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FENICE:“FALSTAFF” TRADIZIONALE? NO, SEMPLICEMENTE “FALSTAFF”

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Che risposta il mondo di oggi è in grado di dare alla domanda di significato che l’uomo scopre nel proprio cuore e deve esprimere come può e sa, balbettando, inciampando, sbagliando? Una risposta insensata, vuota, una non risposta: una risposta, per così dire, piena di vuoto. Può essere questa, considerate anche le dichiarazioni dei due artefici principali, la chiave di lettura della variopinta, fantasmagorica, spettacolare messinscena del “Mefistofele†di Arrigo Boito che la Fenice offre in questi giorni per la regia di Moshe Leiser e Pautrice Caurier, le scene di Moshe Leiser, i costumi di Agostino Cavalca, il disegno luci di Christophe Forey, i video di Etienne Guiol, la coreografia di Beate Vollack. In questo spettacolo, il mondo di oggi, con le sue attrattive allettanti in apparenza ma in realtà vacue fino all’inconsistenza, è incarnato da Mefistofele, volgare ed arrogante piazzista di un ingannevole paese dei balocchi. Faust, invece, composto e borghesemente vestito, quasi un sosia del Thomas Mann austero e dedito al lavoro come ce lo restituisce l’iconografia ufficiale, rimane ciò che è sempre stato e sempre sarà: l’uomo alla perenne ricerca del significato di sé e della vita. Non per niente la scena iniziale dell’opera, il prologo in Cielo, rinuncia alle atmosfere metafisiche per essere collocata al centro di un palcoscenico completamente vuoto, in cui siede solitario il diabolico protagonista: metafora patente di ciò che egli rappresenta, cioè la solitudine ed il nulla, qui intese non tanto come espressione di un male assoluto, ontologico, ma piuttosto come emblema del vuoto – grottesco, divertente anche, come la regia evidenzia, ma alla fine disperante – che il mondo di oggi offre in risposta al “perché?†esistenziale dell’uomo. E non per niente Mefistofele avvia Faust al suo viaggio incantato ed illusorio non attraverso il mantello che fa volare nell’aria, come da libretto, ma iniettandogli una sostanza che è ovvio supporre allucinogena. Insomma, alla domanda di significato che Faust, a nome di ogni essere umano, avanza, il mondo di oggi risponde offrendogli droga, cioè ciò che distrugge la natura umana da cui quella domanda proviene. Dal momento dell’iniezione, tutto ciò che capita a Faust è quindi illusorio, una fantasia malata ed eccitata. Un’anticipazione di questo trip si ha nello stadio gremito di tifosi ipercinetici che sostituisce la festa della domenica di Pasqua a Francoforte: una ricostruzione fantasiosa e coloratissima di quel rito collettivo che evidentemente non ha bisogno della forza artificiale dello stupefacente per far perdere la testa, bastando il suo influsso stordente e massificante. Da qui in poi, quindi, è tutto falso, tutto prodotto della fantasia di Faust alterata da Mefistofele: il boschetto illuminato e apparecchiato come per una festa paesana in cui avviene l’incontro con Margherita, quest’ultima vestita alla foggia islamica probabilmente per sottolineare la distanza che separa il mondo della ragazza, segnato dalla fede religiosa, da quello, scettico e indifferente, di Faust; e ancora l’impressionante, riuscitissima scena del sabba romantico, ove le tenebre popolate da una folla disordinata e sfrenata sono rotte di colpo dai bagliori di un incendio, le cui immagini proiettate, prima ripropongono con una certa angoscia per chi guarda la scena del teatro avvolto dalle fiamme e poi si stendono anche ai palchi, con un potente effetto da tragedia cosmica. Qui Mefistofele scende allo scoperto e alla domanda esistenziale di Faust risponde con la rappresentazione non più edulcorata ma autentica del nulla di cui è portatore con tutta la sua energia cieca e distruttrice, espressa dal fuoco che divora il mondo ma anche da una sessualità ridotta ad un esercizio ginnico meccanico e violento. Secondo questa impostazione, appartiene al regno delle allucinazioni anche la scena della morte di Margherita, con la sua ambientazione spoglia che contrasta con gli universi carichi di colori e di effetti speciali evocati in precedenza da Mefistofele; e rimane allucinazione nonostante la verità del contatto con la sofferenza della persona amata, l’unico momento in cui Faust sembra poter uscire dall’egocentrismo malato in cui lo ha rinchiuso Mefistofele per aprirsi all’altro, che è poi l’unico modo per ritrovare veramente se stessi. Anche il sabba classico, ambientato in una riuscita ricostruzione della sala della Fenice con l’idilliaca e rasserenante presenza di un balletto, è una soluzione apparentemente possibile ma in realtà illusoria al problema esistenziale di Faust: la bellezza ordinata e rassicurante custodita dalla sala del teatro, infatti, è creata da Mefistofele, per cui è destinata a sgretolarsi di colpo, perché, se il mondo di oggi è in grado di proporre all’uomo qualcosa di rispondente alle sue esigenze, sarà comunque fragile e transeunte, privo di radici e di un solido perché. Si torna infine allo studio di Faust: ordinato, bianco, immerso in un chiarore che sembra riflettere la luce della ragione con cui lo studioso si è impegnato, seppure senza risultato, nelle sue ricerche. E qui avviene la palingenesi: mentre Mefistofele si contorce e si dispera perché le sue arti da diabolico imbonitore si rivelano inutili, Faust ascende al cielo aggrappato al suo violoncello: come a dire che è nella musica che l’uomo può trovare salvezza. Ma dietro e dentro la musica cosa c’è? La domanda dell’uomo è quindi destinata a riproporsi ancora e ancora inesausta, alla ricerca di una risposta definitiva che non può non esserci da qualche parte, visto che la domanda c’è ed è ineludibile. In conclusione, al di là delle interpretazioni che se ne possono dare, lo spettacolo alla fine funziona e si impone con la sua efficacia. I registi ci mettono non solo le idee, che vanno sempre verificate in base al riscontro del palcoscenico, ma anche una professionalità di alto livello, al servizio di una creatività sbrigliata ma quasi sempre evocativa, quindi non fine a sé stessa. Il lavoro sui personaggi si concentra soprattutto su Mefistofele, che, grazie anche alla proverbiale capacità di immedesimazione di Alex Esposito, è un demonio mercuriale, che in ogni momento ha un gesto, un atteggiamento, una mimica dedicati alla costruzione di un personaggio che sarà comunque difficile da dimenticare. Fondamentali alla riuscita dello spettacolo, inoltre, anche lo splendido disegno luci e i fantasiosi video, di pertinenza variabile rispetto alla vicenda ma nel complesso molto efficaci. Di minor rilievo, invece, e tutto sommato abbastanza convenzionali, i costumi. E la musica? Assolutamente varia e composita, a tratti poderosamente sinfonica e a tratti seducente sul piano melodico secondo la migliore tradizione italiana, talvolta ironica e talvolta profondamente drammatica, capace di alternare autentica genialità a momenti kitsch, rappresenta comunque un magma sonoro di non facile gestione, nella ricerca dell’equilibrio fra le masse orchestrali, quelle corali ed i solisti. L’impresa riesce bene a Nicola Luisotti, che tiene saldamente in pugno le redini della complessa macchina a lui affidata concertandola con padronanza e professionalità. Qualche volta sembra insistere troppo sulle dinamiche forti e non là dove la partitura lo richiede, ma in alcuni momenti ove ci si aspetterebbe una mano più lieve, più sensibile. Il palcoscenico è ovviamente dominato dal Mefistofele di Alex Esposito, che realizza ancora una volta il miracolo di intonare correttamente le note pur curando contemporaneamente nel dettaglio un’interpretazione scenica che non conosce un attimo di stasi ma si rigenera continuamente in una serie inesauribile di movimenti ed atteggiamenti. Il fraseggio del cantante, variato fin nella minima gradazione dinamica e coloristica, accompagna la mobilità dell’attore, per cui il personaggio ne esce con una prepotenza teatrale che non ha riscontri almeno oggi. Che poi, in certi momenti, si senta la necessità di una cavata più ampia e risonante, da basso autentico, è certamente vero. E si deve anche dare credito a quello che diceva un giornalista argentino seduto accanto a me e cioè che la voce di Esposito funziona alla grande in un ambiente piccolo e raccolto come quello della Fenice, ma non rende in sale vaste come quella del Colon di Buenos Aires. Tuttavia, considerato che è della performance veneziana e non di quelle straniere che devo riferire e considerato che l’opera è teatro in musica, per cui entrambi gli elementi concorrono in sinergia e in reciproco sostegno per giungere al risultato finale, si deve affermare che Alex Esposito è un protagonista assoluto, che sa coniugare le esigenze del canto, sempre musicalmente corretto, di volume adeguato e magistralmente espressivo, con quelle di una teatralità di eccezionale rilievo, per donare al pubblico un Mefistofele nell’insieme memorabile. Il Faust di Piero Pretti è signorile, composto, ma a tratti monocorde in un canto corretto ma un po’ rigido, che avrebbe bisogno di più morbidezza, sensualità e anche varietà di colori soprattutto nei momenti in cui dovrebbe accendersi di passione amorosa, come nel duetto con Margherita nel secondo atto, oppure nella visione, erotica e funebre insieme, della fanciulla durante il sabba romantico. Ma è molto ben eseguito, da lui come dalla sua partner Maria Agresta, lo splendido duetto del carcere “Lontano, lontano, lontanoâ€, con un canto a fior di labbro omogeneo e delicato che ne restituisce tutta la struggente nostalgia per un amore puro e sincero che non è realizzabile sulla terra e viene quindi proiettato in una dimensione di sogno. Meno bene invece il finale, in cui Pretti risulta stentoreo forse per la sopravvenuta stanchezza di un ruolo vocalmente molto impegnativo; ma almeno il si bemolle di “Baluardo m’è il Vangelo†esce limpido e sicuro. Note meno liete – e spiace doverlo riconoscere per un’artista di questo livello – si registrano per la Margherita di Maria Agresta, che, nella scena del carcere, pigia sul pedale dell’intensità drammatica probabilmente per compensare una condizione vocale non ottimale e fatica a mantenere la linea di canto, andando almeno una volta in grave difficoltà. Fa bene ciò che deve fare Maria Teresa Leva come Elena, nel pezzo cupo e impegnativo in cui rievoca la distruzione di Troia. Sicuri nei rispettivi ruoli Enrico Casari come Wagner e Nereo e Kamelia Kader come Marta e Pantalis. Le parti corali, di assoluto rilievo in quest’opera, hanno trovato adeguata ed efficace risoluzione nei complessi della Fenice, diretti da Alfonso Caiani, e nel coro Piccoli Cantori Veneziani diretto da Dina D’Alessio, quest’ultimo dalla significativa pienezza e limpidezza di suono, non frequente in un ensemble di voci bianche. Alla fine della serata, quella di mercoledì 18 aprile, un bel successo pieno, caloroso, convinto per tutti, a premiare un lavoro nel suo inseime di alto livello professionale ed artistico. Adolfo Andrighetti
Tempo permettendo, le festività pasquali indurranno all’apertura delle seconde case in località di vacanza dopo la chiusura invernale. Un importante alert arriva da ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali ed Immobiliari) Veneto: attenzione al pericolo legionella, nascosto nei tubi inutilizzati da mesi e nei ristagni idrici; il consiglio, quindi, è non solo di fare scorrere l’acqua dai rubinetti prima di utilizzarla, ma soprattutto di provvedere alla pulizia di elementi della doccia quali soffioni, doccini e doccette. Il batterio della legionella, infatti, alberga negli ambienti acquatici ed è pericolosa, se aspirata, perché può essere mortale per soggetti fragili. La legionellosi viene normalmente acquisita per inalazione e per questo la pericolosità delle particelle d’acqua infettate è inversamente proporzionale alla loro dimensione: gocce piccole arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie. La prevenzione delle infezioni da legionella si basa essenzialmente sulla corretta progettazione e realizzazione degli impianti tecnologici, che comportano un riscaldamento dell’acqua e/o la sua nebulizzazione (impianti idro-sanitari, condizionatori, umidificatori, ecc.), ma anche sull’adozione di misure (manutenzione ed eventualmente disinfezione), atte a contrastare la diffusione del batterio. “E’ opportuno ricordare che le più recenti normative indicano l’amministratore condominiale, quale responsabile della qualità idrica dal contatore alle abitazioni - precisa Lino Bertin, Presidente di ANACI Veneto - Per questo deve provvedere a periodici controlli da parte di soggetti autorizzati, ma necessita evidentemente la collaborazione dei residenti per quanto riguarda i singoli appartamenti.†Fattori predisponenti la malattia sono l’età avanzata, il fumo di sigaretta, la presenza di malattie croniche, l’immunodeficienza; la letalità della legionellosi si aggira tra il 5% e il 10% dei casi. La legionellosi può manifestarsi in due forme distinte: la Malattia del Legionario, che frequentemente include una polmonite acuta; la febbre Pontiac, molto meno grave. Il trattamento della legionellosi, essendo una malattia di origine batterica, passa soprattutto attraverso terapie antibiotiche (fonte: Istituto Superiore di Sanità).
“Quasi sempre, l’idea vincente è anche la più semplice, ma non è certo facile riuscire ad averla per mantenersi al vertice†dichiara sorridendo Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group vincitrice, per il secondo anno, dell’Excellence Award MCE alla Mostra Convegno Expocomfort tenutasi a Milano (nel 2022 fu premiata per l’apparecchio BKM3.0, frutto della ricerca con l’Università di Padova e destinato ad eliminare i virus, tra cui il Covid, mantenendo salubri ambienti ampi fino a 200 metri quadri). Stavolta l’innovativa soluzione si chiama programmaticamente “Fog adiabatico 5 anni senza rottureâ€: adiabatico significa impermeabile al calore ed è la caratteristica della “nebbiaâ€, che serve a raffreddare i “dry coolerâ€, cioè i macchinari degli impianti di condizionamento, dove avviene l’abbattimento delle temperature esterne, offrendo al contempo la garanzia quinquennale della manutenzione programmata. E’ soprattutto questa nuova formula “chiavi in mano†ad avere conquistato il giudizio della giuria. Infatti, il sistema ideato da Idrobase garantisce, grazie alla nebulizzazione idrica, di mantenere la temperatura dell’aria all’ingresso degli impianti di condizionamento sotto la soglia dei 35 gradi, oltre la quale diminuisce l’efficienza e si rischia il blocco del processo di raffrescamento. L’azione degli ugelli permette di aumentare del 30% la capacità di raffrescare l’aria, diminuendo il consumo energetico di altrettanta percentuale. Per mantenere tali obbiettivi nel tempo, la soluzione prevede che il macchinario sia accompagnato dai kit di prodotti necessari al programma di manutenzione preventiva che, attraverso la semplice lettura di un qrcode, mette in grado chiunque di svolgere un check-up ogni 750 ore d’utilizzo, prolungando la vita del sistema, garantendone la massima efficienza, riducendo costi di manutenzione ed esercizio. “La nostra è una costante ricerca di innovazione non solo nella tecnologia e nella produzione, ma anche nel servizio, applicando il principio che prevenire è meglio che curare; in questo modo valorizziamo il made in Italy, garantendo 5 anni senza rotture†aggiunge l’altro socio, Bruno Gazzignato. Idrobase Group, con sede a Borgoricco nel padovano, è azienda leader nelle tecnologie d’utilizzo dell’acqua in pressione e nei sistemi per “respirare aria sanaâ€, perseguendo nuovi modelli di organizzazione nel lavoro e di sostenibilità del prodotto (dagli uffici “virus free†ai blister in cartone). “Un futuro migliore per il Pianeta - conclude Ferrarese – lo costruiamo anche con le scelte imprenditoriali di ogni giorno.â€
C’è da chiedersi come mai questa breve opera (1h e 10’ di durata), rappresentata per la prima volta in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932, rimanga così ostinatamente lontana dai palcoscenici, al punto che la precedente messa in scena alla Fenice risale al 1956. Certo contribuisce la natura ibrida del lavoro, a metà strada fra opera e oratorio, ma si sa che anche un oratorio spesso presenta spunti che un regista può utilizzare per la realizzazione di una convincente azione scenica. Certo, “Maria Egiziaca†è definita ‘Mistero in tre episodi’, a sottolinearne la natura anomala e sfuggente rispetto agli ordinari criteri di classificazione dei generi riconducibili alla categoria del teatro in musica: ma non rappresenta anche questa una sfida stimolante per dei registi provvisti di fantasia e di coraggio? A ciò si aggiunga che la drammaturgia è intrigante, imperniata com’è sulla vicenda di una prostituta vissuta nell’Alessandria d’Egitto del IV-V secolo d.C. e poi redenta attraverso un’ascesi più che quarantennale nel deserto; basti pensare a ciò che fu capace di fare, sempre per i palcoscenici veneziani, Pier Luigi Pizzi mettendo in scena “Thaïs†di Massenet, storia che ha molti punti in comune con quella di Maria Egiziaca e della quale il prestigioso regista ci ha offerto un’interpretazione teatrale memorabile. Né può bastare ad indebolirne la struttura drammaturgica la sua stessa brevità, che forse ne impedisce un adeguato sviluppo, oppure il libretto arzigogolato e compiaciuto di Claudio Guastalla, messo insieme con i cascami di un dannunzianesimo riproposto a forza senza il genio del pescarese. Ma la tenace trascuratezza dei nostri teatri verso il lavoro di Ottorino Respighi meraviglia soprattutto perché si tratta di una partitura mirabile, densa di una musica raffinata e affascinante, suggestiva ed evocativa, capace di raccontare con intensità ed eloquenza lo svolgersi della vicenda adattandosi alle sue diverse situazioni. Il sofisticato eclettismo, che mette insieme, in un ammirevole equilibrio, suggerimenti della musica contemporanea al compositore con echi del recitar cantando monteverdiano e del canto gregoriano (si vedano gli splendidi interventi fuori scena del coro diretto da Alfonso Caiani), così come il magistero tecnico che le scelte di strumentazione sottendono, sono solo dei mezzi per la realizzazione di un universo sonoro tanto armonioso ed equilibrato quanto emotivamente comunicativo. Il culmine di questa affascinante narrazione sinfonica è forse raggiunto, come sottolinea il maestro Manlio Benzi, nei due interludi sinfonici, che separano, ma senza alcuna soluzione di continuità, i tre episodi in cui è suddivisa la vicenda: funzionalmente, per preparare il passaggio dall’uno all’altro, in realtà saldandoli in un’unità coerente e compatta, nonostante la diversità di situazioni, tinte ed atmosfere che li caratterizzano. E proprio a Manlio Benzi si deve una prima ragione del successo completo e convinto che ha accompagnato questa riproposta di “Maria Egiziaca†al Teatro Malibran. Il maestro, infatti, che dichiara di non aver mai diretto prima la partitura e, anzi, di averla studiata solo in vista di questa rappresentazione veneziana, dichiara di esserne rimasto “profondamente affascinato†e la definisce “estremamente succulenta†sul piano musicale. Questa empatia fra l’esecutore e le note che è chiamato a dirigere e concertare rappresenta la condizione indispensabile per la riuscita dell’interpretazione musicale, che infatti è risultata assolutamente convincente. Da sottolineare la duttilità con cui Benzi ha saputo evidenziare la bellezza e la raffinatezza delle soluzioni respighiane senza per questo sacrificare l’intensità emotiva che la musica sprigiona e che viene tradotta in sonorità spesso intense ma mai tali da coprire le voci degli ottimi interpreti. Fra questi si è distinta, per la disinvoltura dell’accattivante presenza scenica e per l’adeguatezza vocale, la protagonista Francesca Dotto. Il soprano di Treviso è una Maria assolutamente credibile per l’efficace e intensa immedesimazione nel personaggio, che propone con la stessa autorevolezza nella sfacciata sensualità della prima parte come nella crisi di pentimento della seconda e nell’ascensione mistica della terza; e insieme per la sicurezza con cui lo strumento sano, sonoro e duttile affronta una tessitura assai impegnativa per le frequenti e brusche escursioni verso l’acuto e mantiene compattezza e rotondità anche nei momenti più aspri, nei quali la tensione emotiva sale e le ondate sonore provenienti dall’orchestra si intensificano. Gli altri accompagnano e assecondano Francesca Dotto con bravura e professionalità. Simone Alberghini è adeguato come pellegrino e abate Zosimo. Il pellegrino, nel primo atto, si scandalizza di fronte alla proposta che Maria fa ai marinai di pagare la traversata fino a Gerusalemme con il proprio corpo e, nel secondo atto, la rampogna duramente per i suoi peccati. L’abate Zosimo, nel terzo atto, è protagonista del commovente e grandioso duetto finale con Maria, che, nell’abbraccio del sant’uomo, incontra finalmente la pace e la misericordia divina. In entrambi i ruoli, caratterizzati da una ieratica ma anche commossa solennità sacerdotale, Alberghini trova gli accenti e le inflessioni più adatte, confermando quella dignità artistica e quella affidabilità che gli sono riconosciute. Il tenore Vincenzo Costanzo è un marinaio dal canto corposo, esuberante e fin troppo sfogato, ostentatamente ‘macho’ si potrebbe dire. Ma è una scelta stilistica in linea con il personaggio, che si prepara ad accogliere con entusiasmo la proposta di Maria di pagarsi il viaggio ‘in natura’. Nel secondo atto, infatti, l’artista sa trovare sonorità più rattenute e tinte più sfumate per rappresentare l’atteggiamento umile e penitente del lebbroso. Ottimo l’apporto degli altri: i giovani tenori Michele Galbiati e Luigi Morassi (un compagno; un altro compagno e il povero), il soprano Ilaria Vanacore (la cieca a la voce dell’Angelo), il baritono veneziano William Corrò (una voce dal mare), di affidabilità e di rendimento sempre inappuntabili. Infine, lo spettacolo, dovuto nella sua interezza alla firma prestigiosa e ormai storica di Pier Luigi Pizzi, con la sempre apprezzabile collaborazione di Fabio Barettin per il disegno luci. Pizzi sceglie la strada di una semplicità atemporale, stilizzata ed evocativa, curando in modo particolare – strano a dirsi per un regista talvolta accusato di essere fin troppo legato ad uno stile prettamente scenografico – la recitazione dei personaggi, accuratamente delineata con riferimento particolare a quella della protagonista. L’allestimento è affidato a scene di un’essenzialità in sintonia con l’atmosfera generale della vicenda, ravvivate da proiezioni non sempre ispirate ed intonate al resto dello spettacolo. Il quale, comunque, ha il grande merito di cercare e spesso trovare una piena sintonia con la componente musicale, restituendo quel senso di armonia e di compiutezza complessive che si incontra sempre più di rado nei teatri d’opera. Pizzi, insomma, offre allo spettatore la possibilità di fare un’esperienza spirituale e culturale unitaria, nella quale le varie componenti della rappresentazione si richiamano e si sostengono le une con le altre in una proposta dalla chiara e precisa cifra intellettuale, oltre che rispettosa del compositore e degli spettatori. Nella concezione di questa “Maria Egiziaca†svolge un ruolo importante, non solo dal punto di vista spettacolare ma anche da quello concettuale, la bravissima danzatrice Maria Novella Della Martira, che interpreta la protagonista durante gli interludi orchestrali, completando, con l’eloquente linguaggio del corpo, ciò che il canto ha già detto, in una riuscita sinergia tra arti e mezzi espressivi diversi. Sul piano concettuale, cui si accennava, riveste un significato particolare il momento in cui la danzatrice, al termine del secondo atto e quindi del percorso penitenziale che lo contraddistingue, si denuda completamente. Un gesto che ne richiama analoghi già visti nell’indimenticabile “Thaïs†di Massenet con regista Pizzi, e che, nel nuovo contesto, può essere letto come il segno di una sensualità radicata così profondamente nella personalità di Maria da non poter essere rimossa neppure nel momento del pentimento ma, piuttosto, purificata e ricondotta alla sua vera origine; come se la protagonista ci dicesse: tutto è buono in quanto viene da Dio, anche il corpo e la sessualità, purché siano riportati alla logica per la quale entrambi sono stati voluti. Ma, assecondando questa impostazione fino alle ultime conseguenze, alla nudità di Maria si può attribuire anche un significato ulteriore, complementare al precedente: il momento del pentimento, quando si riconoscono i limiti e la povertà della nostra umanità greve e bisognosa di redenzione, è forse l’unico in cui si è veramente nudi, cioè privi di difese inutili ed artificiali, e quindi sinceri davanti alla nostra coscienza e al Mistero della vita. Infatti Maria canta nel terzo atto: “Come trema la nuda anima miaâ€: una nudità e quindi un’essenzialità spirituali che possono trovare una rappresentazione adeguata nella nudità del corpo. Adolfo Andrighetti
Idrobase Group, leader del “made in Italy†nella produzione di tecnologie per l’acqua in pressione e per respirare aria pulita, rivoluziona “l’ultimo miglio†della propria filiera produttiva ed elimina la plastica dal “packagingâ€, anticipando la nuova normativa sugli imballaggi, che sarà approvata dall’Unione Europea nell’ambito dei provvedimenti per il “green dealâ€: ad annunciarlo è Bruno Ferrarese, Contitolare dell’azienda con sede in provincia di Padova. Ad oggi, ma il dato è in crescita, ogni cittadino comunitario smaltisce annualmente circa 36 chilogrammi di imballi in plastica, di cui solo il 40% viene riciclato; tale processo, infatti, presenta non poche criticità, perché la plastica riciclata non torna materia prima, ma per essere utilizzabile deve essere miscelata con una significativa percentuale di plastica nuova, prodotta da idrocarburi. La nuova normativa europea, in fase di approvazione, dovrebbe prevedere l’obbligo a vendere parte dei prodotti in confezioni ricaricabili o riutilizzabili, nonché il divieto di utilizzare imballaggi “chiaramente inutiliâ€. Nell’ “head quarter†dell’impresa a Borgoricco, la più recente novità si chiama “dBase†ed è un innovativo tubo in cartone a lunghezza variabile, chiuso da un nastrino in carta riciclabile così come l’etichetta; l’idea è frutto dell’esperienza del team di Idrobase, un’industria dove la transizione ecologica è vissuta con coerenti scelte produttive. Così, perseguendo una visione olistica dell’azienda, dopo quello per i dipendenti con la creazione di innovativi spazi di lavoro privi di inquinanti, è ora il momento di accelerare per il benessere del Pianeta, riducendo il numero degli imballaggi destinati ad accogliere pezzi e minuterie di ricambio: fatti in cartone riciclabile, sono prodotti “a chilometri zeroâ€, valorizzando il tessuto produttivo locale. “Nei prossimi 3 anni – indica Bruno Gazzignato, Contitolare di Idrobase Group - è previsto che, per la sola divisione Dolly Spare Parts, cioè i ricambi per le pompe, quasi un milione di blisters in plastica saranno sostituiti con i tubi in cartone; la loro lunghezza variabile permetterà di ridurre del 35%, il numero delle tipologie di scatole.†Non solo: come annunciato per contrastare i furti di identità aziendale, ora ogni singolo pezzo viene marchiato a laser, riproducendo i loghi Idrobase e Made in Italy. “Stiamo costruendo l’azienda del futuro, dove sostenibilità ambientale, economica e sociale devono coesistere – conclude Bruno Ferrarese - Non solo: stiamo innovando per rendere difficile il lavoro dei copiatori seriali perchè, anche in questo, prevenire è meglio che curare.â€
Novità in casa Musikrooms nell’attesa di completare il cartellone del prossimo Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città Treviso-Venezia: "Svadhisthana", il nuovo singolo del compositore e chitarrista trevigiano, Andrea Vettoretti, è appena uscito su tutte le piattaforme digitali, pubblicato da Compagnia Nuove Indye, con cui l’artista lavora in esclusiva. "Svadhisthana – precisa il Direttore Artistico del Festival delle Due Città - vuole essere un'ode musicale alla creatività ed alla passione, un viaggio sonoro attraverso il secondo chakra dell'essere umano, secondo la tradizione induista.†Il brano si apre con suoni evocativi della foresta pluviale, dove la pioggia ed altri echi misteriosi creano un fluire continuo di emozioni, immergendo l'ascoltatore in un luogo sospeso tra realtà e sogno. La melodia, intrisa di malinconia e mistero, evoca immagini di paesaggi interiori, ricchi di colori e sfumature; Vettoretti dipinge con le note, creando quadri sonori, che si trasformano attraverso variazioni ritmiche e dinamiche. "Svadhisthana" è una poesia senza parole ed invita l'ascoltatore ad esplorare la propria sfera emotiva più profonda: è come se il brano aprisse le porte di un tempio segreto, invitando ad esplorare il vasto paesaggio dell'anima attraverso le sue armonie incantate.
“Il furto d’identità aziendale colpisce un crescente numero di imprese italiane, che non lo segnalano, perché rassegnate all’impossibilità di essere tutelate sui mercati della globalizzazione. E’ ormai un vero e proprio attacco del malaffare internazionale al made in Italy delle piccole e medie aziende, che garantiscono riconosciuta qualità, ma hanno difficoltà a fare sistemaâ€: a denunciarlo è Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group e che, nel passaggio d’anno, ha reso nota la strategia aziendale per contrastare il fenomeno criminoso che, unitamente alla difficile congiuntura internazionale, ha causato una contrazione di fatturato (10%), cui si risponde con l’obbiettivo 2024 di un +20% su un bilancio, che si attesta a circa 12 milioni di euro. Presente in 92 Paesi, Idrobase Group è leader nell’utilizzo delle tecnologie del “respirare sano†(apparecchi anti virus, nebulizzazione idrica, idropulitrici…) e promotrice di reti d’impresa nei settori del “car washing†e dell’abbattimento delle polveri (PM 2.5 e PM 10) in ambienti industriali. “Per sconfiggere l’industria dei copiatori, particolarmente diffusa sui mercati emergenti, abbiamo deciso di aggredire il loro core business, abbassando i prezzi, ma continuando a garantire la qualità del made in Italy – aggiunge l’altro contitolare, Bruno Gazzignato - Per riuscirci, mantenendo occupazione e redditività aziendale nella speranza di incisivi provvedimenti delle autorità competenti ad ogni livello per il contrasto al malaffare, stiamo ottimizzando la filiera produttiva, affiancando l’efficienza della metodologia Lean-Toyota alla rivoluzione logistica degli spazi lavorativi che, ponendo l’individuo al centro, massimizzano le potenzialità del team, indispensabile alla crescita aziendale. Dopo le tante energie economiche e creative, spese nella ricostruzione dell’ head quarter padovano a Borgoricco dopo l’incendio del 2022, stiamo passando da un’organizzazione aziendale verticale ad una orizzontale, accorciando le procedure decisionali; tutto ciò permette anche di liberare risorse umane, consentendoci di sviluppare internamente segmenti del ciclo produttivo. Non avere paura di sbagliare è il claim, che vogliamo ci accompagni nell’anno appena iniziato.†“L’obbiettivo – precisa Ferrarese - è di ridurre i costi, continuando a garantire la qualità del made in Italy per tutelare il valore del nostro brand e battere, sul piano dei prezzi, la concorrenza sleale. Questo è il nostro impegno aziendale, che deve però essere affiancato da una risposta di sistema, guidata dalle autorità politiche competenti e che coinvolga tutti gli attori: associazioni imprenditoriali, sindacati, organizzazioni di mercato. A loro ci appelliamo per bloccare i furti d’identità aziendali, perché solo insieme possiamo tutelare il made in Italy, garantendo futuro anche internazionale all’imprenditoria medio-piccola, asse portante del nostro modello economico.â€
Dopo la contraffazione di prodotto e l’ “italian sounding†nel settore agroalimentare è il furto d’identità aziendale nel comparto industriale, la nuova frontiera del malaffare internazionale ai danni delle imprese italiane. A segnalarlo è Idrobase Group, l’industria padovana, leader nell’utilizzo delle tecnologie del “respirare sano†(apparecchi anti virus, nebulizzazione idrica, idropulitrici…) , alla cui crescita sui mercati globalizzati fa da contraltare la riproduzione del logo aziendale accanto a prodotti, che nulla hanno a che fare con la casa madre. “Si sfrutta la credibilità del marchio Idrobase per affiancarlo a prodotti estranei al nostro core business. E’ il danno peggiore – commenta Bruno Ferrarese, uno dei due titolari del gruppo veneto – perché svilisce il valore del brand, basato sulla reputazione aziendale e del made in Italy. Adiremo le vie legali per tutelarci.†“Proprio, perché consci della nostra crescita e delle insidie, che comporta – sottolinea Bruno Gazzignato, l’altro contitolare di Idrobase Group – da qualche mese abbiamo lanciato una strategia di rapporti più diretti con i distributori: dalla Corea alla Francia, dalla Spagna ai Paesi nordici. Ciò per meglio controllare la filiera dei prodotti e garantire la loro origine.†“Nonostante i marchi siano internazionalmente protetti, le aziende italiane sono sostanzialmente indifese di fronte alle multinazionali del crimine, con grave danno economico e di immagine; d’altronde il fenomeno della contraffazione dei prodotti industriali è presente in tutti i Paesi emergenti ed è in crescita nelle nazioni sviluppate. Contro il malaffare internazionale bisogna aumentare la capacità di fare sistema†aggiunge Bruno Ferrarese. A proposito di sistema, una buona notizia arriva infine dal progetto Safebreath.net, la rete d’impresa mirata alle tecnologie per l’abbattimento delle polveri sottili, che si generano nei siti industriali (PM2.5 e PM10): con l’anno nuovo, insieme alle partner Sibilia e MVT, Idrobase Group sarà presente alla grande Conferenza sulle Polveri, che si terrà al Cairo ed al successivo salone The Big5 Construct Saudi 2024, previsto in Febbraio a Riyadh, in Arabia Saudita.
Anche nel Veneto è una corsa contro il tempo per migliaia di cantieri edili e proprietari d’appartamento: per questo, anche ANACI (Associazione Nazionale Amministratori Condominiali ed Immobiliari) regionale chiede al Governo di valutare una proroga dei lavori in corso, relativi al superbonus 110%, in quanto rischiano di rimanere incompiuti per l’impossibilità dei condòmini di pagare eventuali, ulteriori importi dopo il 31 Dicembre 2023. “Chiediamo tale proroga – dichiara Lino Bertin, Presidente di ANACI Veneto - perchè i cittadini, fidandosi dello Stato ed utilizzando il superbonus 110%, hanno commissionato lavori per riqualificare il proprio condominio ed ora rischiano di non terminarli o di pagare cifre anche molto elevate per le continue modifiche della normativa. La legge di bilancio 2023 deve offrire una soluzione, evitando pesanti conseguenze sociali ed economiche, oltre ad una grande mole di contenziosi per tutta la filiera delle costruzioni e dei professionisti. Prendiamo atto – prosegue Bertin – che si è conclusa la stagione del 110% ed è necessario aprire un confronto complessivo sul futuro dell’efficientamento degli edifici in Italia. Per recuperare i ritardi accumulati è però assolutamente necessaria una proroga, tale da permettere una conclusione ordinata degli interventi in atto, evitando la perdita di migliaia di posti di lavoro, causata dalla sicura interruzione di molti cantieri per l’insorgere di contenziosi tra condomìni ed imprese, smorzando al contempo la pressione per terminare velocemente i lavori con conseguente rischio sia per la sicurezza nei cantieri, sia per la qualità degli interventi eseguiti.†Secondo ANACI Veneto, la proroga limitata ai soli interventi che dimostrino un concreto avanzamento del cantiere, potrebbe risolvere tali problemi con un costo contenuto per le casse dello Stato, assai inferiore al caos sociale ed economico, che si determinerebbe, lasciando invariata la scadenza a Dicembre.â€
Ecco un’inaugurazione degna di questo nome, della quale la Fenice può essere orgogliosa. Come prima tappa della stagione Lirica e Balletto 2023-2024, infatti, è stata scelta “Les Contes d’Hoffmann†di Jacques Offenbach, su libretto che Jules Barbier trasse da una commedia omonima sua e di Michel Carré, a sua volta ispirata ai racconti dello scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann. “Les Contes†fu rappresentata postuma nel 1881 all’Opèra-Comique di Parigi, dopo che il suo autore si era spento l’anno precedente lasciando una partitura incompiuta, che fu completata da Guiraud nella strumentazione e quindi sottoposta a complesse integrazioni e rimaneggiamenti negli anni successivi, al punto che oggi siamo ancora lontani dal disporre di un‘edizione definibile come conclusiva. È prudente lasciare in merito ogni valutazione ai musicologi; qui basti dire, con il maestro Chaslin, che l’esecuzione della Fenice si basa per la maggior parte sulla versione Oeser, risalente agli anni sessanta-settanta dello scorso secolo e ancora oggi la più utilizzata. Ciò premesso, va detto che la divertentissima e inquietante opera di Offenbach, percorsa in ugual misura da risate liberatorie e brividi sulfurei, crogiolo in cui si fondono e decantano stili, toni, motivi ispiratori i più diversi, ha trovato alla Fenice una realizzazione compiuta e convincente nel fantasmagorico spettacolo di Damiano Michieletto, coadiuvato dai suoi collaboratori storici: Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti per le luci, cui si aggiunge Chiara Vecchi per le coreografie. Si tratta di una coproduzione della Fenice con istituzione prestigiose quali la Sidney Opera House nel cinquantesimo anniversario della fondazione, la Royal Opera House di Londra e l’Opéra National di Lione. La disinibita esplosione di fantasia, di creatività, di visionarietà anche, che contraddistingue questa messa in scena, nel moltiplicarsi delle trovate e degli effetti talvolta proposti più per il loro potenziale di sorpresa e di divertimento che per la loro coerenza intrinseca con l’insieme (due esempi fra i tanti: i fuochi d’artificio che concludono il primo atto e il bravissimo acrobata sui trampoli), sembra la più efficace chiave di lettura per un’opera che, da qualunque parte si cerchi di afferrarla, sfugge sempre alla presa, rifiutando di farsi rinchiudere all’interno di una concezione interpretativa univoca. Dal tourbillon che anima il palcoscenico nel via vai continuo di coristi, ballerini, mimi, emerge comunque la consueta cura con cui Michieletto costruisce i personaggi sul piano teatrale, evidenziando di ognuno la fisionomia attribuitagli dal dramma attraverso lo studio perspicace e meticoloso di gesti ed atteggiamenti. È un’abilità, ma anche uno scrupolo diligente figlio di una severa professionalità, che contraddistingue il regista vero, categoria alla quale Michieletto appartiene a pieno titolo. Tutte le altre componenti dello spettacolo collaborano con coerenza ed efficacia alla realizzazione della concezione registica: le scene semplici e funzionali, insieme alle luci che, nette e con poche sfumature, variano sui toni pastello tranne l’atto di Giulietta, sottolineano la componente giocosa, quasi infantile, ben presente nella lettura di Michieletto. Questi, anche nel finale quando chiama tutti i personaggi al proscenio, sembra invitarci a non prendere troppo sul serio la vena diabolica che percorre l’opera ma a scherzarci su divertendoci tutti insieme per la bella rappresentazione. E poi i costumi, anch’essi simpaticamente e chiassosamente fantasiosi con una sottolineatura per quello di Nicklausse, trasformato in una sorta di iridescente e leggiadra fata-farfalla. E le coreografie, infine, sempre vivaci e divertenti. Va anche detto che la sovrabbondante fantasia di Michieletto, per quanto sbrigliata e disinibita come si è detto, si esprime secondo una logica coerente. Il viaggio realistico-onirico-simbolico di Hoffmann, infatti, è restituito come un percorso esistenziale e sentimentale attraverso le varie età del protagonista, ognuna delle quali è segnata da una presenza femminile diversa ma ugualmente evocativa ed affascinante. Che poi le tre figure femminili, come canta lo stesso Hoffmann all’inizio dell’opera e come ribadisce Nicklausse nel finale, non siano altro che tre donne nella stessa donna, tre anime nella stessa anima, e finiscano poi per identificarsi con la figura fantomatica ed essenzialmente immaginaria della cantante-diva Stella, è pur vero. Ma è altrettanto vero che Stella, l’eterno femminino, è immaginata e vagheggiata da Hoffmann in maniera diversa nei tre atti e Michieletto opportunamente declina questa diversità in base alle diverse età del protagonista. Ecco allora Hoffmann, visto nel Prologo come un clochard disperato e beone ma ancora ravvivato da qualche scintilla dell’antico genio poetico, che si vede (Primo Atto) ragazzino in un’aula scolastica con tanto di banchi e lavagna e bidello neghittoso, mentre dà corpo e anima, col suo innamoramento tutto cuore ed immaginazione come capita agli adolescenti, ad una ragazza, Olympia, che esiste solo nel suo desiderio. Lo ritroviamo poi uomo giovane nell’atto di Antonia, capace di un sentimento forte, concreto, passionale verso una donna provata, di cui è capace di condividere la sofferenza: non una cantante alla quale è proibito cantare perché esiziale per la sua salute, ma una ballerina ammalata che non può più esibirsi. Ma il canto resta, ovviamente, perché previsto da libretto e partitura, fattore di un’esaltazione sublime, talmente rapinosa ed ineffabile da condure alla morte; per cui si crea uno scollamento sgradevole e disorientante tra ciò che si vede e ciò che si sente. Tuttavia la scelta, in sé assai discutibile, permette a Michieletto di dare vita ad un momento di teatro intensamente poetico, grazie alla riuscita ambientazione all’interno di una sala da ballo e ad alcune invenzioni di alto livello registico. Non ci si riferisce al patetico barcollare di Antonia quando vuole abbandonarsi all’abbraccio del suo innamorato, un effetto in sé fin troppo facile, ma piuttosto alla intuizione di dare corpo alla nostalgia della donna per il suo passato di ballerina portando in scena lei stessa bambina che volteggia in tutù, piena di sogni che sono stati frustrati dalla malattia. A quella piccola Antonia, la giovane donna provata dalla sorte si rivolge con tenerezza e struggimento nell’aria della Tortorella, che è fuggita e rappresenta un “ricordo troppo dolceâ€, un’â€immagine troppo crudeleâ€; così come lo è la memoria di sé stessa bambina felice, che si abbandona liberamente alla danza e dalla quale vorrebbe farsi aiutare per rialzarsi, quasi a cercare nel suo felice passato un sostegno per sopportare un presente troppo duro. L’amore adulto può essere solo quello consumato in un night con una cortigiana? Certo che no, ma così lo rivive o lo immagina Hoffmann nel Terzo Atto, quello di Giulietta, forse il meno risolto anche per la difficoltà di cogliere il senso di una drammaturgia involuta e poco chiara. Nell’Epilogo, poi, si ritorna là dove tutto era cominciato, cioè nella taverna, ove, come si è detto, si propone una soluzione disimpegnata e rasserenante dell’intricata vicenda. Il momento centrale è rappresentato dalla comparsa di Stella che si rivela essere il diavolo travestito: a confermare che il lungo sogno sentimentale ed erotico di Hoffmann non aveva nulla di buono e di reale, ma era solo lo sberleffo crudele di un diavolo malignamente dispettoso. La piena riuscita dello spettacolo, salutato con entusiasmo alla serale di giovedì 30 novembre, è stata garantita anche dalla presenza di un cast di alto livello e di qualità assoluta in alcuni ruoli. Ivan Ayon Rivas, tenore peruviano di soli trent’anni, è un Hoffmann pressoché ideale per la presenza fisica disinvolta e insieme dimessa, talvolta quasi impacciata, da antieroe che fa della sua stessa fragilità una personale cifra identitaria oltre che uno stile di approccio all’universo femminile. Lo strumento, poi, è sano, risonante, assolutamente resistente al ruolo impervio, dal timbro squillante e smaltato. Attenzione però alla zona acuta, ove, forse per un’eccessiva facilità di esecuzione e per l’esuberanza del giovane artista, l’emissione potrebbe essere più controllata e raccolta. Alex Esposito si fa carico dei quattro personaggi diabolici donando al pubblico una interpretazione di altissimo livello, forse la sua migliore fra quelle presentate sul palcoscenico della Fenice. Il suo proverbiale estro di attore consumato ha qui modo di esprimersi in pienezza e la voce, timbrata, robusta, bene emessa e controllata con ammirevole bravura nonostante l’impegno attoriale richiesto, lo sostiene dall’inizio alla fine. Una convinta ammirazione deve essere rivolta a questo artista che non usa le doti sceniche per farsi perdonare un canto discutibile, ma le accompagna ad un patrimonio vocale di tutto rispetto, gestito con grande padronanza e professionalità. Il soprano spagnolo Rocìo Pérez è un’Olympia caratterizzata con efficacia ma anche con misura sul piano scenico, attraverso una garbata e divertita ironia che sostituisce felicemente certi eccessivi scivolamenti caricaturali che possono risultare stucchevoli. La voce, poi, suona più rotonda e pastosa di quelle che si è soliti ascoltare in questo ruolo, anche se gli appuntamenti virtuosistici sono tutti onorati con sicurezza. Carmela Remigio ha modo di usare al meglio le proprie consumate doti di cantante-attrice nel ruolo di Antonia, cui dona un’intensità drammatica ed una partecipazione emotiva veramente toccanti. E pazienza se qualche suono in acuto risulta un po’ duro, perché un’artista di questa classe, capace sempre di una profonda immedesimazione teatrale e musicale nelle parti che affronta, non può essere valutata con il metro pedante ed ottuso di un Beckmesser. Meno riuscita, sebbene del tutto adeguata, è sembrata la Giulietta del soprano Véronique Gens, forse per una forma vocale non ottimale che non le ha permesso di rendere al meglio la componente sensuale e seduttiva, essenziale in questo ruolo. Le parti di fianco, come si sa numerose ed impegnative, svariano nella valutazione dal bravissimo al bravo: dal Nicklausse simpatico e sbarazzino, sostenuto da una voce di buona qualità, ben emessa e bene impostata, del mezzosoprano Giuseppina Bridelli, alla impagabile Muse, immaginata come una signora borghese molto per bene e un po’ affettata, dell’altro mezzosoprano Paola Gardina, al Frantz irresistibile, centratissimo e vocalmente all’altezza del tenore Didier Peri (ma è anche Andrès, Cochenille e Pitichinaccio), al NathanaÑ‘l del tenore Christian Collia, allo Spalanzani del collega di registro FranÒ«ois Piolino, agli Hermann e Schlémil del baritono Yoann Dubruque e, ultimo ma tutt’altro che ultimo, ai Luther e Crespel del basso Francesco Milanese. L’elenco è lungo ma tutti meritano di essere almeno menzionati. Meno convincente è sembrato soltanto l’intervento, poco intenso emotivamente e poco trascinante forse per l’accompagnamento un po’ slentato dal podio, del mezzosoprano Federica Giansanti come Voix de la mère nell’atto di Antonia. E a proposito di podio, questo era occupato dal maestro parigino Frédéric Chaslin, che, prima dello spettacolo inaugurale della Fenice, aveva già diretto ben settecentotrentadue recite di quest’opera dopo il debutto assoluto avvenuto ancora nel nostro teatro nel 1994. Uno specialista, dunque, la cui competenza ed esperienza non può essere messa in discussione e si evidenzia nella sensibilità con cui dà il giusto risalto ad alcuni raffinati accompagnamenti. Peccato, invece, che altri momenti siano caratterizzati da sonorità eccessive e da un’impostazione un po’ greve, a discapito della leggerezza e della brillantezza, caratteristiche identitarie di quest’opera. Il coro del Teatro, infine. Diretto da Alfonso Caiani, si è bravamente disimpegnato sul piano scenico e ha dato il meglio di sé su quello vocale, anche se un maggiore controllo ed omogeneità del suono in alcuni passi in fortissimo sarebbe preferibile. Adolfo Andrighetti

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Il rapporto con Shakespeare percorse tutta la vita di Verdi, nell’impegno continuo da parte di questi di carpire all’ammiratissimo drammaturgo inglese i segreti più reconditi per tradurli in parola scenica, per farne l’anima e la vita di un teatro in musica che sapesse cogliere l’essenza dell’uomo ed elevarla al livello di verità artistica. Ed è singolare che questo rapporto, dopo essere passato per gli abissi tragici di “Macbeth” e “Otello” e aver solo sfiorato quelli di un “Re Lear” che non vide mai la luce, dovesse avere come ultimo approdo “Falstaff”. Una “commedia lirica”, cioè, ispirata a due lavori di Shakespeare: “The Merry Wives of Windsor”, commedia a sua volta, e il dramma storico “Henry IV. Ma Verdi non era uomo - e quindi non era artista – da trattare in maniera facile e superficiale neppure una materia in apparenza disimpegnata. E dalle vicende riguardanti sir John Falstaff, obeso crapulone ricco di un’aristocratica dignità, non trae, come scrive Lorenzo Arruga “un’opera buffa, ma un’opera seria rovesciata”; cioè una parabola sulla vita e sulla morte guardate entrambe da un punto di vista eccentrico rispetto all’usuale. Quanto poi questa parabola tradotta in musica ed in canto riguardi l’uomo Verdi, quanto cioè il compositore-contadino di Roncole si riconoscesse, al tramonto della propria esistenza, nel gaudente eppure crepuscolare baronetto, è impossibile a dirsi. Mentre è certo che il personaggio Falstaff può elevarsi ad archetipo di un certo modo, sempre attuale, di attraversare la vita come fosse un grande parco dei divertimenti, godendo ora di un’attrazione ora di un’altra con insaziabile golosità e non arrendendosi neppure agli inequivocabili ed ineludibili segnali lanciati dal trascorrere degli anni; anzi, ignorando finché si può i “peli grigi” e rilanciando senza stancarsi sul tavolo della vita come un giocatore di poker deciso a provare il brivido dell’ultimo bluff con i pochi spiccioli che gli rimangono. Perché, per Falstaff, la realtà è sempre attraente e appetitosa come una bella mela rossa e croccante. E pazienza se chi gli sta attorno si accorge che l’attempato sir non ha più i denti per addentarla e lo sbugiarda e lo rende ridicolo. Non importa. Ciò che importa è aver vissuto sempre, fino in fondo e fino all’ultimo, non fuggendo mai davanti alla sfida neppure quando buon senso e dignità l’avrebbero suggerito, ma affrontandola a viso aperto, con coraggio ed ottimismo, accettando le sconfitte con lo stesso sorriso di aristocratica superiorità con cui si vivono le vittorie; perché “tutto nel mondo è burla” e, davanti alla ruota del tempo che ci macina inesorabilmente, siamo “tutti gabbati”. A questa storia Verdi dedica un lavoro minuzioso, accuratamente rifinito, di puro cesello. Ne esce una partitura che è come un mosaico o un arazzo di assoluta eleganza, composto di innumerevoli tessere o fili intrecciati multicolori, raffinati, tersi, trasparenti. Ma tutti questi splendidi frammenti richiedono di essere ricompattati secondo una visione unitaria sotto il profilo sia musicale sia teatrale. Ed è forse questo il problema più impegnativo che deve risolvere chi dirige e chi mette in scena “Falstaff”, anche a causa di un libretto erudito e raffinato quanto si vuole ma forse carente nel fornire un sostegno drammaticamente solido alle note. E l’impressione di una concezione unitaria che tenga saldamente in pugno il materiale musicale e drammaturgico altrimenti frammentario, quasi sfuggente, si è avuta alla Fenice, ove “Falstaff” è stato presentato come spettacolo inaugurale della stagione lirica 2022-2023. Strutturalmente coerente e compatta è apparsa la lettura del maestro Myung-Whun Chung, che cerca tendenzialmente tempi riposati, larghi, soprattutto nel canto di conversazione, con il risultato che la parola scenica, fulcro della drammaturgia verdiana, ne esce valorizzata in ogni sfumatura; risultato particolarmente importante con un testo come quello di Boito, così ricco sul piano letterario da apparire perfino sovrabbondante. Questa agogica distesa si accompagna, nella concertazione del maestro sudcoreano, alla predilezione per sonorità piene, corpose, turgide talvolta, a cominciare dall’accordo che introduce l’opera, restituito con piglio decisamente robusto. Il risultato è una lettura originale, che valorizza il suono al punto che certe soluzioni armoniche e timbriche suonano nuove all’ascoltatore, al quale sembra di riscoprirle in quel momento, anche se il gusto, che si potrebbe definire di ispirazione romantica, per la bellezza e la pienezza sonore può andare talvolta a discapito della brillantezza e della briosità, caratteristiche coessenziali alla scintillante partitura. Questo limite tuttavia, non si registra certo nella parte conclusiva dell’Atto II, ove il tessuto sonoro che sostiene il parapiglia scatenato dall’irruzione di Ford in casa propria a caccia dell’amante della moglie, è restituito con una leggerezza così fluida e compatta da lasciare a bocca aperta. E onore al merito, qui ed altrove, all’orchestra della Fenice, sempre pronta e duttile nel rispondere alle richieste di un maestro del livello di Myung-Whun Chung. E unità e compattezza si trovano anche nello spettacolo firmato dal regista inglese Adrian Noble, con le scene di Dick Bird, i costumi di Clancy, il disegno luci di Jean Kalman e Fabio Barettin, i movimenti coreografici di Joanne Pearce. A dirla tutta, la novità vera di questo “Falstaff” non è rappresentata dalla presenza sul podio di Myung-Whun Chung, ospite graditissimo alle inaugurazioni della Fenice ormai da qualche anno, né dalla interpretazione di Nicola Alaimo, il cui sir John è senza confronti oggi e forse anche ieri; ma dal fatto che in un grande teatro d’opera, per giunta in occasione dell’apertura della stagione, si possa assistere ad uno spettacolo non trasportato cronologicamente in altra epoca, non rivisitato perché Verdi e compagnia hanno bisogno di essere attualizzati (!?), non eviscerato per rivelarne i contenuti reconditi, ma semplicemente messo in scena per raccontare una storia in modo bello, chiaro, comunicativo, lasciando che ad esprimersi siano il canto, la musica, il libretto e, finalmente, “autorizzando” lo spettatore a trarre le proprie conclusioni da ciò che vede e sente senza essere imbeccato. La messa in scena, infatti, è ambientata all’epoca di Shakespeare, e di quell’epoca coglie con arguzia, con gusto, con pertinenza, lo spirito e gli umori, attraverso un linguaggio semplice (attenzione, non semplicistico), lineare, comunicativo. Il lavoro sui singoli personaggi è attento, curatissimo, ognuno è caratterizzato nel migliore dei modi. Il resto lo fanno la scenografia, che riproduce con poche varianti nel corso degli atti la bella e suggestiva struttura lignea del Globe Theatre di Londra caro a Shakespeare; i costumi anch’essi d’epoca, veramente belli; l’appropriato disegno luci (perfetta l’atmosfera cupa e misteriosa creata durante l’aria delle corna di Ford). Arricchisce l’insieme senza appesantirlo la rappresentazione, di deliziosa eleganza, di alcuni momenti del “Sogno di una notte di mezza estate”, che fanno da sfondo al cicaleccio delle signore – il termine “comari” non rende giustizia al loro rango borghese – durante la parte seconda del Primo Atto. Semplice quanto efficace anche la messa in scena del finale, con un grande ceppo al centro del palcoscenico a simulare la foresta, una miriade di luci che scendono dall’alto a rappresentare lo stellato, la regina delle fate che avanza immobile dal fondo con effetto di buona resa orrorifica. Il regista spiega l’ambientazione dello spettacolo al tempo di Shakespeare con il fatto che quell’epoca in Inghilterra segna il passaggio fra cattolicesimo e puritanesimo, così come il “Falstaff” di Verdi rappresenta in qualche modo un ponte fra suggestioni medioevali - rintracciabili in quella sorta di cialtronesco rito di purificazione cui sir John è sottoposto nel finale – e il puritanesimo incarnato da Ford, il cui vero dio è il denaro, seppure inteso come premio del lavoro indefesso ed onesto. Ma questa spiegazione sembra voler rivestire di un abito intellettuale una scelta che non ha bisogno di giustificazioni, perché bella e convincente di per sé, perché è teatro vero e non elaborazione concettuale per pochi eletti. Nel cast giganteggia in tutti i sensi, quello metaforico come quello fisico, il Falstaff di Nicola Alaimo, che usa con somma finezza, intelligenza e senso teatrale uno strumento duttile, omogeneo, corposo, per sottolineare ogni variazione nel colore, nell’espressione, nell’intensità della parola scenica. Un solo esempio fra gli innumerevoli che si potrebbero portare: nella frase “Quest’è il mio regno. Lo ingrandirò”, riferita alla monumentale epa del protagonista, con il crescendo sulla “a” di ingrandirò il baritono asseconda mirabilmente, servendosi di un mezzo puramente musicale, l’immagine di trionfale espansione - dell’orgoglio di sir John simboleggiato dalla sua pancia - suggerita dalla situazione. L’interpretazione di Alaimo dà l’impressione di un caleidoscopio sonoro continuamente cangiante, assecondato attimo per attimo da una padronanza totale dell’atteggiamento e del gesto. Un Falstaff da spellarsi le mani, come effettivamente avviene, e chi se ne importa se si potrebbero registrare qualche effetto “parlato” o “falsetto” di troppo, qualche scoppio iracondo che sembra superfluo. È così eloquente, convincente, appariscente direbbe Boito, questo Falstaff, che non resta che applaudire. Il resto della compagnia è assolutamente all’altezza. Il Ford del bulgaro Vladimir Stoyanov è ammirevole per l’impostazione vocale e scenica, che ne fa un’emblematica figura di ricco borghese in perenne e diffidente difesa dei propri beni, la moglie come il denaro. Il baritono, poi, è del tutto convincente nell’aria delle corna per la completa adesione al momento psicologico espresso dalla musica. Bene assortito il gruppo delle signore di Windsor. L’Alice del soprano Selene Zanetti mostra vocalità sicura e ben tornita e una felice immedesimazione nel ruolo; elegante la Meg del mezzosoprano Veronica Simeoni; splendida Quickly, infine, quella del contralto Sara Mingardo, capace, con la sua arte e la sua esperienza, di restituire in pienezza il personaggio attraverso il canto, che si qualifica per intonazione, musicalità e misura pur non perdendo nulla in espressività, anziché attraverso effetti di dubbio gusto. Nella coppia degli amorosi, la Nannetta del soprano Caterina Sala è dolce e garbata quanto serve e mostra un’emissione sicura, anche se “Sul fil d’un soffio etesio” avrebbe meritato ancora più incanto e morbidezza, ma nell’esecuzione di certi pezzi rimane sempre un margine di miglioramento. Il Fenton del tenore USA René Barbera, se non mette in mostra quella disinvoltura e scioltezza di movimenti che un innamorato poco più che adolescente dovrebbe avere, esibisce però una vocalità preziosa, basata su di un’impostazione tecnica impeccabile, una linea di canto perfetta, un timbro delicato che si rinforza e si espande scintillante non appena la voce viene spinta verso l’alto. Niente da dire, se non cose positive, sulla coppia degli sciamannati servitori di sir Jhon, il Bardolfo del tenore Cristiano Olivieri e il Pistola del basso Francesco Milanese: entrambi perfettamente in parte, pittoreschi ma non esageratamente caricati, vocalmente adeguati con una piccola preferenza per la voce grave. Le medesime considerazioni valgono per il dr. Cajus del tenore Christian Collia. Puntuale e preciso il coro della Fenice diretto da Alfonso Caiani. Alla serale di martedì 22 novembre, resa possibile dal funzionamento del Mose nonostante fosse prevista un’acqua alta da record, lo spettacolo è stato accolto con gioioso entusiasmo da parte del pubblico che gremiva il teatro in ogni settore. Adolfo Andrighetti

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