultorea, la trista vicenda di adorazione sanguinaria del potere vissuta dai due protagonisti, che escono sfiniti, disillusi se non addirittura folli (la Lady) dalla scelta disumana. Attorno e sullo sfondo, un Medio Evo nordico dall’aspetto arcaico, roccioso, barbarico, attraversato da passioni elementari e totalizzanti, sospeso fra la dimensione orizzontale della terra e del sangue ed un’altra, più rarefatta ma non meno incombente, intessuta di presagi e brividi soprannaturali.
Tutto questo ed altro ancora è “Macbeth”. Quindi diciamolo pure che è la più straordinaria e rivoluzionaria partitura di Verdi e l’inaugurazione della stagione d’opera 2018-2019 del Teatro La Fenice è l’occasione giusta per ribadirlo; anche sottolineando, se necessario, che il primo Verdi, quello che precede “Rigoletto”, “Trovatore” e “Traviata” e del quale “Macbeth” è l’espressione più evoluta e innovativa, non è un cartone preparatorio del Verdi maturo, ma possiede totale dignità ed autonomia artistica, soprattutto nei vertici di “Nabucco”, “Ernani” e, se è consentito, anche di “Attila”.

“Macbeth” andò in scena al Teatro della Pergola di Firenze il 4 marzo 1847, con grande impegno del compositore severo ed inflessibile (secondo la testimonianza della protagonista Marianna Barbieri Nini), il quale costrinse solisti e masse a più di un centinaio di prove. La stessa cantante lamenta di aver impiegato tre mesi di studio mattina e sera nella preparazione della parte, né tanto meglio doveva stare il baritono Felice Varesi, cui Verdi non dava tregua. Ma forse il più bistrattato fu, come sempre, il “poeta”, Francesco Maria Piave, che, oltre a subire come di consueto la pressione dell’incontentabile compositore, dovette anche accettare l’umiliazione di vedere i suoi versi corretti da Andrea Maffei, intellettuale à la page, chiamato in soccorso da Verdi.
Ma ciò che più conta è la revisione cui l’opera fu sottoposta per Parigi e che rappresenta la versione definitiva dell’opera, quella che circola tuttora nei teatri. A Parigi “Macbeth” andò in scena il 21.4.1865 (in lingua italiana solo il 28.1.1874, alla Scala). Se la struttura originale rimane sostanzialmente intatta, non vi è dubbio che le modifiche l’arricchiscono ulteriormente.
Basti pensare, per esempio, all’aggiunta, per la Lady, di un brano di straordinaria potenza drammatica come “La luce langue” al posto della convenzionale aria “Trionfai, securi alfine”. Ma anche i ballabili, inserimento indispensabile per assecondare il gusto parigino, non sono affatto da buttare, se è vero che Riccardo Muti li considera fra le pagine più complesse e complete del Verdi sinfonico. Non li ascoltiamo alla Fenice, in quanto il direttore e concertatore, il maestro sudcoreano Myung-Whun Chung, non ama inserire momenti di ballo nelle opere di Verdi: e non gli si può dare torto, considerato che interrompono una drammaturgia musicale serrata e riportata sempre all’essenziale.
Viene cambiato anche il finale del terzo atto: al posto dell’aria di routine “Tra le fiamme in polve cada”, il furibondo duetto all’unisono “Ora di morte e di vendetta”, grondante sangue e ferocia. Nel quarto atto, abbiamo una nuova versione del coro, che diventa il mirabile, struggente “Patria oppressa” che conosciamo. Quindi, cambia il finale: qualche rimpianto suscita in alcuni la sostituzione del declamato di Macbeth “Mal per me che m’affidai”, che infatti viene recuperato anche alla Fenice ed inserito all’interno della versione ultima dell’opera, subito dopo il notevole fugato, questo sì nuovo, che serve ad esprimere la concitazione della battaglia. Come nuovo è il coro conclusivo “Macbeth, Macbeth ov’è?”, forse enfatico ma animato da una fiera baldanza guerriera che elettrizza.

Il protagonista assoluto del “Macbeth” che ha aperto la stagione d’opera 2018-2019 della Fenice è stato, com’era ampiamente prevedibile, Myung-Whun Chung. Il maestro sudcoreano è uno dei più prestigiosi direttori d’orchestra di oggi e probabilmente il più significativo fra quelli apparsi sul podio del teatro veneziano, insieme con il compianto Jeffrey Tate. Forse il fatto di accostarsi per la prima volta alla partitura verdiana lo ha aiutato a guardarla con una visuale fresca, rinnovata, e a restituirla con una energia narrativa così coinvolgente, unita ad una attenzione ai dettagli così accurata e sensibile, da suscitare giustamente l’entusiasmo del pubblico in sala.
Myung-Whun Chung, coadiuvato da un’orchestra in forma smagliante, racconta “Macbeth” con una intensità drammatica impressionante, un ritmo narrativo sempre teso al punto da mozzare il fiato, un’acutezza da pelle d’oca nel sottolineare gli inquietanti brividi - evocativi del mysterium iniquitatis in cui è immersa la vicenda - da cui è attraversata la partitura. Cava dal golfo mistico scosse telluriche ma anche brividi sinistri, fremiti diabolici, esaltando tutti i cangianti colori di cui è intessuta l’orchestra di “Macbeth” e conferendo alla musica un’intensità straziante, che afferra lo spettatore e non lo molla mai.
Questo miracolo musicale si è avverato all’interno della messa in scena di Damiano Michieletto, coadiuvato dai suoi collaboratori storici, cioè Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Fabio Barettin per le luci, cui si sono aggiunti i movimenti coreografici di Chiara Vecchi.
L’idea di base, indubbiamente stimolante, è quella di valorizzare la sofferenza di Macbeth per il suo desiderio di paternità frustrato dalla morte di una figlia e poi esacerbato fino a diventare patologico. Ma, ancora una volta, va ribadito l’ovvio: e cioè che, in teatro, non basta partire da un’intuizione giusta o comunque meritevole di essere presa in considerazione, ma occorre che questa si traduca in una realizzazione teatrale coinvolgente, capace di comunicare ed emozionare. L’allestimento proposto, invece, risulta eccessivamente concettuale e cerebrale. La preoccupazione di comunicare un’idea attraverso la ripetitività dei simboli prevale sulla volontà di rendere tale idea accostabile e fruibile da parte del pubblico. Il messaggio, in sostanza, sembra contare più dello strumento attraverso il quale viene veicolato e della sua efficacia teatrale.

La scenografia prevede, sui due lati del palcoscenico, una serie di tubi al neon con andamento verticale, talvolta illuminati e talvolta spenti, con l’aggiunta di qualche telone di plastica, che ora funge da siparietto, ora incombe minaccioso sulla scena, ora avvolge i numerosi cadaveri di cui è generosa la trama. Questa scena, così nuda, così stilizzata ed asettica, sembra bloccare la vicenda, paralizzarla, congelarla in una dimensione astratta, più immaginata che reale, più psicoanalitica che storica, descrivendo la realtà così come la vedono Macbeth e la Lady. È una scelta del tutto corrispondente e funzionale alla concezione registica, che vuole dimostrare più che raccontare, privilegiando l’idea astratta sulla ricerca di un’efficace drammatizzazione.
Secondo questa visione di teatro, la comunicazione avviene attraverso simboli. Fra questi, sempre presenti con pedanteria didascalica, quelli infantili, a rappresentare la paternità negata di Macbeth: bambine, che nell’immaginario del protagonista rappresentano la figlia scomparsa; altri bambini, i figli di Banco e Macduff; palloncini; pelouche; altalene, che nell’ultimo atto piovono dall’alto a simboleggiare la foresta di Birnam. Si vuole mostrare troppo, come se la musica non fosse abbastanza eloquente: sono superflui gli psicofarmaci consegnati alla Lady nel primo atto, è più significativo che la sua follia sia l’ultimo esito di una malvagità spinta al parossismo e non l’inverso, e cioè che la malvagità sia un prodotto della follia; è superfluo - un’esagerazione macabra - lo scheletro portato in braccio da Banco durante la festa: è sufficiente la sua presenza immaginata da Macbeth; sono superflue le corone da morto durante il coro “Patria oppressa”: basta la patina di grigiore mortuario, l’alone di mestizia desolante priva di ogni speranza, in cui Myung-Whun Chung avvolge il brano, coadiuvato dall’eccezionale coro del teatro istruito da Claudio Marino Moretti; è superflua la presenza della sposa e dei figli di Macduff durante la sua aria: li porta nel cuore, è inutile farli vedere.
Le streghe, spesso alle prese con i teloni di plastica, sono raffigurate come delle immagini oniriche, più distanti che inquietanti, un’apparizione misteriosa ed indecifrabile che assiste alla tragedia piuttosto che parteciparvi. Anche l’anonimato dei costumi contemporanei contribuisce a creare l’immagine di un mondo metafisico, privo di consistenza materiale. Mentre è dalle luci viene quel poco di drammaticità che può vivacizzare l’algido palcoscenico.
Il fatto è che questa aura di gelida distanza che promana dall’allestimento contrasta con ciò che avviene pochi metri oltre il palcoscenico, nel golfo mistico, ove Myung-Whun Chung scatena tutta la drammaticità di una tragedia vissuta sì con la mente, ma prima ancora con la carne ed il sangue di un’umanità viva e vera, che soffre, vuole, si esalta, uccide ed è uccisa, come è sempre capitato e ancora capiterà nella storia quando ci si contende il potere.

Nel cast, di livello complessivo più che buono, il protagonista è il baritono Luca Salsi, che ha fama di essere il migliore Macbeth di oggi. In effetti, è ammirevole l’abilità con cui l’artista riesce a piegare lo strumento imponente - fin troppo risonante per la piccola Fenice e da usare con attenzione nel canto a piena voce onde evitare che l’emissione possa sfuggire al controllo - per modulare in piano e pianissimo tutte le sfumature che contraddistinguono la parte.
Gli è accanto la Lady del soprano coreano Vittoria Yeo, cantante di grande consapevolezza artistica e musicale, padrona sicura dei propri mezzi, già apprezzata alla Fenice per una riuscitissima Butterfly nel 2016. La sua interpretazione punta sulla precisione e la pulizia della linea, visto che lo strumento non possiede la potenza e l’aggressività che in certi momenti farebbero comodo, e ha comunque ragione dell’improba parte in virtù di una superiore civiltà artistica. Ne esce una Lady più lirica e quindi più umana, abile nell’esecuzione delle agilità del brindisi, di cui viene accortamente accentuata la meccanicità, e pienamente convincente nella scena del sonnambulismo, ove la donna terribile ed implacabile diventa soltanto una creatura indifesa e sconfitta, da accogliere nell’abbraccio della pietas cristiana.
Sempre sicuro e affidabile il terzo coreano della serata, il basso Simon Lim, nel ruolo di Banco. Mentre il tenore Stefano Secco, con i suoi mezzi vocali limitati ma usati con abilità e civiltà, ci regala una buona esecuzione della difficile aria di Macduff “Ah la paterna mano”, compreso, ovviamente, l’impegnativo recitativo che precede.
Alla fine, successo caldissimo per tutti, con momenti di autentico entusiasmo giustamente riservati a Myung-Whun Chung.


(spettacolo di martedì 27 novembre)
Adolfo Andrighetti

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