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AZIENDA VICENTINA REALIZZA LA FONTANA PIU' GRANDE D'ITALIA

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Risale al 1857 la precedente rappresentazione a Venezia di “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti, primo dei suoi capolavori ‘seri’, che debuttò, su libretto di Felice Romani, al teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830, accolto da un successo clamoroso. Questa nuova proposta, presentata alla Fenice in concomitanza con l’ingresso del nuovo sovrintendente e direttore artistico Nicola Colabianchi, ha quindi il sapore di un evento nella storia del teatro lagunare, da onorare con un allestimento ed una esecuzione musicale del più alto livello possibile. Di qui la domanda: abbiamo assistito ad uno spettacolo tale da rendere giustizia ad una delle opere più significative del romanticismo italiano e da accogliere con quel ‘finalmente’ festoso e liberatorio che si riserva alle attese protratte molto, troppo a lungo, ma poi appagate in modo pienamente soddisfacente? Di sicuro rende giustizia all’occasione la partitura in versione integrale, compresi gli ‘a capo’ con variazioni delle cabalette: circa tre ore e venti di sola musica che, se possono mettere a dura prova la pazienza dello spettatore medio, rappresentano però la conditio sine qua non per ripresentare dopo così tanti anni un’opera nel pieno rispetto delle ragioni del compositore e dell’arte in generale. Adeguato all’evento si può considerare anche l’allestimento pensato e realizzato per regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, debuttante nel titolo, con l’ausilio di Oscar Frosio per il funzionale disegno luci. La scenografia si presenta lineare ed essenziale, secondo la dichiarata ultima tendenza di Pizzi volta a sottrarre anziché ad aggiungere, e consiste in una struttura stilizzata di ispirazione tardo-gotica (copyright dello stesso regista), che rimane identica per tutto lo spettacolo e potrebbe rappresentare una sorta di gabbia all’interno della quale i protagonisti restano imprigionati, senza poter dare sfogo ai propri desideri. Le variazioni all’interno di questa struttura base sono pochissime: una camera da letto con un talamo circondato da ampie e sinuose cortine blu, poi una sorta di inferriata che divide il palcoscenico orizzontalmente a figurare un carcere. Si crea, così, un ambiente spoglio, atto ad esaltare, con la sua stessa nudità, la tragedia che ospita. I colori dominanti sono anch’essi austeri e variano dal nero al grigio ferro, mentre sono più ricchi e fantasiosi i costumi, richiamanti fogge e mode dell’epoca Tudor. In questo modo, come osserva lo stesso Pizzi, viene trovato “il giusto clima drammatico”, all’interno del quale gli interpreti vengono lasciati liberi di agire, per poter esprimere, muovendosi prevalentemente al proscenio, la bellezza e l’espressività di un canto nel quale si sostanzia, secondo lo stesso regista, la ragion d’essere di quest’opera. Ed ecco il punto: non saprei dire se, come afferma Pizzi, in “Anna Bolena” “tutto quello che succede è pretestuoso ed è principalmente un’occasione per far esplodere il belcanto”. In proposito mi permetterei di essere più cauto, perché, se è vero che Enrico VIII e Percy corrispondono in fondo a due stereotipi, altrettanto non si può dire di Anna, che vive con grande intensità il dramma di chi, dopo aver perso l’amore, viene privata anche del proprio rango, e di Giovanna Seymour, combattuta fra il rimorso del male che arreca ad Anna accettando le profferte del re, l’amore sincero che la lega a quest’ultimo, il desiderio umano di gloria che manifesta allo stesso Enrico. Figure non banali, insomma, umanamente vive, attorno alle quali la tragedia si compie in maniera forte e compatta. Ma il punto è un altro. Che si tratti di un’opera in cui il canto è fondamentale non vi è dubbio, secondo la logica e l’ispirazione del melodramma italiano del primo ottocento; a confermarlo, basti nominare i primi interpreti: Giuditta Pasta, Giovanni Battista Rubini, Filippo Galli. Qui non si tratta – e Dio ce ne guardi – di evocare un passato immerso nelle nebbie della leggenda per confrontarlo con un presente inevitabilmente inadeguato; ma di provare a vedere se, anche dal punto di vista del canto, che in questo repertorio è determinante, la ripresa alla Fenice, dopo più di 150 anni di assenza, di un titolo storicamente ed artisticamente così rilevante, sia stata all’altezza dell’occasione. La protagonista, la russa Lidia Fridman, merita di essere sostenuta per la giovane età (è nata nel 1996) e per una dotazione vocale di assoluto rispetto. La sua Anna Bolena, che debuttava, sorprende per la colonna sonora compatta, imponente, omogenea, senza una smagliatura, senza una debolezza, prodotta da uno strumento certamente fuori dall’ordinario anche per l’estensione, grazie al quale l’artista affronta il ruolo senza problemi di sorta sul piano vocale. Ne vengono esaltati i momenti di maggiore intensità drammatica, che sono risolti con una compattezza sonora a tratti impressionante; ma anche le oasi liriche sono affrontate con la corretta impostazione e le giuste intenzioni. Purtroppo tutto questo non basta per restituire con piena credibilità un personaggio così complesso e sfaccettato quale Anna Bolena, al quale, nella interpretazione del soprano russo, manca ancora, ma potrà arrivare col tempo, quella sensibilità di donna, quelle trepidazioni, quelle sottolineature espressive, che uno strumento di tale portata, paradossalmente ma non troppo, forse non aiuta a trovare. Ecco, forse manca, in questa Anna Bolena, quel profumo di femminilità che potrebbe impreziosire il personaggio e che viene sacrificato anche a causa del timbro androgino, soprattutto nella prima ottava, del soprano. Quindi, per portare un esempio, se “Al dolce guidami” è carente di abbandono estatico, di quell’incanto sognante che è l’anima del pezzo, “Coppia iniqua”, invece, è trascinante e pieno d’impeto. Chi, invece, non ha problemi nel fraseggiare con espressività, sensibilità e varietà di accenti è la Giovanna Seymour del soprano Carmela Remigio, che, in un ruolo di solito affidato ad un mezzo, continua a dare prova di una versatilità artistica ammirevole, grazie ad una solida impostazione tecnica e ad una preparazione di tutto rispetto. Nonostante lo strumento, infatti, manifesti qua e là qualche durezza e in certi casi richiederebbe un suono più pieno e rigoglioso, il personaggio viene restituito a tutto tondo nel profilo drammatico ed onorato anche sul piano vocale e stilistico. Altrettanto può dirsi dello Smeton di Manuela Custer, al quale, in certi momenti, si adatterebbe un timbro più fresco, più adolescenziale, ma che è proposto con piena credibilità nella sua patetica natura di ragazzo innamorato, smarrito, vittima di eventi più grandi di lui. Per quanto riguarda il settore maschile, non passa inosservato – e sarebbe da meravigliarsi del contrario – l’Enrico VIII di Alex Esposito, colmo di protervia, di aggressività, di malvagità, al punto da sembrare più un vilain da tradizione che un sovrano, seppure altero, superbo e abituato a imporre a tutti il proprio capriccio. L’approccio vocale privilegia l’accentazione violenta e, appunto, aggressiva, sulla levigatezza e l’omogeneità dell’emissione, il che è discutibile in questo repertorio, anche perché l’artista non ama le mezze misure ma spinge le proprie interpretazioni sempre fino al limite e anche oltre, con esiti di assoluta efficacia sul piano drammatico ma talvolta rischiando, almeno in questo caso, di alterare la linea di canto in nome dell’espressività. La presenza teatrale è del tutto coerente con quella vocale: è un Enrico VIII che tradisce la meschinità delle emozioni che lo agitano muovendosi sul palco con un atteggiamento bieco ben poco regale e non disdegnando di alzare le mani su chi capita. Il Percy di Enea Scala sarebbe molto appropriato se la parte prevedesse solo la zona centrale del pentagramma, dove l’artista sfoggia un fraseggio di bella grana tenorile, nel quale sono presenti abbandono, languore, slancio romantico, quell’afflato lirico, insomma, in cui consiste il fascino di questi ruoli. Purtroppo la zona acuta, affrontata sempre di forza e a voce piena, viene guadagnata con una fatica che compromette la linea e non giova alla resa complessiva. La presenza in scena, però, è viva e spigliata, per cui agli occhi dello spettatore si presenta un Percy come lo si potrebbe immaginare. Anche questo conta. Ottimo, per la vocalità rotonda, nobile e di bel timbro, il Rochefort di William Corrò, mentre ha convinto meno l’Hervey di Luigi Morassi, dall’emissione spesso spinta in un canto che suona stentoreo e forzato. Il ruolo del coro, collocato da Pizzi sul fondo della scena a commentare la vicenda in decorativi tableaux vivant, è fondamentale in quest’opera e viene risolto al meglio, con un suono sempre pieno e compatto a tutti i livelli dinamici, dalla compagine del Teatro istruita da Alfonso Caiani, alla quale vengono giustamente riservati applausi scoscianti al termine dello spettacolo. Ma va detto che un successo pieno ha accolto alla fine della serale di venerdì 4 aprile tutti gli interpreti. Un vero e proprio trionfo, con l’omaggio tradizionale e gentile del mazzo di fiori, è toccato a Lidia Fridman, ma piena soddisfazione è stata riconosciuta a tutti gli altri, a cominciare dal maestro Renato Balsadonna, direttore e concertatore. Questi privilegia i momenti a maggiore intensità drammatica e quindi le sonorità forti e i colori scuri a scapito delle oasi liriche e sentimentali, con un approccio che risulta a tratti un po’ pesante o solo troppo spiccatamente verdiano, specie in alcuni accompagnamenti; una scelta che forse ha influito sullo stile dei cantanti e sul loro modo di affrontare i rispettivi ruoli, ma che va accettata nell’insieme come una delle tante, attendibili letture che si possono dare del capolavoro donizettiano. Adolfo Andrighetti
E’ iniziata bene la stagione canoistica della Canottieri Mestre. Al Campionato veneto fondo & canoa giovani, la cui prima tappa si è svolta a Chioggia con 217 pagaiatori in rappresentanza di 18 società, il sodalizio biancoverde era presente con 29 atleti. Lukas Schrenk Scott si è laureato campione regionale K1 m. 5.000 Ragazzi Maschile, mentre la giovanissima Virginia Ganzaroli ha vinto le serie in K1 4,20 Allievi B Femminile m.2.000 e m. 200; il club di Punta S,Giuliano si è anche aggiudicato 8 medaglie d’argento e 4 bronzi. La settimana successiva la manifestazione è proseguita a Peschiera del Garda con 241 atleti e 21 società (33 i canoisti della Canottieri Mestre). Quattro le medaglie d’oro vinte dai biancoverdi: K4 m. 5.000 Senior (Lorenzo Scantamburlo – Edoardo Raul Profil -Giovanni Carrer -Matteo Furlan); K4 m. 5.000 Ragazzi Maschile (Sebastiano De Piccoli – Lukas Schrenk Scott – Alessio Fontanarosa- Thomas Guzzo); K4 m. 5.000 Ragazzi Femminile (Veronica Zorzetto-Viola Persi Paoli- Giorgia Rossi-Maria Sole Zennaro); K2 m. 5.000 Junior Maschile (Gabriele Alberti- Marco Pedralli). Nella gara regionale K1 4,20 m. 2.000 Allievi B Femminile va inoltre segnalato il nuovo successo di Virginia Ganzaroli. Il bottino finale della Canottieri Mestre ha visto anche tre medaglie d’argento.
Sono arrivate dai più piccoli le maggiori soddisfazioni per la Canottieri Mestre, impegnata nelle regate inaugurali della stagione remiera a San Giorgio di Nogaro, in Friuli Venezia Giulia; presenti circa 800 atleti di tutte le età, provenienti anche da Croazia, Slovenia ed Austria. Alessio Romano e Sebastiano Restivo si sono classificati primo e secondo nelle rispettive serie in singolo allievi cat. B. In un avvio d’annata complessivamente soddisfacente per la rappresentativa biancoverde va segnalata anche la buona prova degli under 19, Alexandros Saraji e Nicolò Bellemo (settimo ed ottavo in singolo; quinti in 2 senza) in preparazione delle selezioni a Gavirate per i campionati europei.
Felicissima proposta, al teatro Malibran e per la prima volta a Venezia in occasione del trecentesimo anniversario della morte di Alessandro Scarlatti, dell’unico titolo dell’insigne musicista definibile come comico: “Il trionfo dell’onore”, commedia in tre atti su libretto di Francesco Antonio Tullio in prima esecuzione assoluta al Teatro dei Fiorentini di Napoli il 26 novembre 1718. Non si tratta, come il titolo farebbe supporre, di una riflessione moraleggiante sugli usi e costumi di personaggi paludati di alto sentire, ma appunto di una commedia, nella quale si assiste ad una sarabanda caotica, ad alto livello di licenziosità, animata da quattro coppie che si intrecciano, si contrappongono, si desiderano, si odiano, fino alla ricomposizione finale, ove, giusto il titolo dell’opera, trionfa l’onore, cioè buon senso e realismo. Il merito dell’eccellente riuscita di questa nuova produzione, salutata al calar del sipario da intensissime e giustificate ovazioni del pubblico, va ascritto in parti uguali alla componente scenica e a quella musicale. Il palcoscenico è tenuto in mano con sicurezza esemplare dal regista Stefano Vizioli, coadiuvato da Ugo Nespolo per scene e costumi, questi ultimi realizzati con gusto e abilità da Carlos Tieppo. Nevio Cavina è il responsabile dele luci. Vizioli riesce a conferire coesione e un ritmo compatto, senza una sbavatura, senza un momento di stasi, con la massima vitalità ma senza quella frenesia che il vorticoso alternarsi delle situazioni potrebbe suggerire, allo scervellato agitarsi degli otto personaggi in fregola. Tutto sul palcoscenico funziona a meraviglia, come un meccanismo perfettamente oliato in cui ogni ingranaggio si incastra senza attrito nell’altro a creare il movimento richiesto; e si rischia di dimenticare bellezze e difficoltà del canto per seguire il gustoso alternarsi dei personaggi sulla scena, che danno vita a simpatici siparietti ricchi di humor e di animazione. Non sono tanto le singole trovate, numerose e spesso ben centrate, a riscattare una comicità inevitabilmente datata risalendo all’inizio del settecento, quanto, come si accennava, il ritmo, sostenuto ma non troppo, mantenuto sul palcoscenico dal regista, che manovra con ammirevole sicurezza e capacità professionale movimenti e gestualità degli otto personaggi; ognuno dei quali, per di più, è caratterizzato in maniera gustosa ed accurata, non sfuggendo allo stereotipo ma anzi valorizzandolo con intelligenza per sottolinearne l’effetto comico. All’eccellente esito dello spettacolo dà un contributo determinante Ugo Nespolo, scenografo e costumista, che avvolge la scena - tranne alcuni momenti seri del III atto affidati al personaggio di Leonora che si svolgono su un fondale scuro - in una meravigliosa sarabanda colorata, ove sono dominanti le quinte decorate con grandi figure di animali, di case o di natura, il fondale geometrico ma altrettanto vivace, e i costumi, di fogge varie e di epoche diverse, anch’essi sovrabbondanti di colore, fantasia, allegria; il tutto rimanendo nell’ambito aureo dell’equilibrio, del buon gusto, della creatività sollecitata al massimo grado ma sempre nel pieno controllo dei mezzi usati allo scopo. E altrettanto può dirsi del disegno luci. Insomma, verrebbe da dire, uno spettacolo più da carnevale che da inizio quaresima, nel quale il giocoso e vitalissimo succedersi delle situazioni erotiche si riflette come in uno specchio nella festa dei colori e della fantasia proposta da scene e costumi; e, forse, viene reso ancora più ammiccante dall’ambiguità sessuale di alcuni personaggi, dovuta certo alla disponibilità degli artisti sulla piazza all’epoca della prima per cui si dovevano accettare quelli che c’erano, ma che finisce per accentuare, almeno per la sensibilità di oggi, quel senso di licenziosa confusione che caratterizza la vicenda. Riccardo, ad esempio, è un seduttore impenitente, collezionista seriale di conquiste femminili, che, dopo aver messo incinta Leonora, vuole ora spassarsela con Doralice fingendosene innamorato perso e pronto a fuggire con lei scopo matrimonio. Ebbene, Riccardo è un soprano donna en travesti sin dalla prima assoluta dell’opera, mentre, secondo la finzione, deve corteggiare, sbaciucchiare, brancicare altre donne. Il personaggio comico di Cornelia, riproposizione del buffo stereotipo della vecchia in fregola ancora a caccia di gratificazioni erotiche, è affidato, secondo l’uso barocco consacrato da illustri precedenti come Monteverdi, ad un tenore, il che ne accentua la componente comica ma anche la fluidità di genere, vista la frequenza delle schermaglie amorose fra Cornelia e il suo amato Flaminio, entrambi tenori. E il tocco conclusivo lo mette Erminio, innamorato di Doralice, che aggiunge il suo timbro asessuato di controtenore alla allegra miscellanea. Anche la parte musicale dello spettacolo è di alto livello, in primo luogo grazie alla impeccabile preparazione musicale, stilistica e scenica degli otto protagonisti, che costituiscono un ensemble affiatato, divertito, professionalmente perfetto. È una gioia vedere questi artisti muoversi e cantare sul palcoscenico con tanta sicurezza e competenza. Il soprano Giulia Bolcato è un Riccardo che si presenta come un giovanetto dalla voce limpida, adamantina e dall’emissione fluida, cui si aggiunge l’incedere ardito, sprezzante, secondo una ben riuscita imitazione di un certo machismo ‘che non deve chiedere mai’. Riccardo è stanco delle lagne di Leonora, da lui sedotta e che ricorda molto la Donna Elvira del “Don Giovanni” di Mozart, mentre è stuzzicato assai da Doralice. Ma dopo aver subito una ferita in duello da Erminio, a sua volta innamorato di Doralice, rinsavisce, si pente e sposa Leonora. Quest’ultima è un personaggio serio affidato al timbro gradevolmente scuro, morbido e ricco di nuances del mezzosoprano Rosa Bove, che interpreta, con la compostezza scenica richiesta dalla parte ma con apprezzabile partecipazione emotiva e suono sempre omogeneo in tutta la gamma, le arie patetiche previste dalla partitura. Doralice, invece, che seria non è, è raffigurata come una biondona un po’ svampita, una ‘bona’ vistosa, volgarotta e sensuale: eccellente il soprano Francesca Lombardi Mazzulli nella caratterizzazione, per la quale si avvale di uno strumento corposo e risonante e di un fraseggio lodevolmente vario. È difficile pensare che di una donna dall’aria così volubile e superficiale come Doralice possa essere innamorato il serioso Erminio, che finirà per averla dopo il ritiro dello sciupafemmine Riccardo. Ma sono i misteri della finzione teatrale, che vanno accettati gioiosamente. Erminio è affidato all’illustre controtenore Raffaele Pe, che esprime la propria sofferenza di innamorato respinto non con la mestizia, come la sorella Leonora, ma con le arie di furore, alle quali piega con successo, grazie ad una competenza musicale e stilistica di alto livello, una vocalità elegante forse più adatta alle espressioni liriche e distese. Il gestire esagitato che accompagna la rabbia, poi, corrisponde allo stato emotivo di Erminio ma sembra esagerato, fuori misura. Il complice di Riccardo nelle sue sregolatezze erotiche, una sorta di Leporello meno complesso e più maschera, è il capitano Rodimarte Bombarda, il classico militare gradasso della commedia dell’arte pronto sempre a dar fuoco alle polveri per poi sparare a salve. Ne è ottimo interprete il basso-baritono Tommaso Barea, grazie ad una vocalità dal bel timbro e robusta, tonitruante a volte, la più adatta a restituire il carattere del personaggio. Rodimarte ama la servetta che, guarda un po’, si chiama Rosina di nome e Caruccia di cognome. Finirà per sposarla, come è ovvio, vincendo senza difficoltà la concorrenza di Flaminio, il classico barbogio dell’opera buffa che concupisce la giovane e finisce per accontentarsi della vecchia. Rosina è il mezzosoprano Giuseppina Bridelli, bravissima per la sciolta, espressiva eppure misurata prestazione scenica e vocale, che ci restituisce una domestica attraente, accattivante, ma mai sopra le righe. Flaminio è caratterizzato in maniera perfetta dal tenore Dave Monaco, che mette la propria sicura e gradevole vocalità di buona tenuta al servizio di un personaggio impagabile, ricco di dignità e di sussiego nonostante la zoppia. Inutile precisare che Flaminio finirà per sposare non la fresca Rosina ma la stagionata Cornelia, a lui già promessa, affidata alla gustosissima ma mai volgare caratterizzazione del tenore Luca Cervoni. Tutti bravi, anzi bravissimi, quindi, sostenuti dalla concertazione del direttore d’orchestra Enrico Onofri, cui è affidata una partitura la più affidabile e completa possibile dopo la revisione compiuta sul manoscritto originale da Aaron Carpenè. Onofri dirige con la competenza riconosciutagli, evitando al meglio quel rischio di meccanicità sempre presente nei ritmi sostenuti del teatro barocco e allargandosi con ammirevole lirismo ed un emozionante effetto patetico nei momenti di ripiegamento intimistico. Adolfo Andrighetti
Rinnovata strategia internazionale per Idrobase Group, vivace realtà imprenditoriale “made in Italy”, con sede a Borgoricco, in provincia di Padova e da anni presente sul mercato africano: anticipando il piano Mattei e prima fra le imprese medio-piccole del nostro Paese avvia, infatti, tre accordi per produzione su licenza in Algeria. Il primo riguarda i componenti per aspirapolveri professionali, mentre il secondo interessa i detergenti per autolavaggi (car wash), hotel e ristoranti (HoReCa); il terzo contratto interessa componenti per idropulitrici professionali. Ai 3 partner algerini saranno fornite tecnologie e “know how” da Idrobase Ningbo (Cina) e dalla casa madre italiana, che si riserva il controllo e la verifica sulla produzione. I componenti prodotti in loco saranno assemblati ai pezzi in arrivo dagli altri due stabilimenti della “multinazionale tascabile” italiana, dando vita ai prodotti finiti . “I prodotti finiti saranno marchiati con logo Idrobase e venduti in Algeria e sul mercato africano; la casa madre italiana garantirà la promozione del brand, il collegamento fra produttori e mercato, nonché naturalmente il controllo di qualità” precisa Bruno Gazzignato, Contitolare di Idrobase Group. Questa implementazione della strategia aziendale nasce tre anni fa ed è parte del piano di sviluppo del marchio Idrobase, che contiamo produca importanti sviluppi sul mercato del settore del cleaning ad iniziare dall’Africa per poi interessare altre aree del mondo. Crediamo così di concretizzare obbiettivi condivisi, offrendo opportunità di collaborazione ad economie emergenti” conclude Bruno Ferrarese, anch’egli Contitolare dell’azienda, specializzata nelle tecnologie dell’ “acqua in pressione” e del “respirare aria sana.” La produzione inizierà fra 9 mesi, cioè il tempo necessario ad approntare le linee di produzione e ad istruire il personale. “Probabilmente siamo la prima azienda europea a delocalizzare dalla Cina all’Algeria!” conclude Ferrarese.
Da venerdì 14 Marzo prossimo sarà disponibile, su tutti i canali digitali, “Tango y Nada Màs”, il nuovo lavoro del chitarrista trevigiano, Andrea Vettoretti, Direttore Artistico del Festival Internazionale delle Due Città Treviso-Venezia: si tratta di un “medley a quattro mani”, eseguito con un altro conosciuto chitarrista della Marca, Massimo Scattolin e dedicato alle melodie più iconiche di Astor Piazzolla, Aníbal Troilo e Cacho Castaña, fuse in un’unica, intensa narrazione musicale. “Tango y Nada Màs” è un omaggio alla tradizione ed allo stesso tempo una nuova visione di questa musica, dove le chitarre dialogano e si inseguono, trasformando ogni nota in un racconto di passione e nostalgia: “Vuelvo al Sur”, “Malena”, “Garganta con Arena”, “Chiquilín de Bachín”, “Balada para un loco”, “Yo soy María” sono brani qui trascritti con cura ed interpretati con tocco unico, vibrante di emozione e virtuosismo. Andrea Vettoretti, chitarrista e compositore di prestigio internazionale, porta la sua musica sui palcoscenici del mondo, esplorando un linguaggio musicale innovativo tra classica e nuove sonorità; con “Tango y Nada Más” prosegue il suo percorso nel genere “New Classical World”, una visione musicale, che unisce tradizione e contemporaneità con uno sguardo aperto al futuro. Dopo essersi esibito nel 2024 in eventi musicali dedicati alla sostenibilità (dal G7 Agricoltura al Teatro La Fenice), Andrea Vettoretti sarà ufficialmente nominato a Trento, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua in calendario il 22 Marzo, “Ambassador del Global Network of Water Museums”, promosso dall’Unesco.
In attesa di rinserrare le fila, ripartendo dal beach handball, la Pallamano C.U.S. Venezia, che in questa stagione sta limitandosi all’attività promozionale, esprime grande soddisfazione per i successi dei “tre moschettieri” che, oggi ventenni, hanno lasciato la società lagunare per i maggiori palcoscenici nazionali, prodotto di un settore giovanile, che si sta lavorando per ricostituire (i biancogranata possono vantare, nel palmares, anche uno scudetto Under 14). Marco Zanon, terzino sinistro approdato nelle fila del Bolzano in serie A Gold, è tra i 19 convocati al raduno della Nazionale in vista della doppia sfida con la Lettonia (13 Marzo a Jelgava – 16 Marzo ad Oristano), valida per le qualificazioni ai Campionati Europei 2026 e che sarà la “prima” del neo Direttore Tecnico azzurro, Bob Hanning. In serie A Gold milita anche Lorenzo Rossi, da tre anni a difesa della porta dei neopromossi marchigiani del Camerano; l’estremo difensore veneziano è stato convocato al raduno della Nazionale di beach handball, iniziato a Trapani, sotto la guida di mister Pasquale Maione in vista degli Europei della prossima estate in Turchia, dove gli azzurri se la vedranno, nella fase preliminare, con Ungheria, Norvegia ed Ucraina. Il pivot, Leo Andreotta, infine, è tra i protagonisti della rinascita del Trieste, la società più titolata d’Italia e che, dopo un anno in Serie A Silver, ha riconquistato la massima serie a quattro giornate dalla fine ed è tuttora imbattuta. “Non possiamo che essere felici del progredire della loro carriera sportiva, partita tra le mura del PalaCus – commenta Sebastiano Varponi, loro primo allenatore ed ancora oggi sul parquet ad insegnare i basilari dello sport ai più piccoli - Manteniamo buoni rapporti e non mancheremo di utilizzarli come testimonial per cercare i loro epigoni, capaci di riportare il C.U.S. Venezia al ruolo, che per tanti anni ha rivestito nella pallamano italiana.”
Forse il merito principale di questa sorprendente produzione di “Rigoletto”, già vista alla Fenice nel 2021 in pieno Covid dopo il debutto all’Opera Nazionale di Amsterdam nel 2017, è rappresentato dalla completa e singolare sintonia fra la concezione registica, dovuta a Damiano Michieletto, e quella musicale, espressa sul podio da Daniele Callegari. La lettura di Michieletto, infatti, imperniata su di un protagonista rinchiuso in un ospedale psichiatrico ove rivive l’intera vicenda in una lunga e angosciosa allucinazione, una lettura così dura, scabra, asciugata da ogni sentimentalismo ma offerta in tutta la sua nuda e spietata disperazione, trova piena rispondenza nella impostazione musicale di Callegari. Questi sembra mortificare ogni parentesi lirica della partitura, per scandirne lo sviluppo secondo un ritmo serrato, implacabile, trascinando il dramma in una corsa sfrenata verso il nulla. L’incubo perenne di Rigoletto, schiacciato dalla tragedia della morte della figlia di cui si sente ed è anche responsabile, quella sua allucinazione incessante popolata dal ricordo di Gilda bambina, dalla presenza sfrontata e invasiva del Duca e dall’agitarsi attorno a lui della massa senza volto e senza anima dei cortigiani, tutto questo universo cui torna a dare vita una mente malata si completa e si compie attraverso una esecuzione musicale a tratti quasi meccanica nella sua implacabile scansione, prosciugata di quegli indugi e di quegli squarci lirici che possano far supporre che, oltre la sofferenza delle vite schiacciate, si apra un altrove armonioso e pacificato. Insomma, il “Rigoletto” messo in scena da Michieletto non dà spazio alla speranza e la direzione di Callegari, sottraendo alla partitura quell’orizzonte lirico in cui la speranza trova una dimensione sonora, compie sul piano musicale ciò che la regia propone. Alla fine si assiste ad una serata memorabile, nella quale nulla è scontato, nulla sa di routine, ma tutto fa riflettere lo spettatore e, prima ancora, lo prende alla gola, lo scuote e lo conturba. Si esce dalla sala emozionati, sconcertati, magari ripassando mentalmente i limiti dello spettacolo come quelli della lettura musicale, ma con lo spirito del reduce che ha appena vissuto un’esperienza forte, artisticamente traumatizzante, di quelle che non si dimenticano. Come sarà difficile dimenticare tutti i momenti solo orchestrali, a cominciare dalle poche battute del preludio, spinti verso una tensione quasi insostenibile e mai udita prima almeno da chi scrive, così non può non restare nel ricordo l’immagine straziante di quell’uomo distrutto, annichilito, vagante per il palcoscenico nell’espressione di una sofferenza che non conosce requie. Su questi presupposti, di fronte ad un così elevato livello culturale ed artistico, non è il caso di indicare i limiti dello spettacolo e dell’esecuzione musicale, già sottolineati su “Asterisco” da chi scrive in occasione della premiere italiana del 2021. Michieletto, coadiuvato da Paolo Fantin (scene), Agostino Cavalca (costumi), Alessandro Carletti (luci) e Roland Horvath (video), sconta la propria creatività sbrigliata e a tratti geniale con una sovrabbondanza di immagini e simboli come Gilda bambina onnipresente sia in scena sia nei video; una sovrabbondanza che è incongrua in una visione così severamente e spietatamente essenziale della vicenda; ed è ovvio che la lettura di Callegari, stringente e quasi asfissiante nella sua assenza di oasi liriche in cui riposare e respirare, non giova al canto, che non si espande libero nei momenti in cui lo potrebbe ma resta sempre un po’ sacrificato, come ingabbiato. Così “Veglia o donna” suona meccanico, carente di sentimento ed umanità, e altrettanto può dirsi di uno spoetizzato “Caro nome”. Ma ‘tout se tient’ in questo indimenticabile “Rigoletto”, perché tutto è coerente con una concezione che dimostra come, partendo dal dramma e non stravolgendolo, si possano proporre spettacoli innovativi, anche trasgressivi, ma non fuorvianti, non ultronei rispetto a quanto suggerito dal libretto e dalla partitura. Certo, le forzature non mancano, sia nella regia come nella lettura musicale; eppure non fanno che riproporre al giorno d’oggi quella carica destabilizzante che gli spettatori dell’epoca percepirono in “Rigoletto” al suo primo apparire. Luca Salsi letteralmente si offre alla regia di Michieletto con totale disponibilità, accogliendone fino in fondo ogni stimolo, ogni suggerimento. Il risultato è un’interpretazione memorabile per la verità della presenza scenica angosciata, straziata, alienata nella gestualità ossessiva e irrequieta. Lo strumento, sontuoso come sempre per rotondità, omogeneità, pienezza di suono, sa piegarsi ad ogni esigenza della partitura con una varietà di colori, accenti e sfumature che non sorprende più chi segue questo eccellente artista, così felicemente e frequentemente presente alla Fenice. A un “Cortigiani” di una violenza inaudita, per esempio, corrispondono innumerevoli frasi sussurrate con straordinaria leggerezza. Da sottolineare, rispetto alla performance del 2021, l’apprezzabile rinuncia, soprattutto nel finale, ad effetti quasi di parlato allora apparsi forse troppo esteriori e plateali, a vantaggio di un canto spianato altrettanto emozionante ma più conforme allo stile verdiano. Anche il Duca di Mantova del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, già presente nel 2021 come il maestro Callegari, Salsi e alcuni comprimari, è perfettamente intonato all’impostazione dello spettacolo. Sicuro di sé sino alla sfrontatezza e oltre, si muove sul palcoscenico come a casa e incarna alla perfezione il ruolo del macho che, come recitava una pubblicità d’antan, ‘non deve chiedere mai’. Anche sul piano vocale la resa è coerente con la sottolineatura della componente arrogante ed egocentrica del personaggio, attraverso un canto che sfoga facilmente verso l’acuto e suona sempre insolente, quasi aggressivo. Quindi il tenore dà il meglio di sé dove può liberare la voce in un canto spiegato e squillante, come nella cabaletta “Possente amor mi chiama” e anche ne “La donna è mobile”, mentre altrove si vorrebbe un suono più morbido e rotondo, ottenibile con un’emissione più controllata ed omogenea. Così i momenti in cui l’artista cerca un canto più modulato sul piano, sembrano quasi giustapposti a quelli in cui il suono viene scagliato verso l’alto con squillo aggressivo, mentre le due fasi dovrebbero apparire l’una il completamento dell’altra senza soluzione di continuità. Maria Grazia Schiavo, apprezzatissima alla Fenice ne “La Fille du régiment” del 2022, è la Gilda, indifesa di fronte all’irrompere dell’amore, che ci si aspetta e che deve essere. La voce, forse in qualche momento in difetto di volume e di rotondità, dà il meglio nei passi più virtuosistici, come “Caro nome”, dove si impongono la tecnica impeccabile del soprano, il suo timbro squillante e adamantino e la sua facilità nel dominio del registro acuto. Lo Sparafucile di Mattia Denti è adeguato nella presenza scenica da bravaccio delle nostre tristi periferie urbane, mentre il canto, nonostante la buona padronanza del grave e l’indiscutibile professionalità, sembra quasi faticare a liberarsi e ad espandersi, e lascia un po’ a desiderare in quella connotazione minacciosa e lugubre pure indispensabile nella resa del personaggio. Misurata nel canto e nella presenza scenica la Maddalena del mezzosoprano Marina Comparato. Adeguati il Monterone di Gianfranco Montresor, anche se la parte richiederebbe un basso piuttosto che un baritono, e il Marullo di Armando Gabba. Apprezzabile, senza scendere in pedanti distinguo, il contributo degli altri: Carlotta Vichi (Giovanna), Roberto Covatta (Borsa), Matteo Ferrara (conte di Ceprano), Rosanna Lo Greco (contessa di Ceprano), Nicola Nalesso (Un usciere di corte), Sabrina Mazzamuto (Un paggio della duchessa). Impeccabile il Coro della Fenice istruito da Alfonso Caiani. Alla serale di martedì 11 febbraio il pubblico si scalda e si sgola per applaudire con entusiasmo tutti gli interpreti, a cominciare dal monumentale Luca Salsi, meritatamente oggetto di ovazioni interminabili. Ma sarebbe stato interessante cogliere qualche reazione di fronte alla spiazzante proposta teatrale e musicale, proprio per capire cosa...è stato effettivamente capito. Adolfo Andrighetti
La creazione di una “joint venture” per lo sviluppo dell’immenso mercato U.S.A. degli “sparanebbia” per l’abbattimento delle polveri industriali (oltre al consolidamento della presenza oltreoceano nel settore della ricambistica) è l’ulteriore novità degli obbiettivi 2025 della veneta Idrobase Group, azienda leader internazionale nell’utilizzo delle tecnologie dell’acqua in pressione e del “respirare sano”, presente oggi in 92 Paesi. A presentare le priorità annuali nell’ “headquarter” di Borgoricco, in provincia di Padova sono stati i contitolari, Bruno Ferrarese e Bruno Gazzignato, da sempre sostenitori delle alleanze strategiche, che hanno già portato alla nascita di una rete italiana d’impresa (Safebreath.net). Così, una convinta filosofia collaborativa sarà anche alla base della rafforzata presenza sul mercato africano, grazie ad accordi di produzione su licenza, conclusi con imprenditori algerini. Lì saranno trasferite alcune produzioni attualmente in carico all’unità produttiva Idrobase Ningbo, in Cina; assemblate con componenti in arrivo dalla casamadre italiana serviranno a realizzare prodotti di “cleaning” per i mercati d’Africa in crescita esponenziale. Nella sede centrale di Borgoricco prosegue intanto (terminerà nel 2026 con un investimento complessivo di mezzo milione di euro) l’implementazione del metodo Lean i tutti i comparti aziendali (dagli acquisti al finanziario) con grande attenzione alla valorizzazione del capitale umano; tale processo porterà ad un risparmio del 40% nei tempi di lavoro, permettendo maggiore formazione qualificata per i dipendenti, più tempo per ricerca ed innovazione, una riduzione selettiva del 15% sui prezzi di listino per garantire più penetrazione sui mercati e combattere anche la concorrenza a basso costo, pur mantenendo alta la qualità “made in Italy”. Grande attenzione sarà dedicata al “post vendita”, passando dalla logica della riparazione a quella della manutenzione preventiva, creando un network di installatori e manutentori garantiti. “Mantenere un macchinario in efficienza costa assai meno che provvedere a ripararlo” chiosa Bruno Gazzignato. Obbiettivo complessivo per il 2025 è incrementare del 13% il fatturato, oggi tornato a circa 15 milioni di euro dopo il rallentamento dovuto alle conseguenze del disastroso incendio del 2022 ed alle contingenze mondiali. “Da quell’esperienza – sottolinea Bruno Ferrarese - siamo usciti determinati a ricostruire l’azienda secondo criteri nuovi: dagli spazi di lavoro ai processi produttivi. I risultati ci stanno dando ragione.” Obbiettivo ancora più sfidante attende il 2025 dell’unità produttiva cinese Idrobase Ningbo: lì si punta ad incrementare il fatturato dell’80%, recuperando quote di mercato, perse a causa della crisi del mercato interno e della concorrenza a basso costo. “Il vento però sta cambiando ed i competitors locali si sono ridotti – conclude Ferrarese – Adeguando l’offerta alle aspettative di mercato, siamo convinti che la qualità sarà premiata.”
Grande soddisfazione alla Canottieri Mestre per l’attribuzione di due benemerenze durante la recente cerimonia svoltasi nel municipio di Cavarzere per la consegna dei riconoscimenti C.O.N.I. a dirigenti, tecnici ed atleti della provincia di Venezia. Ad essere premiati sono stati Alberto Vianello, insignito della Stella al Merito Sportivo come dirigente e Paolo Carraro, che ha ricevuto la Palma di Bronzo al merito tecnico come allenatore. Ogni anno il C.O.N.I., rappresentato a Cavarzere dal Presidente regionale, Dino Ponchio e dal Delegato per la provincia di Venezia, Massimo Zanotto, vuole così premiare personaggi, che si sono particolarmente distinti durante la propria carriera agonistica, dedicando tempo e passione allo sviluppo della pratica sportiva.

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La si potrebbe definire una spettacolare evoluzione dell’ingegneria idraulica italiana, celebre nel mondo. In Campania, infatti, a poche centinaia di metri dal celebre Parco Archeologico di Pompei, è stata realizzata la fontana più grande d’Italia: un fronte di circa 200 metri, dove quasi 2000 ugelli (44 robotizzati multidirezionali, 144 azionati ad aria compressa, 164 interattivi “water switches”, 1500 per l’effetto nebbia realizzato in collaborazione con Idrobase Group) e 1150 fari concorrono a creare straordinarie coreografie, tra cui un “water screen”, cioè uno schermo d’acqua, alto 12 metri e largo 30, utilizzato come sfondo per proiezioni. Realizzata a corredo dell’anfiteatro destinato ad ospitare spettacoli ed eventi nell’area del Maxi Mall Pompeii, il più grande centro commerciale e di intrattenimento del Sud Italia (una superficie di 200.000 metri quadri, di cui 6.000 coperti con 170 esercizi), la “show fountain” da record è frutto dell’ingegno e della tecnologia di “Watercube”, azienda veneta (la sede è a Marano Vicentino) che, nata come società di installazione, ha saputo evolversi anche nella progettazione, diventando un “competitor” globale dei colossi mondiali. “Grazie all’impianto di Pompei, abbiamo l’orgoglio di essere finalmente profeti anche in patria – dichiara Barbara Borriero, Amministratore Unico di “Watercube” - Il nostro è un settore di nicchia, dagli orizzonti poco conosciuti, dove dominano estetica, fantasia ed innovazione nella costante ricerca del connubio fra spettacolarità e sostenibilità idrica. Indicativo è che il maggiore mercato sia quello della Penisola araba, dove grandi disponibilità economiche si accompagnano all’esigenza di ottimizzare l’uso di ogni goccia d’acqua. Così, nella celebre località archeologica campana, abbiamo creato giochi idrici sincronizzati con un impianto audio immersivo, luci, laser, proiezioni, nebbia artificiale con le stesse tecnologie ed effetti speciali, che caratterizzano le fontane danzanti del Burj Khalifa di Dubai piuttosto che di fronte al casinò di Bellagio, a Las Vegas.” La fontana di Pompei movimenta fino a 50.000 litri d’acqua al minuto, grazie a 750 metri di tubazioni e collettori in acciaio inox, 8 chilometri di tubazioni in polietilene (PE), 1 chilometro di tubazioni in polivinilcloruro (PVC), 16 chilometri di cavi elettrici; è anche dotata di un sistema automatico di caricamento e svuotamento per la creazione di un’area “wet/dry” calpestabile di 800 metri quadrati con profondità media di 4 centimetri d’acqua, dislocata attorno alla vasca principale. Nell’epoca post Covid, grande attenzione è stata dedicata alla salubrità idrica, per il cui controllo sono impiegati, tra l’altro, sistemi di sanificazione ad ozono ed a raggi UV. Gestito da un software e da un server dedicato, l’impianto è controllato attraverso 16 universi DMX (l’universo DMX è il massimo numero di canali disponibili su una linea DMX: 512), vale a dire che per la programmazione degli show è possibile utilizzare simultaneamente 8192 canali. “A Pompei – conclude il ceo di Watercube, Barbara Borriero – possiamo dire che è nata la Hollywood delle fontane italiane!”

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