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Si accendono al Malibran le “luci” sperimentali di Sciarrino

16/09/2019
Si accendono al Malibran le “luci” sperimentali di SciarrinoLuci mie traditrici” è il titolo dell’opera di Salvatore Sciarrino in scena al Teatro Malibran; ed è la frase che la Malaspina, l’unico personaggio femminile, pronuncia all’ospite, di cui si è innamorata, denunciando così che è sempre attraverso lo sguardo che la passione amorosa trascorre e si riverbera, è trasmessa ed è ricevuta.
Ed è una frase che sintetizza, riducendola all’essenzialità dei sentimenti e al netto del sangue che sarà sparso, la trama dell’opera, tratta dalla tragedia in prosa “Il tradimento per l’onore”, pubblicata nel 1659 e a sua volta ispirata alle truci vicende che circa settant’anni prima videro protagonista Gesualdo da Venosa. La tragedia secentesca fu a lungo attribuita a Giacinto Andrea Cicognini, autore di due libretti storici come quelli de “Il Giasone” di Francesco Cavalli e de “L’Orontea” di Antonio Cesti. Ma l’evidente squilibrio stilistico fra questi due testi e quello, pesantemente retorico, de “Il tradimento per l’onore”, ne mise in dubbio la paternità, che fu infine riconosciuta all’avvocato e letterato veneziano Francesco Sramboli.
L’opera di Sciarrino, la settima della sua prestigiosa produzione per il teatro musicale, fu data in prima assoluta il 19 maggio 1998 al Rokokotheater di Schwetzingen, in Germania. Il libretto, scritto dal compositore stesso, racconta dell’amore fra due sposi, il Malaspina e la Malaspina, amore che viene turbato dalla passione che il servo di casa e l’ospite nutrono nei confronti di lei. L’ospite è ricambiato dalla donna e il servo, che ha ascoltato le loro espressioni amorose, per meschina gelosia li denuncia al Malaspina. Questi, dopo aver apparentemente perdonato la sposa, le rivela la presenza del cadavere dell’ospite spalancando le cortine del talamo nuziale. Subito dopo toccherà a lei perdere la vita. Al Malaspina, consumato il duplice assassinio per onore, non resta che piangere sul suo delitto, che l’ha privato della donna amata.
L’opera si conclude con un Congedo in prima esecuzione assoluta, un madrigale con strumenti e cinque voci, che restituisce la tragedia alla sua classica funzione catartica, auspicando che “l’orrore che fu visto/Non ci sporchi di sangue”, quindi non ci contamini con la sua negazione della vita, ma venga invece consegnato alla memoria. Dopo la tragedia, afferma Sciarrino, “ho bisogno che torniamo a casa puliti e non sporchi di sangue. Il congedo serve a questo”.
Ma serve anche a definire la rigorosa struttura di quest’opera, che, se si chiude con un Congedo, si apre in simmetria con un Prologo, nel quale una voce dal foyer canta una melodia cinquecentesca di Claude Le Jeune su testo di Gilles Durant de la Bergerie, rielaborata da Sciarrino; la voce si chiede ripetutamente che cosa sia accaduto (“Qu’est devenu”) alla bellezza dell’amata, con la quale ha vissuto tante ore di felicità. La musica del Prologo subisce poi un processo di progressivo disfacimento e dissoluzione nel corso dei tre intermezzi strumentali, pur rimanendo riconoscibile: una metafora del graduale ma inesorabile sfaldamento dell’animo umano fino alla consumazione della tragedia.
Fra Prologo e Congedo si svolgono due atti, l’uno ambientato all’aperto nel giardino dei Malaspina (solo l’ultima scena è immaginata all’interno), l’altro al chiuso della casa. Così si dà alle espressioni dell’amore una collocazione ariosa, ridente, mentre il progressivo maturare della tragedia è accompagnato da un’ambientazione quasi soffocante.
Un’altra simmetria nella drammaturgia dell’opera si registra fra inizio e conclusione, giocando sul nome dell’illustre casato degli sposi. All’inizio la mala spina è quella che ferisce ad un dito la Duchessa mentre coglie una rosa, incidente che provoca lo smarrimento ed il conseguente svenimento del Duca; questi, nel finale, mentre ferisce a morte la sposa dopo averle mostrato il cadavere dell’ospite, le dice: “È vostra questa spina, io voglio pungervi”; una mala spina, quest’ultima, di cui quella della prima scena è anticipazione e figura.
Se la struttura drammatica dell’opera è tradizionale, la musica, al contrario, è letteralmente inaudita, al punto da stordire. Lo afferma uno che la conosce bene per averla concertata e diretta più volte prima di quest’ultima al Teatro Malibran, cioè il maestro Tito Ceccherini, grande esperto del repertorio contemporanea.
È la vocalità, in particolare, che sorprende fino al punto da apparire sconcertante, secondo la logica di uno sperimentalismo estremo che potrebbe anche apparire autoreferenziale se non fosse il risultato di un pluriennale lavoro di ricerca svolto da Sciarrino sull’uso della voce. Il compositore parla di una “monodia assoluta” che “naviga nel vuoto”. All’ascoltatore giunge una sorta di parlato intonato – che talvolta diventa solo parlato – basato su note ora tenute a lungo, ora solo toccate, ora elaborate con melismi. Il risultato è una vocalità spezzata, balbettata, affannosa e nevrotica, che trasmette il senso di una perpetua incertezza esistenziale.
L’orchestra è presente in “figure molto piccole e sintetiche” (Ceccherini) come accompagnamento del parlato intonato ma anche come sottofondo, a suggerire l’atmosfera delle singole scene, cioè ad alludere al contesto ambientale o psicologico in cui sono collocate. È quasi afasica nel primo atto (salvo il finale), ove si fa viva con pochi suoni quasi impercettibili e stilizzati a ricreare la vita che abita il giardino dei Malaspina, dal canto degli uccelli al rumore del fiume ed al respiro del vento; più eloquente nel secondo, con sonorità sinistramente e magistralmente evocative della tragedia che sta maturando prima di tutto nella mente dei protagonisti.
Sotto la guida esperta e affidabilissima del maestro Tito Ceccherini, coadiuvato molto bene dall’orchestra del Teatro La Fenice in organico ridotto ma completo nelle sue componenti, tutti gli interpreti sono apparsi preparati ed adeguati, nonostante le immaginabili difficoltà ad adattarsi ad una vocalità così estranea agli schemi abituali. Sono il mezzosoprano polacco Wioletta Hebrowska (La Malaspina), il basso-baritono tedesco Otto Katzameier, che si segnala per particolare convinzione ed incisività (Il Malaspina), il controtenore Carlo Vistoli (L’ospite), il tenore Leonardo Cortellazzi (Un servo), il soprano Livia Rado (Voce dietro al sipario).
Lo spettacolo confezionato dal regista Valentino Villa risponde alla giusta necessità di illustrare con chiarezza la vicenda, il che viene fatto con puntualità e professionalità, anche attraverso un accurato lavoro sui singoli personaggi. In palcoscenico si muovono anche tre figuri nerovestiti con un volatile in luogo della testa, della cui funzione simbolica, qualunque essa sia, si potrebbe comunque fare a meno. Se la vicenda, infatti, prevede un palcoscenico essenziale, è giusto rispettarla, perché anche questa nudità è parte dello spettacolo e può essere positivamente utilizzata nella drammaturgia.
Le scene di Massimo Checchetto, semplici ed illustrative anch’esse, sono in tutto funzionali alla impostazione dello spettacolo voluta dal regista. Quella d’apertura mostra l’interno d’un abitazione fatiscente che incomincia ad essere invasa dalla vegetazione. La scelta è finalizzata, secondo quanto dichiarato da Villa, a sottrarre la vicenda ad una dimensione banalmente cronachistica per consegnarla ad una ripetitività ciclica; per collocarla, quindi, mi sembra, in una dimensione simbolica, ove quanto di tristemente ripetitivo c’è nel tradimento d’amore e nel delitto d’onore che ne consegue, possa assumere un valore d’archetipo come nella tragedia classica. La stessa intenzione pare trovare conferma nel finale, quando i vari ambienti che si sono visti in precedenza – l’abitazione diroccata invasa dalla vegetazione, un salotto-biblioteca, una camera da letto – vengono fatti ruotare circolarmente, ad indicare la perenne attualità e la ripetitività acronica della vicenda di amore e morte.
Felicemente funzionali all’impostazione generale dello spettacolo sono apparsi sia i costumi contemporanei di Carlos Tieppo, sia le luci puntuali e suggestive di Fabio Barettin.
Alla pomeridiana del 14 settembre, alla quale si riferiscono queste note, lo spettacolo è stato accolto, nonostante l’impegno richiesto agli spettatori, con un consenso cordiale, che dà soddisfazione a tutti coloro che credono che la cultura viva anche di creatività e di rischio, non di ripetitività.

Adolfo Andrighetti

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