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LA ZUCCA DELLA DISCORDIA NE “LE BARUFFE” DI BATTISTELLI

06/03/2022
LA ZUCCA DELLA DISCORDIA NE “LE BARUFFE” DI BATTISTELLI È ispirata alla più sentita tradizione culturale veneziana, quella di Carlo Goldoni e delle sue “Baruffe chiozzotte”, l’opera che la Fenice, grazie all’iniziativa del suo sovrintendente Fortunato Ortombina, ha commissionato al compositore Giorgio Battistelli e al regista Damiano Michieletto. Il quale non solo è responsabile della messa in scena dell’opera, rappresentata in prima mondiale alla Fenice, ma è anche autore del libretto, quasi a rinverdire la prassi teatrale ottocentesca, secondo la quale, tanto per portare un esempio fra i molti, Francesco Maria Piave, il “poeta” preferito da Verdi, era anche il direttore di scena della Fenice, prima di rivestire il medesimo ruolo alla Scala.
Della commedia di Goldoni i due autori enfatizzano la componente astiosa, livida, snervata, più che quella buffa, bonaria. E la vena popolaresca, che nell’originale aiuta a sdrammatizzare il continuo, incessante contrapporsi dei personaggi, qui ne sottolinea la povertà materiale e morale, con quell’attaccamento meschino e in fondo miserabile - da gente povera non solo in senso economico - alle poche cose che possono garantire un minimo di sicurezza materiale ad una vita di sussistenza priva di prospettive di miglioramento.
Certo, la musicalità del dialetto, che Michieletto rispetta nella sua abile riduzione della commedia di Goldoni, qualche volta può servire ad ingentilire i tratti più ruvidi dei personaggi; ma in altre, con le sue espressioni rozze ed immediate, ne sottolinea invece la brutalità: in una applicazione del vernacolo che lo spoglia dei suoi aspetti folcloristici e compiaciuti, per riportarlo a ciò che è realmente, cioè la modalità espressiva, ora dolce ed ora veemente ma sempre immediata ed elementare, usata dal popolo.

A questa visione verista, quasi verghiana, delle Baruffe, ove le difficoltà della vita esasperano le tensioni e creano rapporti umani tesi fino allo spasimo, fa eccezione solo il personaggio del coadiutore Isidoro, cui ha conferito un apprezzabile rilievo scenico e vocale il baritono Federico Longhi.
E’ questo coadiutore una sorta di magistrato locale cui ricorrono i contendenti per avere giustizia, una sorta di burbero benefico che preferisce applicare il buon senso anziché la legge alle interminabili baruffe dei chioggiotti e si dà molto da fare – e alla fine con successo – per riportare la pace fra quella gente assatanata, combinando una serie di matrimoni che creano legami e sanano le divisioni; è gente che lo fa andare fuori di matto, naturalmente, ma della quale si sente parte e di cui non può fare a meno: ed è questa affezione il segreto della sua efficacia di mediatore, al di là del prestigio conferitogli dalla carica pubblica e rappresentato da quella parrucca che è l’unico a portare.
Ad alleggerire l’atmosfera impastata di rabbia e di fatica quotidiana, oltre alla bonomia del coadiutore, anche la sùca barùca, la zucca arrostita che resta sempre in proscenio fino alla fine ed è la familiare, semplice, anche ridicola se vogliamo, causa scatenante delle baruffe, in quanto offerta alle persone sbagliate e quindi motivo di gelosie, ripicche, invidie, pettegolezzi ecc.

L’idea di fondo diretta a sottolineare la componente più aggressiva e scostante delle Baruffe goldoniane, è condivisa in armonia di intenti da Battistelli e da Michieletto.
Il primo crea un tessuto musicale mobilissimo, continuamente spezzato, che gli improvvisi passaggi da un estremo all’altro della scala dinamica e l’uso quasi ossessivo delle percussioni tengono sempre sul filo di una tensione pervasiva; un’inquietudine che, se di tanto in tanto si scioglie in qualche oasi lirica che crea dei momenti più o meno brevi di quiete, di sospensione melodica, viene immediatamente ripresa, rinfocolata, con andamento martellante, esasperante e certo efficacissimo nel dipingere l’atmosfera generale.
Su questa base così variegata ed inquieta si appoggia il canto, un declamato che, secondo lo stesso compositore, si presenta come un merletto musicale, caratterizzato da continue legature, ad imitare la cantilena del dialetto.
Dal canto suo Damiano Michieletto, coadiuvato dal suo classico team (Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti per le luci), ha realizzato una messa in scena esemplare, per l’equilibrio raggiunto fra la mirabile gestione di un palcoscenico sempre animatissimo, sempre agitato e talvolta frenetico, nel quale sembra prevalere la dimensione collettiva del dramma, e la caratterizzazione dei singoli personaggi, che, secondo la lodevole abitudine della casa, non smarriscono la loro personalità all’interno di quel microcosmo di pescatori con le loro donne, ma quasi la sottolineano e la rivendicano con orgoglio.
Il loro gesticolare, il loro sbracciarsi, i loro atteggiamenti ora rabbiosi, ora protervi, ora di simulata superiorità o indifferenza verso i concittadini, sono studiati con cura e realizzati con abilità ed intelligenza. E trovano la cornice più adatta ad esaltarne la rozzezza esasperata e quasi snervata nella tinta bruna, scura, spenta, che domina dappertutto in scena: dalle pareti mobili in legno, materiale semplice, grezzo, da cui i contendenti traggono le assi che usano come armi quando si avventano l’uno contro l’altro; ai bei costumi settecenteschi ma poveri, popolareschi, del colore del fango; alle luci ora cupe, ora livide, ora crude; alla nebbiolina grigia che cala dall’alto su quelle teste calde come una nube tossica; agli azzeccatissimi movimenti coreografici di Thomas Wilhelm, che ha capito l’atmosfera generale dello spettacolo e vi si è adeguato con intuizione sicura.

La parte musicale si regge sulle solide spalle di Enrico Calesso, che mette in risalto e fa gustare ogni particella, ogni colore ed ogni accento della complessa partitura, pur senza perderne di vista la struttura drammatica complessiva.
Si conferma ai più alti livelli il Coro del teatro, ora guidato da Alfonso Caiani dopo che Claudio Marino Moretti ha raggiunto l’età pensionabile.
E da accomunare in un unico, grande elogio il cast, per la preparazione musicale, l’affiatamento, la generosa disponibilità ad assecondare con impeccabile professionalità le indicazioni registiche, la chiarezza della dizione, particolarmente importante quest’ultima quando si vuole sottolineare il sottile rapporto di dipendenza e di integrazione esistente fra parola e musica.
Tuttavia il cronista ha il dovere di menzionare alcune prestazioni apparse particolarmente convincenti ed incisive anche sul piano vocale: la Lucieta del soprano Francesca Sorteni; la Checca del soprano Silvia Frigato, anche perché alle prese con una scrittura vocale particolarmente ingrata per le improvvise impennate all’acuto; il Padron Toni del baritono Alessandro Luongo; il Titta-Nane del tenore Enrico Casari; il Toffolo del tenore Leonardo Cortellazzi; il Beppo del tenore Marcello Nardis.
Gli altri, tutti bravi va ribadito, e accomunati in un unico abbraccio festante la sera del 4 marzo da un pubblico che ha riempito ogni posto disponibile: madonna Pasqua, Valeria Girardello; padron Fortunato, Rocco Cavalluzzi; madonna Libera, Loriana Castellano; Orsetta, Francesca Lombardi Mazzulli; padron Vicenzo, Pietro Di Bianco.


Adolfo Andrighetti

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