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Una riedizione dell’ “Aida” del 1978 entusiasma alla Fenice

28/05/2019
Una riedizione dell’ “Aida” del 1978 entusiasma alla FeniceLa cifra distintiva, sulla quale dovrebbero riflettere anche i registi odierni, di spettacoli come questa “Aida” proposta alla Fenice – anno di nascita 1978, regia di Mauro Bolognini ripresa da Bepi Morassi – non è rappresentata tanto dalla bellezza e dall’eleganza ordinata, armoniosa, dell’insieme, che pure sono dei valori significativi seppure non assoluti, in quanto subordinati alla efficacia, alla incisività, alla intensità della comunicazione teatrale; né dalla ornata ricchezza di una messinscena che, secondo il costume dell’epoca, non conosce spending review ed è fastosa senza essere sovraccarica o pacchiana; né da una professionalità infallibile, che sa mettere tutti al proprio posto, masse e solisti, li fa muovere come si deve, fa girare ogni congegno del meccanismo con impeccabile precisione; neppure dall’atmosfera evocativa, che promana dall’allestimento e, come giustamente osserva Bepi Morassi, “amplifica davvero le emozioni che nascono dalla musica”.
Tutti questi elementi ci sono, eccome, nell’ “Aida” di Bolognini, e ci parlano di un artigianato di alto lignaggio e di classe sopraffina, profondamente rispettoso del pubblico e dell’opera d’arte che viene rappresentata. Eppure è ancora un’altra la cosa più importante, quell’essenziale per il quale allestimenti di questo genere hanno ancora da insegnare ad un certo saccente intellettualismo odierno. Si tratta dell’armonia profonda, della coesione stretta, che regna fra tutte le componenti dello spettacolo – la musica, la vicenda originale, la messinscena – per cui quest’ultima è pertinente alle altre, non le contraddice, non segue un percorso proprio ed autonomo, ma, insieme e in funzione ad esse, giunge alla realizzazione di un risultato unitario. In altri termini: la messinscena è coerente con la drammaturgia dell’opera, che si realizza innanzitutto attraverso la musica ed il canto, la sostiene, la aiuta ad esplicarsi, a comunicarsi al meglio. Quante volte, invece, negli spettacoli odierni, anche in quelli ai quali si deve riconoscere validità teatrale e una professionalità di spicco, la messinscena racconta qualcosa di differente se non di contraddittorio rispetto alla drammaturgia musicale, peccando contro la necessaria unitarietà dello spettacolo e disorientando il pubblico!

Ebbene, in questa “Aida” – regia, come si è detto, di Mauro Bolognini ripresa da Bepi Morassi, scene di Mario Ceroli, costumi di Aldo Buti (il disegno luci di Fabio Barettin e le coreografie di Giovanni Di Cicco sono di oggi ma risultano mirabilmente intonate con il resto) – tutto è mirabilmente studiato e armonizzato per proporre agli spettatori uno spettacolo unitario, coeso. Quindi, la scena intelligentemente divisa in due piani in modo da raddoppiare di fatto lo spazio disponibile, l’affascinante ed elegante color ocra che domina nelle scene e negli splendidi costumi, i movimenti sempre “giusti” di solisti e masse, cui si aggiunge il contributo odierno delle semplici eppure raffinate coreografie e delle luci, che intervengono puntuali a sottolineare le atmosfere evocate dalla musica: tutto, insomma, proprio tutto, contribuisce a dare vita ad una proposta artistica che aiuta Verdi ad essere se stesso, gli mette a disposizione gli strumenti teatrali per comunicare la propria idea.

All’interno di questa cornice spettacolare a suo modo perfetta, si muovono gli interpreti.
Nel ruolo di Aida, alla serale di giovedì 23 maggio cui si riferiscono queste note, causa un’improvvisa indisposizione non si è esibito il soprano Roberta Mantegna, che aveva cantato alla prima con successo, ma la sua sostituta, il soprano trevigiano Monica Zanettin, che era stata protagonista anche la sera precedente. Un tour de force, dunque, per il quale l’artista va ringraziata e che forse, però, ha lasciato qualche segno nella sua prestazione. In effetti, i primi due atti li risolve alla grande, mettendo in mostra tutto ciò che serve per affrontare l’improbo ruolo con assoluta pertinenza: temperamento drammatico, omogeneità di emissione, giusto volume sonoro, bel timbro, padronanza del gioco dinamico, fraseggio incisivo, dizione perfetta. Purtroppo dal terzo atto in poi, complice probabilmente una certa stanchezza vocale, sembra faticare a tenere sotto controllo l’emissione e, soprattutto in “Cieli azzurri” ma anche nel finale dell’opera, la richiesta dolcezza non c’è o c’è solo a tratti. Ma quello che l’artista ha fatto vedere nei primi due atti è più che sufficiente per pronosticarle un futuro prestigioso.
Con questo Radames, ruolo che canta per la prima volta in Italia, Francesco Meli sembra aver concluso il proprio percorso da tenore di grazia (ricordo un suo ottimo Conte di Almaviva nel “Barbiere” rossiniano sempre alla Fenice) a tenore lirico spinto. Rispetto alle sue precedenti esibizioni a Venezia, infatti, la zona centrale si è irrobustita ed ha assunto risonanze baritonali, mentre l’acuto ha acquistato in polpa e potenza. Ma quando c’è da cantare piano e dolce l’artista mostra di non essersi dimenticato della sua impostazione belcantista e sale in cattedra, come dimostra ampiamente la scena finale. Peccato solo che un tenore con il suo bagaglio tecnico non senta la necessità di eseguire “morendo” il Si bemolle del “sol” in “Celeste Aida”, come scritto in partitura, anziché a piena voce, seppure la nota venga cantata senza quell’enfasi stentorea cui di solito si abbandonano i tenori in quel punto. Ma è un brillante, eccellente Radames, al quale giustamente vanno le ovazioni del pubblico.
Il debutto del mezzosoprano Irene Roberts in Italia e nel ruolo di Amneris va salutato con simpatia. L’artista canta bene, con civiltà musicale, e sta in scena in modo appropriato. Certo l’artiglio della leonessa, che il personaggio esige anche sul piano vocale, dovrebbe essere più affilato e qualche volta si sentirebbe la necessità di suoni più voluminosi, più robusti, ma l’artista c’è, si tratta solo di stabilire fino a che punto il ruolo di Amneris è adatto alle sue attuali caratteristiche vocali.
Roberto Frontali è un Amonasro di grande prestigio, anche se la voce tende a restringersi nell’emissione e quindi non si espande ampia e libera come si vorrebbe. Inoltre, “le foreste imbalsamate” richiederebbero un’esecuzione più dolce, più nostalgica, affinché l’evocazione della patria lontana possa risultare suggestiva alle orecchie di Aida e renderla malleabile ai progetti del padre. Ma la classe del glorioso baritono è fuori discussione.
Dispiace, invece, vedere un artista di rango come Riccardo Zanellato eseguire scolasticamente un ruolo, come quello di Ramfis, che in altre circostanze si mangerebbe in un boccone, e confondersi nella successione dei capi di accusa da rivolgere a Radames. Ma momenti poco felici capitano anche ai migliori e ci attendiamo di ritrovare presto l’eccellente artista ai livelli che gli competono.
Bene tutti gli altri: il Re corretto e ben cantato di Mattia Denti; il Messaggero sonoro e robusto di Antonello Ceron; la Gran sacerdotessa di Rosanna Lo Greco. Il coro del Teatro, diretto da Claudio Marino Moretti, si conferma ai suoi eccellenti livelli, anche se la sezione maschile grave è parsa più compatta ed omogenea di quella acuta.

A capo dell’esecuzione musicale di quest’”Aida”, il maestro concertatore e direttore Riccardo Frizza ha lavorato molto bene. Ha garantito l’amalgama in palcoscenico e fra quest’ultimo e il golfo mistico, ed ha saputo restituire la partitura in tutte le sue componenti, sia esaltandone le finezze timbriche e i momenti di intimismo, sia affondando nelle sonorità quando necessario. Una lettura assolutamente esauriente ed equilibrata, che esegue “Aida” com’è, evitando di privilegiarne e sottolinearne un aspetto a scapito degli altri. Tutto questo grazie anche alla preziosa collaborazione garantita dall’Orchestra del Teatro.
Alla fine successo entusiasta per tutti.

Adolfo Andrighetti

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