FENICE: SUORE ALLA VANA RICERCA DELLA LIBERTA’
Se poi si guarda al personaggio di Blanche, la ragazza fragile, ipersensibile, che decide di entrare in monastero per difendersi dal mondo esterno ma che, all’ultimo istante, trova il coraggio di unirsi alle consorelle nel martirio, si potrebbero aprire vaste riflessioni su un tema di assoluta attualità come il disagio della persona di fronte alla realtà, vista come un nemico da cui guardarsi. E che dire del martirio? È giusto tacciarlo di disumanità oppure rappresenta la sublime testimonianza di una volontà eroica immolata ad un ideale?
E qui conviene fermarsi, perché, dal fatto storico dell’esecuzione mediante ghigliottina di sedici suore carmelitane di Compiègne avvenuta a Parigi il 17 luglio 1794, al racconto “Ultima al patibolo” che ne trasse Gertrud von le Fort (1931), al dramma di George Bernanos “Dialoghi delle carmelitane” (1948, postumo), fino all’opera di Franҫois Poulenc (Scala, 26.1.1957), autore della musica e del libretto ricavato da Bernanos, i contenuti umani e filosofici sembrano complicarsi anziché semplificarsi.
Tuttavia un tema dominante forse si può rintracciare, quello della morte, alla quale potrebbe offrire una prospettiva nuova il martirio inteso nel suo significato etimologico di testimonianza, realizzata offrendo la vita per un ideale trascendente. A questa visione della morte si ispira, già nella seconda scena del primo Atto, la scelta di Blanche del nome da assumere in religione: suor Blanche dell’Agonia di Cristo.
Ancora nel primo Atto, scena terza, suor Constance invita suor Blanche a donare entrambe la propria vita per quella della superiora, gravemente ammalata. E nella scena seguente, ove si assiste alla problematica, anzi terribile, agonia della superiora, quest’ultima dichiara di volere offrire la propria morte a suor Blanche.
Il secondo Atto, poi, è attraversato tutto dal tema del martirio, desiderato come compimento ultimo e sublime della vita (Mère Marie de l’Incarnation); ma anche guardato con diffidenza quasi come una tentazione, un voler forzare la volontà di Dio (la nouvelle Prieure).
Il terzo Atto, infine, rappresenta il trionfo del martirio, al quale le suore si votano su insistenza di Mère Marie e quindi liberamente si offrono cantando il Salve Regina nel sublime e impressionante finale.
Si può affermare, quindi, che ”Dialogues des Carmélites” rappresenta una vasta e potente riflessione sulla morte vista come passaggio verso la Vita, la Vita di Dio. Attraverso il martirio, cioè la libera offerta di sé per un ideale superiore nella prospettiva dell’Eternità, il focus si sposta, dalla morte, al suo contrario. La morte, liberamente abbracciata in nome di Cristo, perde il suo pungiglione, come scrive san Paolo, e diventa il luogo ove trionfa la Vita. L’origine è il Calvario, ove il supplizio della croce accettato da Cristo diventa la fonte della salvezza universale, cioè della vita che non conosce tramonto. Alla concezione cristiana della morte come condizione per la risurrezione si contrappone nell’opera la pratica dei rivoluzionari, che la morte la usano per eliminare i nemici e terrorizzare gli avversari.
I ”Dialogues des Carmélites”, al debutto a Venezia, sono proposti alla Fenice in una coproduzione con il Teatro dell’Opera di Roma per la regia di Emma Dante, anch’essa alla sua prima in laguna, le scene di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino, il disegno luci di Cristian Zucaro, i movimenti coreografici di Sandro Maria Campagna.
Lo spettacolo si tiene distante dalla logica dei cattolici Bernanos e Poulenc, preferendo vedere la domanda religiosa, cioè la domanda di assoluto, di infinito, che urge nel cuore delle carmelitane, come una componente in fondo secondaria di un più generico anelito alla libertà, che accomuna le suore come qualunque altra donna anche lontana dalla scelta religiosa. Ciò che conta, in questa visione, non è la ricerca di Dio, ma invece l’indagine sulla libertà conculcata di queste donne, che rinunciano ad essere tali in nome di un ideale astratto ed ambiguo.
Di qui l’atmosfera cupa, tetra, in cui prevalentemente è immerso lo spettacolo, accentuata dalle splendide luci, con la presenza dominante di una grata che chiude il palcoscenico fino al soffitto e ai lati, a rappresentare l’angustia della vita conventuale, che serra le suore all’interno di una dimensione priva di respiro e di orizzonti umani; una grata che si ritira solo per lasciare spazio a fondali neri o comunque ad ambienti immersi nell’oscurità. E la stessa vestizione di Blanche in fondo è rappresentata come un’incarcerazione.
E ancora il macabro ossario decorato di teschi in cui è deposto il cadavere della priora. E l’orribile penitenza cui la regola, al di là di ogni verosimiglianza storica, sottopone le suore, che si legano delle pietre ad una caviglia costringendosi così a claudicare; e quelle carmelitane che di tanto in tanto attraversano il palcoscenico piegate a novanta gradi spingendo questi strumenti di tortura, sono il simbolo di una concezione femminile degradante e in fondo disumana. Anche il grande crocifisso che spesso incombe dall’alto sul palcoscenico e oscilla minacciosamente nei momenti più gravi della vita della comunità sembra incarnare l’oppressione insita in una concezione religiosa della vita, così come la sacra esaltazione delle suore, espressa con la tensione di tutta la loro persona ad afferrare, a toccare la divina persona o il suo simulacro, sembra l’espressione di un fanatismo spaventoso ed irragionevole: tant’è vero che il crocifisso all’inizio dell’opera sparisce come fagocitato all’interno di quell’abbraccio irragionevole, mentre, più avanti, viene sostenuto dalle stesse braccia nelle sue pericolose oscillazioni, quasi che il sacrificio di quelle povere donne fosse indispensabile per reggere un ideale ormai tramontato.
Secondo questa concezione, anche la morte di Blanche, collocata su una croce come un alter Christus, non può essere letta come il sacrificio di una religiosa che si unisce a quello del suo Signore condividendone lo stesso strumento di morte e quindi facendosi simile a Lui nell’offerta della vita per la salvezza universale; ma, piuttosto, come l’ultima illusione di chi vuole credere nell’incredibile, perché il martirio, come afferma la regista, è “una decisione delirante”.
Anche le scene che dovrebbero essere più serene, come la terza del primo Atto, nella quale si assiste a momenti della vita quotidiana nel Carmelo, non sono esenti da questo sguardo sospettoso, anzi negativo sulla scelta religiosa, sia per il contrasto fra la vitalità naturale delle suore e la gabbia di pregiudizi che impedisce di esprimerla, sia perché questa vitalità si manifesta attraverso movimenti meccanici e non spontanei come quelli delle suore stiratrici.
Ma se la vita monastica nega la libertà, questa non è garantita neppure dal nuovo ordine imposto con la violenza dalla rivoluzione. La grottesca fuga dal Carmelo delle suore in bicicletta dopo che sono state costrette a rinunciare alla vita religiosa e non prima di essersi segnate ripetutamente come se stessero peccando contro la loro volontà, è una finta liberazione, sia perché imposta con la forza, sia perché troverà la sua atroce conclusione sulla ghigliottina.
Lo spettacolo, comunque lo si voglia valutare nei contenuti, è comunque di alto livello sul piano teatrale, curatissimo in ogni dettaglio, attentamente studiato in modo da non lasciare nulla al caso. Tutto ciò è evidente nella intelligenza, oltre che nella diligenza, con cui ogni momento dell’impegnativa opera è valorizzato ai fini della rappresentazione, nella caratterizzazione dei personaggi come nei movimenti di coristi, ballerini e mimi, il cui apporto teatrale è determinante per la riuscita della messinscena. Assolutamente funzionali all’idea registica anche la semplice scenografia, l’efficacissimo disegno luci, i costumi evocativi con buon gusto fra rispetto della collocazione storica della vicenda e atemporalità, i pertinenti movimenti coreografici. Insomma, una grande prova di professionalità e di intelligenza teatrale, della quale bisogna dare atto alla regista e al suo staff.
Sul piano musicale, il fascino dei ”Dialogues des Carmélites” emerge da una varietà di suggestioni, di motivi ispiratori, di colori orchestrali, che sorprendono e suscitano ammirazione, anche perché in perfetta armonia con la drammaticità della. Così il rapido trascorrere dai tocchi impressionistici timbricamente raffinati alla Debussy a un declamato aspro e fortemente impattante alla Musorgskij accompagna i fatti raccontati con una pertinenza straordinaria, al punto da fare di quest’opera uno dei capisaldi del novecento musicale.
Il maestro Frédéric Chaslin, grazie anche all’apporto dell’orchestra della Fenice che si segnala per omogeneità e compattezza di suono al pari del coro istruito da Alfonso Caiani, imposta nel complesso una lettura vivida e dinamica, ricca di vigore e di forza teatrale, anche se i momenti più lirici non sono per ciò trascurati. Questa interpretazione, più vitale che contemplativa, avvolge e trascina nella sua carica drammatica il pubblico e porta i cantanti, anche per non essere soverchiati dal volume sonoro proveniente dalla buca, ad insistere su dinamiche intense, con un canto di forte impatto sul piano emotivo.
Ne scapita la vocalità fresca, sana, ma non imponente della Blanche di Julie Cherrier-Hoffmann, mentre reggono bene l’impatto la Mére Marie de l’Incarnation di Deniz Uzun e la Soeur Constance di Veronica Marini, dalle voci rigogliose e ben proiettate, anche se i momenti di canto sfogato sfociano in acuti fissi e gridati tutt’altro che gradevoli. Senza pecche, invece, Le Chevalier di Juan Francisco Gatell, che declama con forza ed incisività senza perdere mai il controllo dello strumento e della linea vocale.
Felicissima anche la performance di un’artista sopraffina quale Anna Caterina Antonacci, che, come Prieure du Carmel, muore con struggente intensità ma senza mai perdere il senso della misura sia nella presenza scenica sia nella resa vocale, caratterizzata da un timbro pieno, rotondo, sonoro, oltre che dalla nota espressività del fraseggio. A posto nei ruoli rispettivi anche Vanessa Goikoetxea, una nouvelle Prieure vocalmente presente ed efficace, e Armando Noguera, un Marquis de la Force appropriato in ogni suo intervento.
Vanno menzionati anche tutti gli altri protagonisti o coprotagonisti dello spettacolo: l’Aumônier du Carmel, puntuale ed appropriato ma un po’ sovrastato dai decibel orchestrali, di Jean-Franҫois Novelli; il I Commissaire di Marcello Nardis, come sempre padrone della parte; Francesco Paolo Vultaggio, vocalmente di impatto nei quattro ruoli affidatigli; e ancora, del tutto all’altezza, la Mère Jeanne di Valeria Girardello, la Soeur Mathilde di Loriana Castellano, l’Officier di Gianfranco Montresor.
Successo pieno, caldo e alla fine assolutamente meritato per tutti, considerata anche la non trascurabile difficoltà dell’impegno, alla fine della rappresentazione di martedì 24 giugno.
Adolfo Andrighetti