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Alla Fenice, fra Otello e Jago spunta Desdemona

08/04/2019
Alla Fenice, fra Otello e Jago spunta DesdemonaMolte delle circostanze che hanno accompagnato la composizione dell’ “Otello” di Giuseppe Verdi fino alla sua prima rappresentazione, avvenuta alla Scala il 5 febbraio 1887, sono note al pubblico degli appassionati e conferiscono colore e sapore ad un percorso ovviamente non privo di ostacoli, ma anche ricco di aneddoti, di particolari curiosi e intriganti, che ci sono pervenuti principalmente dall’epistolario del maestro.
Mi riferisco, tanto per portare qualche esempio, al fascino esercitato su Verdi dalla figura di Jago, che gli suggerisce quelle acute osservazioni di fisiognomica teatrale che invia da Sant’Agata al pittore Domenico Morelli; alle puntualizzazioni rispettose ma ficcanti rivolte a Boito sui versi che andava preparando; alla grande e mai celata ammirazione verso il baritono Victor Maurel, primo interprete di Jago, al quale però scrive negando recisamente di aver composto la parte per lui e sul quale, nel corso delle riprese dell’opera, ironizza per l’enfatico e scorretto appellativo di “creatore” che probabilmente una parte della stampa gli attribuiva; ai dubbi sull’opportunità di affidare il ruolo di Otello a Francesco Tamagno, considerato – scrive a Giulio Ricordi – che gli è “impossibile” cantare a mezza voce e quindi, precisa anche a Boito, “non riescirebbe” nel duetto conclusivo del primo atto e nel finale dell’opera; alle incertezze sull’artista cui assegnare il ruolo di Desdemona, posto che Gemma Bellincioni ed Elena Teodorini erano state bocciate da Boito e la scelta di Romilda Pantaleoni, che andò in scena, fu un po’ un ripiego, perché il soprano “dice con troppo accento e troppo drammaticamente“ (Verdi a Boito) anche i momenti lirici, come il delicatissimo duetto d’amore del primo atto.

È strano, invece, che non sempre si presti la giusta attenzione all’episodio più bello e significativo fra quelli che prepararono la messa in scena di “Otello”. Succede che sulla stampa incominci a circolare la notizia che Boito sarebbe rammaricato per non poter musicare il libretto da lui stesso preparato. Verdi, provvisto di un rigido senso della correttezza che poteva sconfinare in una permalosità ruvida ed arcigna, prende subito cappello: Boito che si rammarica di non poter musicare “Otello”, scrive a Franco Faccio che dirigerà la prima dell’opera, “fa naturalmente supporre com’egli non isperasse vederlo musicato da me com’egli vorrebbe”; nessun problema, conclude Verdi con un pizzico di ipocrisia, perché in realtà il problema c’era, eccome: tornate a Milano e dite a Boito che gli restituisco gratuitamente, “senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta”, il libretto che ho acquistato da lui, in maniera tale che lo possa musicare al posto mio.
La replica di Boito alla dura ed eccessiva presa di posizione di Verdi per delle parole enfatizzate ad arte dalla stampa, è quasi commovente per l’umiltà e la semplicità sincere, genuine, tanto più sorprendenti in colui che era un maître à penser, uomo di cultura fra i più influenti e prestigiosi della penisola. Boito scrive a Verdi esortandolo calorosamente a concludere l’ “Otello” e aggiunge delle parole indimenticabili: “...ripigli la penna e mi scriva presto: caro Boito fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ed io li muterò subito con gioia e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte, io nel mondo delle allucinazioni” (19 aprile 1884). Boito, con la sua acuta intelligenza artistica, è pienamente consapevole dei propri limiti di compositore, vittima di un cerebralismo eccessivo e di uno sperimentalismo velleitario che bloccavano la fioritura di una ispirazione autentica, laddove Verdi volava su ali ben più robuste e sicure; e capisce che ora il suo compito è quello di mettersi a disposizione della vera genialità. A questo punto l’equivoco era pienamente risolto, anche se Verdi, pur fra calorose espressioni di amicizia e tanto per non smentire la propria ruvida scorza contadina, non mancò di far notare en passant a Boito che la sua spiegazione, per quanto graditissima, si era fatta attendere un po’ troppo…

Le ragioni di interesse per questa ripresa di “Otello” alla Fenice erano tutte nella presenza sul podio del maestro sud-coreano Myung-Whun Chung, bacchetta fra le più prestigiose e le più giustamente celebrate al mondo, e nel cast. Lo spettacolo, in effetti, era quello che aveva inaugurato la stagione 2012/2013 e che, anche questa volta, conferma i pregi e i difetti che si erano evidenziati nella prima occasione.
La regia di Francesco Micheli, in particolare, si disperde nella illustrazione didascalica di molti momenti della vicenda (gli onnipresenti modellini di velieri, gli aguzzini vestiti di nero a impersonare le ossessioni di Otello, Cassio che s aggira bendato mentre Jago canta “Questa è una ragna” ecc.), a scapito di una essenzialità e compattezza del discorso teatrale che gioverebbe alla chiarezza ed alla efficacia della rappresentazione. Alcune trovate, poi, erano sembrate e sembrano anche oggi quanto meno discutibili, come, nel primo atto, il camerone da caserma in cui si svolge la festa e, nel duetto d’amore, il bacio che si posa sul piede di Desdemona anziché sulle sue labbra, quindi, nel finale, la comparsa del fantasma di Desdemona: tutte invenzioni che, prese singolarmente, possono avere una loro precisa giustificazione drammaturgica, ma che finiscono per distrarre dal nucleo della tragedia, per spostare l’attenzione dall’universale, cioè da quanto costituisce l’essenza del capolavoro e lo rende tale oltre lo scorrere del tempo, sul particolare, che spesso acquista il sapore di un di più ultroneo, quasi superfluo.
Meglio le scene di Edoardo Sanchi, con dei suggestivi segni zodiacali riprodotti su pannelli monocromi e, al centro, una struttura cubica girevole che, ruotando, apre all’interno la visione di una stanza riccamente addobbata. Belli anche i costumi di Silvia Aymonino, che richiamano delle divise militaresche e marinare dell’ottocento, così come appropriato è il disegno luci di Fabio Barettin.
Ma veniamo, come si accennava, alle vere ragioni di interesse dello spettacolo. Myung-Whun Chung, sul podio, è presenza sempre carismatica e garanzia di qualità. Quindi governa da par suo il palcoscenico, dona ampiezza e respiro alla componente sinfonica della partitura e insieme ne sottolinea le nuance timbriche. Però, questa volta, non sorprende, non emoziona nel profondo, non è rivelatore come in altre occasioni e, forse, in altri repertori. Colpa sua, si potrebbe dire scherzosamente, perché ci ha abituati troppo bene, ed ora ci si aspetta sempre da lui la prestazione memorabile, che questa volta non arriva. Arriva, invece, un’esecuzione impeccabile ma tutto sommato di routine, anche se di lusso, come si dice con espressione forse stereotipata ma non priva di efficacia.

Per quanto riguarda il cast, le maggiori attenzioni sono inevitabilmente concentrate sul protagonista, alle prese con un ruolo impervio e quasi impossibile da onorare in tutte le sue esigenze vocali ed interpretative, per cui chi si impone nella declamazione magari è carente di squillo, e chi vince su questi fronti va in difficoltà quando si richiede un canto più morbido e raccolto, ecc. ecc. Marco Berti è di certo un Otello che si impegna nel canto e non si accontenta della declamazione, per cui conosce dei momenti riusciti non solo nell’invettiva, quando la voce sale sicura e squilla imperativa, ma anche in alcuni passi dove si ascolta un bel suono omogeneo, legato, di scuola italiana si potrebbe dire. È, infatti, l’Otello di un tenore essenzialmente lirico, o lirico-spinto per gli amanti di queste classificazioni, che di tanto in tanto appare carente nella zona centrale, ove si vorrebbero più corpo, più bronzo, più velluto, colori più scuri; e, forse per compensare questo limite, spesso si rifugia in un’emissione tesa, spinta, a tratti forzata. È un Otello, poi, che, puntuale nell’esecuzione, appare da approfondire nell’interpretazione, che sembra passare in secondo piano di fronte alla necessità di cantare quelle note e di cantarle con esattezza. Né giova alla definizione dell’immenso personaggio una presenza scenica alquanto statica, della quale è apparso emblematico l’“Esultate”, rivedibile sul piano vocale perché troppo chiaro e liricheggiante a scapito del necessario stile stentoreo, ma comunque eseguito in perfetta immobilità, quasi sull’attenti, le braccia diritte lungo i fianchi.
E il baritono sloveno Dalibor Jenis, che Jago è? Sicuramente uno Jago che colpisce e lascia il segno, in virtù di un canto che sovrabbonda in sottigliezze, in sottintesi, in intenzioni espressive. Ma, quando è il caso, l’artista mostra anche di avere voce e sfodera delle belle sonorità omogenee, rotonde, di un pastoso colore baritonale. Le esibisce nel famoso “Credo”, ove Jenis trova accenti incisivi, imperativi, sostenuti da suoni robusti a voce piena. Sull’altro versante, invece, da menzionare il racconto del sogno di Cassio, tutto giocato su piani e pianissimi di indubbia efficacia. Notevole anche la presenza scenica, che descrive uno Jago multiforme, mercuriale, sempre presente a compatire, ad insinuare, a fingere umanità, amicizia, dei sentimenti che non esistono. Tutto bene, anzi benone, dunque? No, non del tutto, perché ad un artista di questo livello si richiede la perfetta conoscenza del testo, onde evitare certi penosi aggiustamenti che non possono passare inosservati su di un palcoscenico italiano.
Senza riserve, invece, il consenso da tributare a Carmela Remigio, Desdemona di classe indiscutibile per la sapienza vocale e scenica con cui ci dona un personaggio sensibile eppure forte, piagato ma non piegato, dignitoso e nobile anche nella sofferenza. Un’interpretazione di assoluto rilievo, della quale l’esempio più significativo è rappresentato dalla canzone del salice, misurata, abbandonata, dolce, femminile, e insieme forte, volitiva, quasi orgogliosa.

Fra i comprimari, apprezzabile il Cassio di Matteo Mezzaro, per la piacevole resa vocale e l’appropriata presenza in palcoscenico, ma anche il Roderigo di Antonello Ceron e il poderoso, solenne Lodovico di Mattia Denti. Più debole il Montano di Matteo Ferrara. Bene l’Emilia della sempre sicura Elisabetta Martorana. Imponente il coro guidato da Claudio Marino Moretti, per la presenza sonora robusta e compatta. Apprezzabile il contributo dei Piccoli Cantori Veneziani istruiti da Diana D’Alessio.
Alla serale del 4 aprile, cui si riferiscono queste note, l’applausometro ha premiato, seppure di poco, Desdemona su Otello e Jago.

Adolfo Andrighetti

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