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Ogni ascolto di “Wozzeck” di Alban Berg (libretto dello stesso compositore dalla tragedia di Büchner, prima rappresentazione il 14 dicembre 1925 alla Staatsoper di Berlino) equivale ad una discesa all’inferno, ove la massa dei dannati è rappresentata da un’umanità moralmente deforme e chiusa nel proprio egoismo, avvolta da tenebre che non si aprono ad alcun raggio di luce, ad alcuna prospettiva di speranza. Questo mondo malato si coalizza nel tormentare l’ultima ruota del carro, il povero soldato Wozzeck, che, da agnello sacrificale, alla fine diventa carnefice perché gli sia tolta anche l’aureola dell’innocenza e possa così toccare il fondo dell’abiezione, nella quale i suoi persecutori sono già sprofondati. Non ci sono buoni e cattivi, insomma, in “Wozzeck”, ma solo un’umanità alienata e incosciente, che soffre o fa soffrire. Wozzeck è un poveraccio disposto a tutto pur di tirare a campare con la sua donna, Maria, e il figlioletto: sopporta il moralismo stupidamente paternalistico del Capitano, al quale fa la barba per pochi spiccioli; e si lascia tormentare dal Dottore, che non lo considera un essere umano ma una cavia da esperimenti, sottoponendolo a prove assurde e crudeli. Ciò nonostante il mondo interiore di Wozzeck, pur dando segni di uno squilibrio visionario, regge finché può fondarsi sull’amore di Maria. Quando il soldatino ne scopre l’infedeltà, piomba nella disperazione più cupa. Del resto, che fare se Maria è troppo viva, troppo bella per lui, se il Tamburmaggiore è un macho sciupafemmine, il tipo di uomo che pare fatto apposta per appagare la sensualità di lei? Ancora una volta, e fatalmente, i più forti schiacciano l’indifeso, il quale, prima del suicidio, ha anche la disgrazia estrema di uscire dalla categoria dei buoni uccidendo Maria e dannandosi così insieme ai suoi tormentatori. Sorprende che questa brutale dichiarazione di fallimento del genere umano risalga al lontano 1837, anno in cui morì il tedesco Georg Büchner lasciando incompiuto il lavoro teatrale “Woyzeck”. Büchner si ispirò ad un evento di cronaca nera, ma colpisce che una descrizione così cupa e disperata della disgregazione dell’uomo e della società sia stata concepita in piena temperie romantica, in anticipo sui tempi ed in particolare sulla crisi denunciata dall’esistenzialismo Per il suo “Wozzeck” – il nome fu ricopiato erroneamente dal manoscritto di Büchner e poi rimase come titolo dell’opera – Alban Berg rimase fedele alla fonte letteraria. Di originale c’è solo il finale, che Büchner non aveva ancora risolto: viene lasciato il suicidio del protagonista aggiunto al dramma di Büchner dopo la morte di questi e viene caricata di forza drammatica la presenza del figlioletto di Maria e di Wozzeck. Il bimbo che continua a giocare anche dopo essere stato raggiunto dalla notizia che la madre è stata trovata morta lì vicino, infatti, non ha nulla a che fare con una presunta ed artificiosa vittoria finale dell’innocenza; al contrario, rappresenta il simbolo della noncuranza assoluta, cosmica, verso l’essere umano, irrilevante per definizione, e ciò che può capitargli. Nulla importa, tutto passa, nulla ha un senso: questa sembra essere la desolata morale dell’opera di Berg, una morale tanto più fredda e cruda perché affidata a colui che per definizione non ha colpa, cioè un bimbo. Nell’opera musica e canto costruiscono la drammaturgia insieme al testo letterario e più di questo. Nel “Wozzeck” il tessuto orchestrale costituito di frammenti e segmenti sonori senza legame reciproco se non quello di una apparente ed allucinante casualità, l’abolizione di ogni riferimento tonale, i colori lugubri, inquietanti e laceranti, le sonorità strazianti, livide e sinistre, tutto ciò crea un’atmosfera di angoscia, di precarietà, di estraniazione dalla realtà; un’atmosfera da incubo, insomma. “Wozzeck” ritorna alla Fenice in occasione del centenario della prima rappresentazione e dopo una lunga pausa; l’ultima messinscena a Venezia, infatti, risale al 1992. E vi ritorna, fatto inusuale dato che ormai da tempo e non senza ragione si è affermata la prassi del rispetto della lingua originale, nella versione italiana di Alberto Mantelli, con cui l’opera fece il suo esordio nel nostro Paese. Era il 1942, al Teatro dell’Opera di Roma, con il cavarzerano Tullio Serafin sul podio e il bassanese Tito Gobbi nel ruolo del titolo. Ed è proprio la proposta di un “Wozzeck” in lingua italiana la prima ragione di interesse di questo spettacolo; una proposta, però, che non convince completamente, anche se sostenuta con entusiasmo dal maestro concertatore e direttore Markus Stenz, per la non banale ragione che così lo spettatore (italiano) ha la percezione immediata del significato della parola e della sua valenza drammatica. Ciò nonostante, rimane l’impressione che il crudo, feroce espressionismo tedesco, esaltato dalle sonorità aspre e taglienti di quella lingua, esca ridimensionato, come rimpicciolito, dall’uso dell’italiano, così morbido e rotondo; al punto che, in certi momenti, la potenza cosmica della tragedia sembra ridursi a un dramma della gelosia. Non è così, ovviamente, ma il rischio di scivolare in atmosfere lontane dalla cupa visionarietà del “Wozzeck” originale non è da sottovalutare. Con tutto questo, lo spettacolo funziona. Markus Stenz ha in pugno la partitura e, se in certi passi sembra attenuarne l’allucinata inquietudine che ne promana, in altri, specie quelli solo strumentali, spinge l’orchestra della Fenice a livelli di tensione sonora quasi insostenibile; un’orchestra ammirevole per compattezza e dedizione ad un mondo sonoro tecnicamente difficile, forse sollecitata a dare il massimo dopo lo sciopero che ha fatto saltare la prima. L’iniziativa è stata spiegata in una dichiarazione dei lavoratori del Teatro letta al pubblico, con la quale si sollecitano le dimissioni dalla carica di direttore musicale del maestro Beatrice Venezi per le modalità, invero improprie, con cui la nomina è stata loro imposta. Sono straordinariamente bravi anche tutti gli interpreti vocali, alle prese con lo “sprechstimme” - così lo chiama il maestro Stenz suppongo in luogo del più noto “sprechgesang” - di Berg, stile di canto con il quale si suppone abbiano scarsa dimestichezza, caratterizzato dall’assenza di una linea stabile e definita cui appoggiarsi. Roberto de Candia, certo abituato ad altri repertori, è un Wozzeck pienamente risolto nel suo ruolo di uomo pacifico e sottomesso spinto alla follia da una realtà più folle di lui. L’artista si butta nel cimento con tutta la dedizione possibile e il risultato lo premia. La Maria di Lidia Fridman conferma tutte le doti vocali ed attoriali della giovane artista russa, che sembra puntare alla qualifica di soprano assoluto data la vastità del repertorio che si sta costruendo, ma il cui strumento sontuoso non sembra in questa circostanza sempre a proprio agio con la frantumata vocalità berghiana. Gli altri vanno accomunati in un unico, vasto elogio: dal Capitano nevrotico e sempre teso vocalmente di Leonardo Cortellazzi al Dottore folle ed insinuante di Omar Montanari; dal Tamburmaggiore dell’eccellente Enea Scala, che si vorrebbe ancora un po’ più gradasso in scena, all’Andres sicuro di Paolo Antognetti. E ancora la Margret di Manuela Custer, dalla luminosa carriera ma questa sera un po’ flebile; lo Sciocco di Marcello Nardis, che non sbaglia mai una caratterizzazione; e poi il Primo garzone di Rocco Cavalletti e il Secondo garzone di William Corrò, entrambi bene a fuoco vocalmente e scenicamente. Un elogio a parte lo merita il bimbo di Maria, un solista del Coro dei Piccoli Cantori Veneziani istruiti da Diana D’Alessio, anche questa volta felicemente in scena accanto al Coro del Teatro, sempre da elogiare, diretto da Alfonso Caiani. L’allestimento – regia di Valentino Villa, scene di Massimo Checchetto, costumi di Elena Cicorella, disegno luci di Pasquale Mari, non vuole sorprendere proponendo soluzioni innovative e di facile effetto, ma sceglie la strada di una illustrazione semplice, chiara e suggestiva della vicenda. Gli spettatori ringraziano per una impostazione che li rispetta e si preoccupa di comunicare piuttosto che di stupire. Come spiega il regista, lo spettacolo è ambientato nello stesso anno della composizione di “Wozzeck”, il 1925, ma in Italia, per una coerenza culturale con la lingua che si usa in scena. È opportunamente rispettato il contesto militare, a sottolineare la cieca ottusità di un potere che opprime senza una ragione, per il solo fatto di esistere. E la cornice semplice e quotidiana che fa da sfondo alla tragedia è quella di un paese della provincia italiana negli anni, difficili, tormentati ma non privi di una spontanea vitalità evidenziata dalla regia, fra le due guerre mondiali. Anche la caratterizzazione dei personaggi è costruita secondo criteri per così dire tradizionali ma mai banali e con una accuratezza nella definizione degli atteggiamenti e dei movimenti che mostra la mano di un regista autentico. Fondamentale l’apporto dell’impianto scenico, che consiste in alcuni contenitori aperti verso la platea ove sono ricostruiti gli interni, come la stanza del Capitano, l’ambulatorio del Dottore, l’abitazione di Wozzeck, cui si aggiunge in alcune scene una piccola, miserabile casetta senza finestre – perché quel mondo è chiuso in se stesso senza una prospettiva di aprirsi alla speranza – che è l’abitazione di Wozzeck vista dall’esterno. Sullo sfondo, il profilo, realizzato con metodi diversi ma con esito sempre suggestivo, degli edifici di un centro abitato. Appropriati al contesto i costumi e fondamentale per l’esito dello spettacolo l’apporto delle luci, pronte ad evidenziare con efficacia le diverse atmosfere in piena sintonia con il mondo sonoro evocato da Berg. Alla serale di martedì 21 ottobre più che soddisfacente il successo di pubblico, che subito prima dell’alzata del sipario aveva riservato applausi scroscianti alla lettura della dichiarazione dei lavoratori del teatro della quale si è accennato. Adolfo Andrighetti