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A CINQUANTANNI DALLA MORTE DI MADERNA, SATYRICON AL MALIBRAN

30/01/2023
A CINQUANTANNI DALLA MORTE DI MADERNA, SATYRICON AL MALIBRANNonostante sia giunto fino a noi in una versione frammentaria e dei dubbi rimangano sulla precisa identità dell’autore, il romanzo “Satyricon”, risalente al primo secolo d.C., non ha mai cessato di esercitare un certo fascino anche in epoca contemporanea: sarà l’atmosfera gaiamente e spensieratamente libertina che lo contraddistingue, sarà anche il pungente intento satirico e lo spirito avventuroso, resta il fatto che l’opera di Petronio Arbitro è fra le più conosciute di quelle giunte fino a noi dalla classicità romana; basti ricordare, in proposito, l’omonimo film di Fellini (1969).
Qui però interessa l’opera in un atto del compositore veneziano Bruno Maderna (1920-1973), rappresentata il 16 marzo 1973 al Festival d’Olanda di Scheveningen sotto la direzione dell’autore, che morì quello stesso anno. Per la stesura del libretto – redatto utilizzando quattro lingue e cioè inglese, francese, tedesco e latino – Maderna si ispirò all’unica parte del romanzo giunta a noi intatta e cioè il banchetto di Trimalcione: acuminata satira delle ridicole manie di grandezza nutrite dai nuovi ricchi, categoria che nella opulenta Roma del primo impero doveva essere ben rappresentata ma che costituisce un pittoresco genere umano di perenne attualità.

Il libretto è appunto la rappresentazione caricaturale della boria, ridicola ma anche ingenua, del ricchissimo Trimalcione (Trimalchio), che durante un banchetto celebra sé stesso per essersi fatto come si dice dal nulla, contando solo sulla propria abilità e sulla propria spregiudicatezza. Emerge tutta la volgarità di questo tronfio e borioso arricchito, che si esalta pensando ai milioni accumulati ma che rimane fastidiosamente rozzo nel suo lamento sulla stitichezza inguaribile da cui è afflitto e anche brutale quando parla della moglie Fortunata, alla quale l’epiteto più gentile che rivolge è quello di sgualdrina.
Tuttavia anche gli aspetti più irritanti di Trimalcione, a cominciare dalla sua grandeur grassa ed esibita, sembrano riscattati almeno in parte da una certa comicità autoironica, una risata ammiccante con cui il ricchissimo crapulone li sdrammatizza, rendendoli, se non accettabili, almeno perdonabili. In quel corpaccione gonfio di cibo e di vino, poi, magari batte un cuore a suo modo generoso, dal momento che, forse ricordando di essere stato un liberto, promette di affrancare i propri schiavi e, quando sarà il momento, di concedere loro un lascito testamentario, riconoscendo che la loro umanità non è diversa da quella delle altre persone.
Insomma, c’è da chiedersi se sia corretto avere una concezione così negativa del Trimalcione di Maderna o se invece, sotto la scorza del rozzo arricchito che si concede il privilegio di essere sé stesso senza ipocrisie, non si nasconda un’umanità più vera rispetto a quella di chi gli sta attorno.

L’operina di Maderna, in un atto, è un divertissement in cui il compositore sembra divagarsi variando di continuo stili e modi, alternando recitato, recitativo, declamato, arioso, e impreziosendo la partitura di ammiccanti citazioni.
I diversi pezzi, quasi dei numeri chiusi, di cui si compone l’opera, sono collegati da cinque sezioni su nastro magnetico, nelle quali è registrata una sorta di miscellanea sonora composta da suoni musicali, voci umane, persino versi di animali, a creare l’immagine di una realtà musicale – e quindi di una realtà tout court – confusa e indefinita; quella di Trimalcione come quella di oggi, naturalmente.
“Satyricon” viene riproposto alla Fenice in occasione del cinquantesimo anniversario della prima rappresentazione e della morte del compositore veneziano, dopo essere comparso al Teatro Goldoni nel 1998. La concertazione e direzione sono affidate al maestro Alessandro Cappelletto a capo dell’Orchestra della Fenice, mentre la regia è di Francesco Bortolozzo, con i collaboratori Andrea Fiduccia (scene), Marta Del Fabbro (costumi), Fabio Barettin (disegno luci), Giovanni Sparano (regia del suono).
Lo spettacolo è concepito come una proiezione surreale, in un presente senza tempo, dell’antica vicenda narrata da Petronio Arbitro. L’impressione di una dimensione onirica, sospesa fra sogno ed incubo, è data dal palcoscenico quasi nudo, solo dei pannelli grigiastri a delimitarlo ai lati e ben pochi elementi di arredo, soprattutto il tavolo della cena proverbiale a chiudere orizzontalmente lo spazio in fondo; dai costumi, le cui fogge moderne e i colori sgargianti ben si intonano con le luci, che cambiano continuamente colore ed intensità pur rimanendo prevalentemente chiare, crude, quasi violente.

In questo contesto così sovraesposto si muovono i solisti, i cui atteggiamenti sono accuratamente studiati dalla regia; e cinque bravi mimi, che conferiscono dinamismo e vivacità ad un palcoscenico altrimenti statico a causa di un libretto che non ha consistenza drammaturgica ma consta di tanti pezzi staccati giustapposti fra loro e, come prevedeva lo stesso Maderna, ricomponibili secondo un ordine affidato alla fantasia degli esecutori. Ricordiamoli subito questi cinque ragazzi, così ben preparati e affiatati: Estella Dvorak, Emanuele Frutti, Roberta Piazza, Giulio Venturini, Aaron Weber.
Il palcoscenico è dominato dall’eccellente Trimalcione del tenore Marcello Nardis, di rosa vestito ad enfatizzare, se mai ce ne fosse bisogno, la sua presenza imponente. L’artista dà il meglio di sé nella realizzazione scenica del personaggio ed è dotato di voce perentoria e squillante anche nelle improvvise ascese all’acuto. Sorprende, invece, che il suo personaggio non possieda quelle caratteristiche di sfrontatezza, di sbruffoneria, che dovrebbero essergli coessenziali e si presenti invece frastornato, incerto, timido, a dare l’impressione di un’umanità precaria anche sotto il profilo mentale.
Resta il fatto che questo smarrito Trimalchio, che sembra piombato lì quasi per caso a differenza dei suoi commensali in apparenza più strutturati, ad un certo punto si mette ad effondere sangue e a consegnare l’Eucaristia ai presenti, come una sorta di alter Christus. Sfugge il senso di questa trasfigurazione, che appare arbitraria nel contesto dello spettacolo e alla quale non si riesce a dare altro significato se non quello di una gratuita provocazione, di quelle oggi tanto di moda.

Molto centrato l’Habinnas del tenore inglese Christopher Lemmings, cui è affidato il boccaccesco racconto della matrona di Efeso e che dimostra pieno controllo sia del palcoscenico sia dello stile vocale richiesto da questo repertorio. Altrettanto si deve dire della Fortunata del mezzosoprano Manuela Custer, che va apprezzata non solo per la gloriosa carriera già percorsa ma anche per il valore delle sue attuali performance artistiche.
Ben centrato anche l’Eumolpus del basso Francesco Molinari e a posto anche il Niceros del bravo baritono William Corrò e la Criside del mezzosoprano Francesca Gerbasi.
A tutti, solisti ed orchestra, ha dato il suo prezioso supporto dal podio il maestro Alessandro Cappelletto, tenendo in mano con precisione le fila della non facile partitura.
La pomeridiana di sabato 28 gennaio ha fatto registrare un caldo, cordiale successo da parte del numeroso pubblico presente.

Adolfo Andrighetti

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