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SOLO LÂ’AMORE SUBLIME CI LIBERA: LO DICE BEETHOVEN

02/12/2021
SOLO L’AMORE SUBLIME CI LIBERA: LO DICE BEETHOVEN“Fidelio” è l’opera con cui la Fenice inaugura la stagione 2021/2022 e che avrebbe dovuto essere presentata nella precedente per i 250 anni della morte di Beethoven, se non si fosse messo di mezzo il covid. Ebbene, di fronte a “Fidelio” può essere normale avere una posizione problematica, interrogativa, nella quale l’ammirazione si unisce alla soggezione. E ciò perché l’opera – libretto di Joseph Sonnleithner e Georg Friedrich Treitschke tratto a sua volta dal libretto francese “Léonore” di Bouilly - presenta una forte componente enigmatica, davanti alla quale è giusto sostare in una contemplazione segnata da tanti punti di domanda.
In primo luogo, è l’unica opera composta da un genio assoluto della musica, il che intimidisce, perché costringe a prestare particolare attenzione a questo unicum, a cercare dei segni di grandezza e di sublimità che non possono non esservi presenti.
E poi, ci interroga quel processo compositivo così inquieto, che dal 1805, l’anno della sfortunata prima al Teatro Ad der Wien, fino all’ultima e definitiva versione rappresentata il 1814 al Teatro Kärnthnerthor sempre a Vienna, si svolge attraverso revisioni e ripensamenti anche radicali; a comprova che all’Autore sfuggiva sempre qualcosa, un bandolo che non riusciva ad afferrare, un approdo artistico che il suo genio immaginava ma al quale faticava a conferire una fisionomia precisa.
A ciò si aggiunge la questione delle quattro ouverture, le quattro “Leonore”, troppe per una sola opera: la prima mai eseguita; la seconda talmente completa nella sua meravigliosa sintesi dei motivi del dramma da essere giudicata addirittura esorbitante se non prevaricante rispetto a quest’ultimo; la terza che rielabora la seconda e spesso viene eseguita non per introdurre l’opera ma dopo il primo quadro del secondo atto; la quarta, infine, giudicata la più convenzionale e, probabilmente proprio per questo, la più usata come overture.

Ancora. “Fidelio” interroga e intriga perché singolarmente in bilico tra originalità e convenzionalità; perché, come Giano bifronte, con una faccia guarda al passato, con un’altra scruta il futuro con chiaroveggenza e audacia geniali. Al passato appartengono il ricorso agli schemi del melodramma italiano con i numeri chiusi, la struttura del singspiel con i dialoghi recitati e non cantati, il soggetto che si rifà alla moda del pièce à sauvetage con l’eroina immacolata che, dopo averne passate di ogni per colpa di un malvagio oppressore, viene salvata nel felice scioglimento finale, la caratterizzazione di personaggi come Marzeline e Jaquino.
Ma, quando Beethoven può affondare nel cuore della vicenda, così ricca di pathos e di quei valori forti cui teneva in modo particolare, allora non ci sono convenzioni che tengano e lo sguardo del genio intravede il futuro. Allora, quando il dramma urge, ripudia le regole ancora in auge del belcanto italiano (la prima del “Tancredi” di Rossini è del 1813 e quindi precede solo di un anno l’ultima versione di “Fidelio”) e fa esprimere i cantanti “come ditta dentro”, senza curarsi delle difficoltà vocali che incontravano e tuttora incontrano nell’eseguire certi brani, come l’aria di Leonore del primo atto, quella di Florestan che apre la Scena del carcere e tutto il finale.
Il senso profondo della vicenda è che la libertà, intesa nella sua accezione più profonda e spirituale, è un bene talmente vasto e prezioso, talmente divino verrebbe da precisare, che può essere riconquistato solo attraverso il sacrificio d’amore assoluto, quello che offre la vita per l’amato secondo il modello cristiano. In estrema sintesi: solo l’amore, inteso nella sua accezione più profonda e sublime, libera l’uomo. Ebbene, quando Beethoven è ispirato da questi temi così elevati e così corrispondenti alla sua statura morale, allora la partitura attinge al sublime e, oltre ai pezzi citati, ci dona pagine eterne come il coro dei prigionieri e il duetto “O namenlose Freude” (O felicità senza nome), dove non sono più le voci a cantare ma le anime stesse.

Questa edizione di “Fidelio”, nuovo allestimento della Fenice, prende quota e si illumina, staccandosi dalla routine, per la presenza sul podio di Myung-Whun Chung. Il maestro coreano sembra avviarsi con una certa cautela nell’ouverture, la “Leonore” n.3. Ma in seguito dimostra con i fatti la fondatezza delle sue affermazioni, secondo le quali, in “Fidelio”, “è tutto profondamente definito già a livello musicale”, “nella musica c’è già tutto, tutto è già scritto”. Infatti, assecondato dall’orchestra e dal coro del Teatro condotto da Claudio Marino Moretti, ci dona un’esecuzione nella quale il dramma è appunto completamente espresso dalla musica e da essa emerge esaltato, evidenziato nelle più piccole sfumature come nelle vaste atmosfere d’assieme. Così l’ascoltatore è trascinato in un viaggio prima di tutto dell’anima ed è condotto, fra ondate sonore ora tempestose, ora travolgenti, ora solenni, ora spensierate, giù nell’abisso e poi di nuovo in alto, verso la risurrezione.
Si potrebbero portare innumerevoli esempi di questa felicissima vena di Myung-Whun Chung. Ne ricordiamo almeno uno fra i tanti: le battute introduttive del secondo atto, che si apre sul tetro carcere di Florestan, suonano terribili, raggelanti, da brividi. Quale regista potrebbe aggiungere qualcosa a questa metafisica narrazione dell’orrore derivante dal sentirsi costretti un in antro buio senza alcuna speranza se non quella suggerita dalla fede in Dio? E, in generale, come un regista potrebbe completare dal punto di vista teatrale ciò che è già così esplicito nella musica?
E, in effetti, il lavoro di Joan Anton Rechi, coadiuvato da Gabriel Insignares per le scene, Sebastian Ellrich per i costumi, Fabio Barettin per le luci, nulla aggiunge alla drammaturgia evocata da Myung-Whun Chung. Ma neppure nulla le toglie, ed è merito non da poco. I movimenti in palcoscenico dei solisti e del coro, ad esempio, sono fluidi ed appropriati. E lo spettacolo nel complesso tiene, se si eccettua lo sciocco ed inutile pestaggio di Pizzarro nel finale. Il primo atto si apre su un fondale nero con un’enorme testa di statua al centro del palcoscenico, alla quale lavorano i prigionieri: una presenza che conferisce, come sottolinea lo stesso Rechi, un tocco di mitico, di ancestrale alla vicenda, in armonia con il suo svolgimento per grandi archetipi quali la libertà, l’amore coniugale e fraterno, il valore del sacrificio.
Nel secondo atto, il carcere in cui è chiuso Florestan è efficacemente raffigurato come un sotterraneo a cerchi concentrici che sprofonda verso l’abisso ed il nulla. Nel finale di risurrezione spariscono i muri che chiudevano claustrofobicamente il carcere e rimangono solo i cerchi, che ora conducono verso la salvezza e non più verso la morte.
NellÂ’insieme anonimi ma dignitosamente concepiti i costumi primo novecento.

Nel cast, funzionale ma non entusiasmante, la Leonore del soprano USA Tamara Wilson è apprezzabile per il buon controllo vocale della parte, che padroneggia con sicurezza a partire dalla terribile aria del primo atto. Ma il timbro, come si dice, non è di quelli benedetti dagli dei. E, soprattutto, l’artista è carente di carisma, non mette mai le ali e non le fa mettere a chi ascolta. Si presenta sempre come una buona e brava borghese che recita la parte dell’eroina, non è mai un’eroina. E questo, alla lunga, pesa, specie nell’interpretazione di una parte come quella di Leonore, che attinge al sublime; perché l’opera non è fatta solo di note eseguite più o meno bene, ma anche di quell’aura, sottile eppure ben percepibile, che promana da certi interpreti e afferra il pubblico, lo avvolge, lo porta via verso altezze smisurate e profondità insondabili.
Le è accanto il Florestan di un altro artista USA, Ian Koziara. Qui si evidenziano anche dei problemi nella impostazione vocale, ché il suo canto suona sempre duro, ingolato, di fibra anche quando scende al piano e al pianissimo. L’artista se la cava fino a che la tessitura rimane centrale, ma evidenzia tutti i suoi limiti quando il pentagramma sale. Allora il tentativo di scolpire le note di gola si rivela inane e, soprattutto nella seconda parte dell’aria di Florestan, nel duetto “O namenlose Freude” e nel finale, si richiederebbero ben altro slancio tenorile, ben altro lirismo e calore.
Ottimo il Rocco del basso Tilmann Rönnebeck, signore e padrone della parte dall’inizio alla fine con una bella vocalità rotonda e duttile, e bene anche il Pizzarro del baritono Oliver Zwarg, che dalla sua vocalità di buon impatto cava non solo i colori dell’ovvia perfidia, ma anche quelli dello sconcerto, della paura, della disperazione. Meno incisivo ma comunque dignitoso e funzionale, seppure corto nel grave, il don Fernando del baritono sudafricano Bongani Justice Kubheca.

Molto bene la coppia giovane, composta dalla Marzelline intonata, dolce, colma di affettuoso lirismo – ma il timbro è un po’ asprigno in certi momenti – del soprano russo Ekaterina Bakanova; e dal Jaquino spigliato, corretto e di bella fragranza tenorile di Leonardo Cortellazzi.
Più che a posto come Primo e Secondo prigioniero gli artisti del coro Dionigi D’Ostuni e Antonio Casagrande.
Alla rappresentazione del 30 novembre, alla quale si riferiscono queste note, teatro strapieno, ed è un gran bel vedere; successo entusiasta per il maestro Myung-Whun Chung, cordiale e caloroso per lo spettacolo nel suo insieme.

Adolfo Andrighetti




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