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IDROBASE GROUP: NOLEGGIO DEI MACCHINARI PER ABBATTERE PM 2.5

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Di fronte ad un’opera come ”Dialogues des Carmélites” si resta perplessi e preoccupati, tanta è la complessità e la profondità dei temi che offre alla riflessione. Si pensi soltanto al significato da attribuire alla rivoluzione francese e alle rivoluzioni in generale, oppure al confronto tra la concezione cristiana della vita ed un’altra, laica e ideologica, maturata durante l’Illuminismo ed esplosa in tutte le sue contraddizioni con il Terrore. Se poi si guarda al personaggio di Blanche, la ragazza fragile, ipersensibile, che decide di entrare in monastero per difendersi dal mondo esterno ma che, all’ultimo istante, trova il coraggio di unirsi alle consorelle nel martirio, si potrebbero aprire vaste riflessioni su un tema di assoluta attualità come il disagio della persona di fronte alla realtà, vista come un nemico da cui guardarsi. E che dire del martirio? È giusto tacciarlo di disumanità oppure rappresenta la sublime testimonianza di una volontà eroica immolata ad un ideale? E qui conviene fermarsi, perché, dal fatto storico dell’esecuzione mediante ghigliottina di sedici suore carmelitane di Compiègne avvenuta a Parigi il 17 luglio 1794, al racconto “Ultima al patibolo” che ne trasse Gertrud von le Fort (1931), al dramma di George Bernanos “Dialoghi delle carmelitane” (1948, postumo), fino all’opera di Franҫois Poulenc (Scala, 26.1.1957), autore della musica e del libretto ricavato da Bernanos, i contenuti umani e filosofici sembrano complicarsi anziché semplificarsi. Tuttavia un tema dominante forse si può rintracciare, quello della morte, alla quale potrebbe offrire una prospettiva nuova il martirio inteso nel suo significato etimologico di testimonianza, realizzata offrendo la vita per un ideale trascendente. A questa visione della morte si ispira, già nella seconda scena del primo Atto, la scelta di Blanche del nome da assumere in religione: suor Blanche dell’Agonia di Cristo. Ancora nel primo Atto, scena terza, suor Constance invita suor Blanche a donare entrambe la propria vita per quella della superiora, gravemente ammalata. E nella scena seguente, ove si assiste alla problematica, anzi terribile, agonia della superiora, quest’ultima dichiara di volere offrire la propria morte a suor Blanche. Il secondo Atto, poi, è attraversato tutto dal tema del martirio, desiderato come compimento ultimo e sublime della vita (Mère Marie de l’Incarnation); ma anche guardato con diffidenza quasi come una tentazione, un voler forzare la volontà di Dio (la nouvelle Prieure). Il terzo Atto, infine, rappresenta il trionfo del martirio, al quale le suore si votano su insistenza di Mère Marie e quindi liberamente si offrono cantando il Salve Regina nel sublime e impressionante finale. Si può affermare, quindi, che ”Dialogues des Carmélites” rappresenta una vasta e potente riflessione sulla morte vista come passaggio verso la Vita, la Vita di Dio. Attraverso il martirio, cioè la libera offerta di sé per un ideale superiore nella prospettiva dell’Eternità, il focus si sposta, dalla morte, al suo contrario. La morte, liberamente abbracciata in nome di Cristo, perde il suo pungiglione, come scrive san Paolo, e diventa il luogo ove trionfa la Vita. L’origine è il Calvario, ove il supplizio della croce accettato da Cristo diventa la fonte della salvezza universale, cioè della vita che non conosce tramonto. Alla concezione cristiana della morte come condizione per la risurrezione si contrappone nell’opera la pratica dei rivoluzionari, che la morte la usano per eliminare i nemici e terrorizzare gli avversari. I ”Dialogues des Carmélites”, al debutto a Venezia, sono proposti alla Fenice in una coproduzione con il Teatro dell’Opera di Roma per la regia di Emma Dante, anch’essa alla sua prima in laguna, le scene di Carmine Maringola, i costumi di Vanessa Sannino, il disegno luci di Cristian Zucaro, i movimenti coreografici di Sandro Maria Campagna. Lo spettacolo si tiene distante dalla logica dei cattolici Bernanos e Poulenc, preferendo vedere la domanda religiosa, cioè la domanda di assoluto, di infinito, che urge nel cuore delle carmelitane, come una componente in fondo secondaria di un più generico anelito alla libertà, che accomuna le suore come qualunque altra donna anche lontana dalla scelta religiosa. Ciò che conta, in questa visione, non è la ricerca di Dio, ma invece l’indagine sulla libertà conculcata di queste donne, che rinunciano ad essere tali in nome di un ideale astratto ed ambiguo. Di qui l’atmosfera cupa, tetra, in cui prevalentemente è immerso lo spettacolo, accentuata dalle splendide luci, con la presenza dominante di una grata che chiude il palcoscenico fino al soffitto e ai lati, a rappresentare l’angustia della vita conventuale, che serra le suore all’interno di una dimensione priva di respiro e di orizzonti umani; una grata che si ritira solo per lasciare spazio a fondali neri o comunque ad ambienti immersi nell’oscurità. E la stessa vestizione di Blanche in fondo è rappresentata come un’incarcerazione. E ancora il macabro ossario decorato di teschi in cui è deposto il cadavere della priora. E l’orribile penitenza cui la regola, al di là di ogni verosimiglianza storica, sottopone le suore, che si legano delle pietre ad una caviglia costringendosi così a claudicare; e quelle carmelitane che di tanto in tanto attraversano il palcoscenico piegate a novanta gradi spingendo questi strumenti di tortura, sono il simbolo di una concezione femminile degradante e in fondo disumana. Anche il grande crocifisso che spesso incombe dall’alto sul palcoscenico e oscilla minacciosamente nei momenti più gravi della vita della comunità sembra incarnare l’oppressione insita in una concezione religiosa della vita, così come la sacra esaltazione delle suore, espressa con la tensione di tutta la loro persona ad afferrare, a toccare la divina persona o il suo simulacro, sembra l’espressione di un fanatismo spaventoso ed irragionevole: tant’è vero che il crocifisso all’inizio dell’opera sparisce come fagocitato all’interno di quell’abbraccio irragionevole, mentre, più avanti, viene sostenuto dalle stesse braccia nelle sue pericolose oscillazioni, quasi che il sacrificio di quelle povere donne fosse indispensabile per reggere un ideale ormai tramontato. Secondo questa concezione, anche la morte di Blanche, collocata su una croce come un alter Christus, non può essere letta come il sacrificio di una religiosa che si unisce a quello del suo Signore condividendone lo stesso strumento di morte e quindi facendosi simile a Lui nell’offerta della vita per la salvezza universale; ma, piuttosto, come l’ultima illusione di chi vuole credere nell’incredibile, perché il martirio, come afferma la regista, è “una decisione delirante”. Anche le scene che dovrebbero essere più serene, come la terza del primo Atto, nella quale si assiste a momenti della vita quotidiana nel Carmelo, non sono esenti da questo sguardo sospettoso, anzi negativo sulla scelta religiosa, sia per il contrasto fra la vitalità naturale delle suore e la gabbia di pregiudizi che impedisce di esprimerla, sia perché questa vitalità si manifesta attraverso movimenti meccanici e non spontanei come quelli delle suore stiratrici. Ma se la vita monastica nega la libertà, questa non è garantita neppure dal nuovo ordine imposto con la violenza dalla rivoluzione. La grottesca fuga dal Carmelo delle suore in bicicletta dopo che sono state costrette a rinunciare alla vita religiosa e non prima di essersi segnate ripetutamente come se stessero peccando contro la loro volontà, è una finta liberazione, sia perché imposta con la forza, sia perché troverà la sua atroce conclusione sulla ghigliottina. Lo spettacolo, comunque lo si voglia valutare nei contenuti, è comunque di alto livello sul piano teatrale, curatissimo in ogni dettaglio, attentamente studiato in modo da non lasciare nulla al caso. Tutto ciò è evidente nella intelligenza, oltre che nella diligenza, con cui ogni momento dell’impegnativa opera è valorizzato ai fini della rappresentazione, nella caratterizzazione dei personaggi come nei movimenti di coristi, ballerini e mimi, il cui apporto teatrale è determinante per la riuscita della messinscena. Assolutamente funzionali all’idea registica anche la semplice scenografia, l’efficacissimo disegno luci, i costumi evocativi con buon gusto fra rispetto della collocazione storica della vicenda e atemporalità, i pertinenti movimenti coreografici. Insomma, una grande prova di professionalità e di intelligenza teatrale, della quale bisogna dare atto alla regista e al suo staff. Sul piano musicale, il fascino dei ”Dialogues des Carmélites” emerge da una varietà di suggestioni, di motivi ispiratori, di colori orchestrali, che sorprendono e suscitano ammirazione, anche perché in perfetta armonia con la drammaticità della. Così il rapido trascorrere dai tocchi impressionistici timbricamente raffinati alla Debussy a un declamato aspro e fortemente impattante alla Musorgskij accompagna i fatti raccontati con una pertinenza straordinaria, al punto da fare di quest’opera uno dei capisaldi del novecento musicale. Il maestro Frédéric Chaslin, grazie anche all’apporto dell’orchestra della Fenice che si segnala per omogeneità e compattezza di suono al pari del coro istruito da Alfonso Caiani, imposta nel complesso una lettura vivida e dinamica, ricca di vigore e di forza teatrale, anche se i momenti più lirici non sono per ciò trascurati. Questa interpretazione, più vitale che contemplativa, avvolge e trascina nella sua carica drammatica il pubblico e porta i cantanti, anche per non essere soverchiati dal volume sonoro proveniente dalla buca, ad insistere su dinamiche intense, con un canto di forte impatto sul piano emotivo. Ne scapita la vocalità fresca, sana, ma non imponente della Blanche di Julie Cherrier-Hoffmann, mentre reggono bene l’impatto la Mére Marie de l’Incarnation di Deniz Uzun e la Soeur Constance di Veronica Marini, dalle voci rigogliose e ben proiettate, anche se i momenti di canto sfogato sfociano in acuti fissi e gridati tutt’altro che gradevoli. Senza pecche, invece, Le Chevalier di Juan Francisco Gatell, che declama con forza ed incisività senza perdere mai il controllo dello strumento e della linea vocale. Felicissima anche la performance di un’artista sopraffina quale Anna Caterina Antonacci, che, come Prieure du Carmel, muore con struggente intensità ma senza mai perdere il senso della misura sia nella presenza scenica sia nella resa vocale, caratterizzata da un timbro pieno, rotondo, sonoro, oltre che dalla nota espressività del fraseggio. A posto nei ruoli rispettivi anche Vanessa Goikoetxea, una nouvelle Prieure vocalmente presente ed efficace, e Armando Noguera, un Marquis de la Force appropriato in ogni suo intervento. Vanno menzionati anche tutti gli altri protagonisti o coprotagonisti dello spettacolo: l’Aumônier du Carmel, puntuale ed appropriato ma un po’ sovrastato dai decibel orchestrali, di Jean-Franҫois Novelli; il I Commissaire di Marcello Nardis, come sempre padrone della parte; Francesco Paolo Vultaggio, vocalmente di impatto nei quattro ruoli affidatigli; e ancora, del tutto all’altezza, la Mère Jeanne di Valeria Girardello, la Soeur Mathilde di Loriana Castellano, l’Officier di Gianfranco Montresor. Successo pieno, caldo e alla fine assolutamente meritato per tutti, considerata anche la non trascurabile difficoltà dell’impegno, alla fine della rappresentazione di martedì 24 giugno. Adolfo Andrighetti
Nel suggestivo giardino dell’associazione Musikrooms a Treviso, in occasione della Festa della Musica, torna il Fuori Festival delle Due Città con un evento, che unisce musica, scienza e stelle. “Nocturnal Stars” è il titolo della serata speciale, che si terrà sabato 21 Giugno dalle ore 20.00, con protagonisti il “padrone di casa”, Andrea Vettoretti, chitarrista e compositore, affiancato dalla violoncellista, Riviera Lazeri. La serata proporrà un viaggio sonoro, ispirato all’universo ed alla meraviglia del cielo notturno, grazie a brani dell’artista trevigiano, arricchiti dai suoni cosmici, realizzati in collaborazione con astrofisici dell’Agenzia Spaziale Europea: un progetto artistico, che fonde musica e scienza, sogno e consapevolezza; un’occasione per vivere una notte di musica e stelle, nel cuore di Treviso, dove l’arte incontra l’infinito. Durante l’evento sarà possibile osservare il cielo, grazie alla presenza degli esperti di “Treviso Astronomica”, che metterà a disposizione telescopi mobili per l’osservazione guidata delle stelle. Ad introdurre ed accompagnare la serata saranno il divulgatore scientifico, Fabrizio Marchi, con uno “speech” dedicato al rapporto tra musica e cosmo ed Angelino Tronchin con l’osservazione del cielo notturno. A seguire, un momento conviviale con cena a buffet nel giardino di “Musikrooms”, che ospita anche la direzione artistica dell’affermato Festival delle Due Città, in programma tra Settembre ed Ottobre a Cavallino Treporti, Treviso, Mestre e Venezia. Evento in collaborazione con il Comune di Treviso; prenotazione obbligatoria: festival@musikrooms.com .
Sono stati gli sport da combattimento a regalare medaglie al C.U.S. Venezia nell’edizione 2025 dei Campionati Nazionali Universitari, svoltisi ad Ancona: dopo l’oro e l’argento di Anna Bettiol nel taekwondo è stato Nikolay Miglioranza a vincere il titolo nella lotta greco-romana (kg.80), precedendo altri 11 atleti; al titolo tricolore il rappresentante biancogranata ha affiancato anche il bronzo nell’omologa categoria di lotta libera. “Un grazie va a tutti gli atleti ed atlete ed alle società federali di appartenenza. Rispetto al 2024, il nostro medagliere vanta un oro in più, permettendoci di migliorare il nostro ranking nazionale, dove ci caratterizziamo soprattutto per i risultati conseguiti nei cosiddetti sport minori” commenta Massimo Zanotto, Presidente del C.U.S. Venezia. In questo quadro va segnalata anche la presenza del C.U.S. Venezia al campionato veneto di beach handball, in calendario sabato 14 Giugno sulla spiaggia veneziana di Caorle: in girone con i biancogranata saranno due squadre trevigiane: Young Opitergium e Handball Oderzo. “Dopo il successo della manifestazione a conclusione dei corsi scolastici - conclude Zanotto – è un ulteriore testimonianza della nostra volontà di ripartire in uno sport, che per anni ci ha visto ad alti livelli nazionali, soprattutto giovanili.”
Mentre l’incertezza internazionale, conseguenza delle crisi belliche e delle politiche trumpiane, sta comportando almeno un 10% di perdita per il mercato mondiale del “cleaning”, la veneta Idrobase Group prosegue la strategia di consolidamento ed ampliamento sui mercati africani, annunciando la nascita di Idrobase Marocco per la fornitura di componenti compatibili con qualsiasi grande marca di idropulitrici, confermando la “leadership” del “made in Italy” nel settore; ciò, mentre prosegue l’iter per l’avvio delle prime produzioni su licenza in Algeria. “L’accordo siglato per il Marocco è un ulteriore tassello della nostra strategia che, accanto all’ head quarter di Borgoricco nel padovano, prevede un rafforzamento della nostra presenza su mercati di straordinarie potenzialità come Cina, dove siamo presenti da oltre 20 anni ed Africa – afferma Bruno Ferrarese, Contitolare di Idrobase Group - Nonostante i recenti episodi, che mi hanno personalmente coinvolto, anche la Libia resta oggetto dei nostri interessi. Già oggi non mancano le opportunità dettate dall’economia del petrolio, ma aumenteranno notevolmente, grazie ad investimenti stranieri, appena il Paese sarà stabilizzato; per questo, stiamo sondando il terreno con imprenditori locali per nuove produzioni su licenza di idropulitrici, detergenti ed aspiratori” conclude l’industriale, evacuato nelle scorse settimane, assieme ad altri italiani, dal Ministero degli Esteri, a causa degli scontri a fuoco scoppiati a Tripoli. I primi dati di bilancio confermano, per altro, la bontà della “rivoluzione organizzativa aziendale” in atto, grazie all’applicazione metodo Lean: in una situazione occupazionale stabile (una cinquantina i dipendenti in Italia) si sono ridotte del 20% le giacenze di magazzino, ottimizzando i cicli produttivi e permettendo così di ridurre i prezzi di alcuni prodotti fino a 15%. Il bilancio 2024 si è chiuso con un + 13% di fatturato (EBITDA: 12%); i primi due mesi i quest’anno hanno segnato addirittura un incremento del 25%, sceso però successivamente al 4%, complice la difficile congiuntura mondiale. “Nell’attuale condizione dei mercati è pressochè un miracolo, a testimonianza della forza del marchio e della solidità aziendale – commenta Bruno Gazzignato, anch’egli Contitolare – Grazie alla nostra costante ricerca di nuovi mercati e della massima efficienza, contiamo comunque di superare, entro fine anno, i 15 milioni di fatturato, raggiunti l’anno scorso dopo aver recuperato le conseguenze del disastroso incendio del 2022.” Infine, dopo la presentazione della nuova linea di prodotti per il “car washing” al salone Promotec di Bologna, un’ulteriore soddisfazione è arrivata dalla partecipazione alla fiera di settore “Issa Pulire Milano”, dove la squadra di studenti universitari, sponsorizzata da Idrobase Group, è arrivata seconda nella sfida hackathon su “ come incrementare le performance delle imprese di pulizia, grazie all’Intelligenza Artificiale”: la squadra ha presentato una proposta per migliorare l’igiene negli stadi, prevedendo anche l’utilizzo degli “sparanebbia” dell’azienda veneta
Confesso che, ogni qual volta vedo a teatro “Attila” di Giuseppe Verdi, torno sempre ad emozionarmi come un bambino. Sarà perché la memoria corre veloce a quelle rappresentazioni del 2004, protagonista allora come ora Michele Pertusi, quando sedevamo sotto il funzionale PalaFenice dopo l’orrendo incendio del 1996, mesti per l’esilio coatto ma anche grati perché ci era data la possibilità di continuare ad ascoltare l’opera. E, in quel contesto grigio e disadorno rispetto al teatro che amavamo e che non c’era più, ascoltavo commosso la cabaletta di Foresto, che rianima i profughi di Aquileia profetizzando la rinascita della “cara patria” “qual risorta fenice novella”. A quelle parole, infatti, e a quel canto dall’energia trascinante, rivolgevo il pensiero al nostro teatro, alla Fenice, “cara patria” della cultura e dello spirito, di cui si attendeva la rinascita come quella del mitico uccello da cui prende il nome. Ma la mia emozione di spettatore deriva soprattutto dalle caratteristiche dell’opera ed in particolare della musica, che tocca il cuore delle anime semplici, capaci di commuoversi ed entusiasmarsi, tanta è l’energia travolgente, a tratti aggressiva e quasi brutale, che ne sprigiona; un’energia che afferra allo stomaco e non molla mai la presa, mozza il respiro e annulla quel distacco critico che la persona ragionevole e istruita dovrebbe o almeno vorrebbe mantenere fra sé e lo spettacolo cui assiste. Di questo magma musicale incandescente, di questo torrente in piena che tutto travolge al suo passaggio, di questa forza impetuosa tutta verdiana perché ormai i grandi padri Rossini e Donizetti sono stati definitivamente abbandonati, si è fatto ottimo interprete il maestro Sebastiano Rolli, sul podio della Fenice per questa nuova produzione di “Attila”, che segue l’edizione critica della partitura, a cura di E.Greenwald, edita da University of Chicago Press e dalla nostra Casa Ricordi. Rolli, infatti, mostra una totale sintonia con l’universo drammatico e musicale dell’opera, nel quale si immerge con convinzione e dedizione, assecondandone gli impeti travolgenti ma anche conferendo adeguato risalto ai momenti di incantato lirismo, tanto più affascinanti in quanto si aprono in mezzo al fuoco e alle fiamme di una partitura incandescente: ci si riferisce, naturalmente, all’alba sulla laguna di Rio Alto nel Prologo, felicemente descrittiva, e alla romanza di Odabella “Oh! Nel fuggente nuvolo”, dal carezzevole accompagnamento, all’inizio dell’atto primo. Non si è capita solo la funzione, nei ‘da capo’ delle cabalette, di alcuni vistosi ‘rallentando’, che sono sembrati delle interruzioni artificiose nell’andamento impetuoso della musica. Con il maestro Rolli hanno collaborato al meglio l’orchestra del teatro e, sotto la direzione del maestro Alfonso Caiani, il coro, particolarmente efficace e compatto nella sezione femminile e in quella delle voci gravi maschili. La valutazione sul cast a disposizione di Rolli non è semplice. “Attila” ha bisogno di voci sonore, impetuose, baldanzose, ma anche stilisticamente avvedute, ché qui ci si muove in un contesto di pieno romanticismo, capaci di andare oltre la routine professionale e di interpretare con convinzione e dedizione. L’Attila di Michele Pertusi è per palati fini. L’artista unisce, alla presenza scenica sempre prestigiosa, il ben noto magistero vocale, fatto di un timbro pieno, pastoso, rotondo, senza un’incrinatura, senza un appannamento se non in qualche affondo nei gravi, di un assoluto controllo dei fiati e quindi delle variazioni dinamiche, di un’intonazione ammirevole, di un fraseggio sempre nobile ed espressivo. Con il suo canto pulito, sonoro e imperioso quando occorre ma sempre sorvegliato e alla fine pienamente umano, Pertusi è perfetto per impersonare il lato più vulnerabile di questo guerriero sanguinario ma in fondo fragile, indifeso, vittima dell’amore per una donna e di un codice d’onore duro, arcaico, che egli osserva con lealtà e che lo espone inerme e generoso come una vittima sacrificale all’odio e alla smania di vendetta degli altri, figli di una civiltà in decadenza che sopravvive grazie all’intrigo. L’Odabella del soprano Anastasia Bartoli, la più applaudita al termine dello spettacolo, manovra con notevole perizia uno strumento rigoglioso ed esuberante, che si lancia impavido nell’invettiva e scaglia verso il cielo acuti sonori ed imperiosi. Da questo punto di vista è l’Odabella ideale, capace, grazie anche alla presenza accattivante e insieme bellicosa, di restituire in pieno il carattere di questa donna indomita e a tratti feroce. La padronanza tecnica permette all’artista di risolvere in maniera adeguata non solo le agilità di forza, che si addicono alle caratteristiche della sua voce, ma anche i passi più lirici, ai quali però, per quanto abilmente impostati e condotti, manca un reale abbandono, quella dolcezza femminile vagamente sognante che si richiederebbe in un’eroina romantica. Il Foresto del tenore Antonio Poli esibisce un bel timbro fresco e smaltato, uno slancio tenorile che scalda il cuore, una presenza scenica disinvolta e gradevole. Purtroppo il canto è prevalentemente impostato sul forte e suona di conseguenza un po’ teso e spinto. Anche se non mancano le note modulate in piano, come alla chiusa dell’aria “Ella in poter del barbaro” sulle parole “mio dì”, l’impressione è che l’artista trovi la propria comfort zone nel canto sfogato. Ne scapitano gli acuti, che ci sono ma potrebbero essere più limpidi e squillanti, e in parte il fascino delle melodie che Verdi mette in bocca al personaggio, a cominciare dall’accattivante arietta d’ingresso “Qui, qui sostiamo!”, che si vorrebbe accompagnata da un involo più aereo, più sognante, più romantico insomma. L’Ezio del baritono Vladimir Stoyanov non incomincia bene. Tenorile in alto, poco consistente al centro, accusa qualche nota brutta, sporca, e un’intonazione a tratti perfettibile, per cui “Tardo per gli anni, e tremulo” e il successivo duetto con Attila non riescono come dovrebbero. Per fortuna il bravo artista, noto per la sua solidità professionale, si riprende a partire dal secondo atto, in cui trova una linea di canto più corretta ed un’emissione omogenea, anche se la sua interpretazione si conferma interlocutoria. Sonoro e sicuro l’Uldino del tenore Andrea Schifaudo. Meno autorevole del necessario il Leone del basso Francesco Milanese. La messinscena, nell’insieme riuscita e dotata di una sua forza e di un certo fascino, è dovuta a Leo Muscato per la regia, Federica Parolini per le scene, Silvia Aymonino per i costumi, Alessandro Verazzi per il disegno luci. L’elemento base è rappresentato da una foresta di alberi spogli e sottili, che occupano i due lati, mentre dal fondo emergono coristi e figuranti. Ma la drammaturgia teatrale prende vita e consistenza soprattutto grazie alle luci, che creano, con effetti assolutamente suggestivi, le diverse atmosfere, improntate tutte al tono generale del tetro e del desolato, mentre la regia gestisce con professionalità il palcoscenico senza offrire però spunti di particolare interesse. Risulta troppo statica la disposizione del coro, mentre la caratterizzazione e i movimenti dei vari personaggi sono adeguati pur nella ordinarietà. Ne deriva che la visione del regista, secondo la quale “Attila” è opera che racconta il disfacimento di una civiltà piuttosto che la nascita di una nuova, è affidata al contesto scene, luci, costumi, questi ultimi saggiamente d’epoca anche se con qualche libertà, piuttosto che all’organizzazione del palcoscenico, dove tutto funziona a dovere ma in maniera sempre un po’ prevedibile. Alla rappresentazione di giovedì 22 maggio un teatro felicemente stracolmo in basso e in alto ha riconosciuto un successo cordiale, caldo ma non incandescente, agli artefici dello spettacolo, con punte di maggiore entusiasmo per Anastasia Bartoli e il maestro Rolli. Adolfo Andrighetti
Correva l’anno 1926 quando Kurt Weill, precisamente il 27 marzo, debuttò come operista alla Semperoper di Dresda con l’atto unico “Der Protagonist”, ora al Teatro Malibran per una stimolante prima assoluta veneziana. Il contesto culturale dell’epoca era vivace e complesso, segnato dalla nascita della psicoanalisi e dalla scoperta delle patologie mentali, per cui l’opera, il cui libretto riproduce fedelmente un testo di Georg Kaiser del 1920, si presenta come il frutto di questa sensibilità nascente verso gli strati più profondi ed inquietanti della mente umana. “Der Protagonist”, infatti, racconta la vicenda di un’alienazione patologica e narcisistica, che conduce un capocomico a confondere la finzione del palcoscenico con la realtà e a uccidere realmente la sorella in luogo dell’omicidio simulato voluto dalla vicenda che si doveva mettere in scena. La sorella gli comunica l’arrivo dell’amante mentre sono in corso le prove della tragedia al termine della quale un marito ingannato avrebbe dovuto sopprimere la moglie infedele accecato dalla gelosia. Ma il comportamento della donna, che il fratello vive come un tradimento per non essere stato informato della relazione, si sovrappone al tradimento teatrale; quindi, nella confusione di realtà e fantasia, colui che è Der Protagonist sul palcoscenico lo diventa tragicamente anche nella vita, ergendosi ad arbitro supremo dell’esistenza altrui in un finale di autoesaltazione, segnato, come sottolinea il maestro Stenz che dirige l’orchestra al Malibran, dalla trionfalistica tonalità di re maggiore e dall’assertivo ritmo in 4/4. È chiaro che l’alienazione del Protagonist, il cui primo frutto avvelenato è rappresentato dall’amore possessivo e morboso che egli nutre verso la sorella e che la regia giustamente mette in evidenza, viene proposta da Weil e da Kaiser come il simbolo di uno squilibrio che riguarda prima di tutto una società malata e affaticata, i cui figli non potranno che presentare i medesimi sintomi. Tuttavia è altrettanto chiaro che l’eccellente proposta al Teatro Malibran della prima opera del ventiseienne compositore si giustifica in primo luogo per la straordinaria vitalità e varietà della musica, di una ricchezza sorprendente di temi, colori, soluzioni armoniche e ritmiche, nonché di una freschezza creativa entusiasmante. Sembra di stare davanti ad una fontana che erutta zampilli d’acqua di colori e forme continuamente diverse, che, se non permettono di inquadrare l’opera entro una categoria precisa (ma pazienza...), mettono però in pieno risalto la versatilità di un musicista che, nonostante la giovane età e il suo essere al debutto come compositore di teatro, è in grado di accedere ai generi musicali più disparati, piegandoli alle proprie esigenze con una vivacità di scelte che diventa esuberanza. Onore al merito, naturalmente, all’orchestra della Fenice, che risponde alla grande alle sollecitazioni provenienti dal podio, dove il maestro Markus Stenz sa dare pieno risalto alle infinite potenzialità della partitura. Da segnalare anche l’apporto dei musicisti (due flauti, due clarinetti, due fagotti, due trombe) che si esibiscono sul palcoscenico in quanto inviati dal duca per sostenere la pièce teatrale di cui è volubile committente. Di eccellente livello anche il cast, dominato dal tenore Matthias Koziorowski, un Protagonist solido, incisivo e svettante in acuto, accanto al quale si segnala la sorella del soprano Martina Welschenbach, assolutamente credibile come vittima predestinata di un amore fraterno distorto e morboso, oltre che padrona di una parte risolta con vigore e sensibilità. E ancora da apprezzare il giovane gentiluomo del baritono Dean Murphy, dal timbro caldo e avvolgente, l’adeguato maggiordomo del duca impersonato dal tenore Alexander Geller, e il sapido oste del basso-baritono Zachary Altman. Abili e duttili sia negli interventi cantati sia nel dare vita ai siparietti mimati i tre attori, interpretati dal basso Szymon Chojnacki, dal basso-baritono Matteo Ferrara e dal controtenore Franko Klisović. In conclusione, un cast preparato, affiatato, ben dentro alle rispettive parti e pronto a onorare l’impegno vocale richiesto dalla partitura. Ben concepita e attuata la messinscena, di cui è responsabile Ezio Toffolutti per regia, scene, costumi e luci, queste ultime realizzate da Andrea Benetello. Il regista sposta l’originaria ambientazione elisabettiana all’epoca della composizione dell’opera, subito dopo la prima guerra mondiale, sottolineandone così la carica innovativa ed eversiva legata all’avanguardia storica e all’Espressionismo, come spiega lo stesso Toffolutti. Si evidenzia un lavoro attento e di puntuale professionalità sui singoli personaggi, particolarmente efficace durante le due pantomime, quella comica quanto quella seria, che si svolgono all’interno di due strutture poste ai lati opposti del palcoscenico per permettere agli attori di vedersi e svelarsi mentre consumano i rispettivi tradimenti affettivi. Sono le prove dello spettacolo commissionato dal duca, che, sulla falsariga dell’altrettanto volubile e supponente gran signore dell’”Arianna a Nasso” di Richard Strauss, prima comanda uno spettacolo comico, poi esige che, a causa della presenza di un vescovo, sia girato al tragico. E tragico sarà, dal momento che il Protagonist della pièce teatrale non si accontenterà di esserlo sul palcoscenico ma vorrà diventarlo tragicamente anche nella vita. Toffolutti ambienta la vicenda all’interno di una sorta di magazzino, che, come egli stesso dichiara, riproduce un luogo che aveva affittato alla Giudecca. Una scelta funzionale allo spettacolo e appropriata sotto il profilo concettuale, perché la semplicità del posto, manifestamente dedicato al lavoro, contrasta efficacemente, per la sua quotidiana concretezza, con l’allucinata esaltazione del Protagonist, che confonde arte e vita, finzione e realtà, in una parossistica esaltazione del proprio ego. Funzionali e adeguati al contesto anche i costumi Alla pomeridiana di domenica 4 maggio, applausi calorosi e convinti per tutti gli artefici dello spettacolo. Adolfo Andrighetti
Aprile ha rappresentato l’avvio della stagione canoistica 2025 e la Canottieri Mestre può già vantare un bottino di assoluto rilievo. Si è iniziato con i Campionati Nazionali di Fondo sui 5.000 metri, dove il sodalizio biancoverde ha conquistato a Sabaudia un oro e due argenti. Campione italiano si è laureato l’equipaggio Carolina Zennaro – Emma Carrer nel K2 Ragazze; sul secondo scalino del podio sono, invece, saliti Gabriele Alberti e Marco Pedralli nel K2 Juniores, mentre, nella stessa categoria ma in K4, la medaglia d’argento è andata al collo di Lorenzo Scantamburlo, Giovanni Carrer, Raul Edoardo Profir e Matteo Furlan. Tre titoli regionali sono arrivati dal Campionato Veneto sui m. 1000, disputato a Spresiano, nel Trevigiano. Hanno vinto il titolo: Lukas Scott Schrenk - Alessio Fontanarossa (K2 Ragazzi), Gabriele Alberti – Marco Pedralli (K2 Juniores), Viola Persi Paola – Lukas Scott Schrenk – Alessio Fontanarossa – Veronica Zorzetto (K4 Ragazzi/e misto); Canottieri Mestre ha inoltre conquistato 1 argento e 3 bronzi. Sullo stesso specchio d’acqua si è anche disputata una gara regionale di canoa giovanile; il club di Punta San Giuliano ha ottenuto 2 medaglie d’oro (Francesco Linsalata, K1 4,20; Virginia Ganzaroli, K1 Allieve) oltre a 2 argenti e 4 bronzi. Ultima in ordine di tempo è stata l’International Sprint Race, disputata a Milano, valida come selezione per le prime tappe di Coppa del Mondo e cui hanno partecipato 1205 equipaggi di 65 società con oltre 500 canoisti provenienti anche da Austria, Estonia, Svizzera, Nuova Zelanda e Paesi Bassi; la rappresentativa della Canottieri Mestre era composta da 9 atleti. Due le medaglie di bronzo conquistate: Matteo Furlan – Gabriele Alberti – Marco Pedralli – Giorgio Cravin nel K4 Junior m.500; Lucas Scott Schrenk nel K1 Ragazzi m.500.
“Considerato che abbiamo sede e principale struttura produttiva in Italia, ma un’unità operativa anche in Cina, possiamo affermare di essere l’Ali Baba dei componenti per idropulitrici: entro tre giorni consegniamo in tutto il mondo!”: ad affermarlo con orgoglio è Bruno Ferrarese, Contitolare di Idrobase Group, annunciando la leadership assoluta nei ricambi per le pompe dei 18 maggiori produttori mondiali e lanciando una nuova sfida globale: diventare il principale fornitore di componenti “nobili” delle pompe (anelli di tenuta, valvoline, pistoni), ”cuore” delle idropulitrici. Per farlo l’azienda di Borgoricco, nel Padovano, è andata a giocare in casa dei principali “competitors” alla Fiera di Shanghai, ottenendo riscontri lusinghieri. “E’ come vendere ghiaccio agli eschimesi ma, grazie alla riorganizzazione produttiva con il metodo Lean, riusciamo a proporre prezzi inferiori a quelli dei concorrenti, garantendo al contempo qualità italiana, apprezzata nel mondo e sinonimo di maggiore durabilità. Per questo, vinciamo” chiosa Bruno Gazzignato, anch’egli Contitolare dell’azienda veneta. Il successo della strategia del “made in Italy” è confermata anche dal lancio, sul mercato cinese, di nuove idropompe ad acqua marina, destinate alle attività portuali in un Paese attento alle tematiche della sostenibilità idrica. “Dobbiamo essere pronti a rispondere alle sensibilità emergenti, dettate dalla crisi climatica. Il mondo sta evolvendo, creando nuovi mercati e noi lavoriamo per anticiparli” aggiunge Gazzignato. In questa prospettiva sono proprio i cosiddetti “Elefanti” (grandi “cannoni sparanebbia” realizzati in Italia) a salvare le gemme in molti Paesi (Italia compresa), minacciati da improvvise gelate: i forti flussi d’aria, uniti alla loro oscillazione, garantiscono la diffusione del calore generato dalle torce accese nei campi per proteggere, soprattutto i frutteti, dall’abbassamento delle temperature. “Siamo in piena trasformazione del nostro sistema produttivo e, dopo il disastroso incendio di quasi tre anni fa, possiamo davvero affermare che il 1 Maggio 2025 è per noi la Festa dei Lavoratori, ma soprattutto del Lavoro” conclude un soddisfatto Ferrarese, ringraziando il team aziendale.
La si potrebbe definire una spettacolare evoluzione dell’ingegneria idraulica italiana, celebre nel mondo. In Campania, infatti, a poche centinaia di metri dal celebre Parco Archeologico di Pompei, è stata realizzata la fontana più grande d’Italia: un fronte di circa 200 metri, dove quasi 2000 ugelli (44 robotizzati multidirezionali, 144 azionati ad aria compressa, 164 interattivi “water switches”, 1500 per l’effetto nebbia realizzato in collaborazione con Idrobase Group) e 1150 fari concorrono a creare straordinarie coreografie, tra cui un “water screen”, cioè uno schermo d’acqua, alto 12 metri e largo 30, utilizzato come sfondo per proiezioni. Realizzata a corredo dell’anfiteatro destinato ad ospitare spettacoli ed eventi nell’area del Maxi Mall Pompeii, il più grande centro commerciale e di intrattenimento del Sud Italia (una superficie di 200.000 metri quadri, di cui 6.000 coperti con 170 esercizi), la “show fountain” da record è frutto dell’ingegno e della tecnologia di “Watercube”, azienda veneta (la sede è a Marano Vicentino) che, nata come società di installazione, ha saputo evolversi anche nella progettazione, diventando un “competitor” globale dei colossi mondiali. “Grazie all’impianto di Pompei, abbiamo l’orgoglio di essere finalmente profeti anche in patria – dichiara Barbara Borriero, Amministratore Unico di “Watercube” - Il nostro è un settore di nicchia, dagli orizzonti poco conosciuti, dove dominano estetica, fantasia ed innovazione nella costante ricerca del connubio fra spettacolarità e sostenibilità idrica. Indicativo è che il maggiore mercato sia quello della Penisola araba, dove grandi disponibilità economiche si accompagnano all’esigenza di ottimizzare l’uso di ogni goccia d’acqua. Così, nella celebre località archeologica campana, abbiamo creato giochi idrici sincronizzati con un impianto audio immersivo, luci, laser, proiezioni, nebbia artificiale con le stesse tecnologie ed effetti speciali, che caratterizzano le fontane danzanti del Burj Khalifa di Dubai piuttosto che di fronte al casinò di Bellagio, a Las Vegas.” La fontana di Pompei movimenta fino a 50.000 litri d’acqua al minuto, grazie a 750 metri di tubazioni e collettori in acciaio inox, 8 chilometri di tubazioni in polietilene (PE), 1 chilometro di tubazioni in polivinilcloruro (PVC), 16 chilometri di cavi elettrici; è anche dotata di un sistema automatico di caricamento e svuotamento per la creazione di un’area “wet/dry” calpestabile di 800 metri quadrati con profondità media di 4 centimetri d’acqua, dislocata attorno alla vasca principale. Nell’epoca post Covid, grande attenzione è stata dedicata alla salubrità idrica, per il cui controllo sono impiegati, tra l’altro, sistemi di sanificazione ad ozono ed a raggi UV. Gestito da un software e da un server dedicato, l’impianto è controllato attraverso 16 universi DMX (l’universo DMX è il massimo numero di canali disponibili su una linea DMX: 512), vale a dire che per la programmazione degli show è possibile utilizzare simultaneamente 8192 canali. “A Pompei – conclude il ceo di Watercube, Barbara Borriero – possiamo dire che è nata la Hollywood delle fontane italiane!”
Risale al 1857 la precedente rappresentazione a Venezia di “Anna Bolena” di Gaetano Donizetti, primo dei suoi capolavori ‘seri’, che debuttò, su libretto di Felice Romani, al teatro Carcano di Milano il 26 dicembre 1830, accolto da un successo clamoroso. Questa nuova proposta, presentata alla Fenice in concomitanza con l’ingresso del nuovo sovrintendente e direttore artistico Nicola Colabianchi, ha quindi il sapore di un evento nella storia del teatro lagunare, da onorare con un allestimento ed una esecuzione musicale del più alto livello possibile. Di qui la domanda: abbiamo assistito ad uno spettacolo tale da rendere giustizia ad una delle opere più significative del romanticismo italiano e da accogliere con quel ‘finalmente’ festoso e liberatorio che si riserva alle attese protratte molto, troppo a lungo, ma poi appagate in modo pienamente soddisfacente? Di sicuro rende giustizia all’occasione la partitura in versione integrale, compresi gli ‘a capo’ con variazioni delle cabalette: circa tre ore e venti di sola musica che, se possono mettere a dura prova la pazienza dello spettatore medio, rappresentano però la conditio sine qua non per ripresentare dopo così tanti anni un’opera nel pieno rispetto delle ragioni del compositore e dell’arte in generale. Adeguato all’evento si può considerare anche l’allestimento pensato e realizzato per regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, debuttante nel titolo, con l’ausilio di Oscar Frosio per il funzionale disegno luci. La scenografia si presenta lineare ed essenziale, secondo la dichiarata ultima tendenza di Pizzi volta a sottrarre anziché ad aggiungere, e consiste in una struttura stilizzata di ispirazione tardo-gotica (copyright dello stesso regista), che rimane identica per tutto lo spettacolo e potrebbe rappresentare una sorta di gabbia all’interno della quale i protagonisti restano imprigionati, senza poter dare sfogo ai propri desideri. Le variazioni all’interno di questa struttura base sono pochissime: una camera da letto con un talamo circondato da ampie e sinuose cortine blu, poi una sorta di inferriata che divide il palcoscenico orizzontalmente a figurare un carcere. Si crea, così, un ambiente spoglio, atto ad esaltare, con la sua stessa nudità, la tragedia che ospita. I colori dominanti sono anch’essi austeri e variano dal nero al grigio ferro, mentre sono più ricchi e fantasiosi i costumi, richiamanti fogge e mode dell’epoca Tudor. In questo modo, come osserva lo stesso Pizzi, viene trovato “il giusto clima drammatico”, all’interno del quale gli interpreti vengono lasciati liberi di agire, per poter esprimere, muovendosi prevalentemente al proscenio, la bellezza e l’espressività di un canto nel quale si sostanzia, secondo lo stesso regista, la ragion d’essere di quest’opera. Ed ecco il punto: non saprei dire se, come afferma Pizzi, in “Anna Bolena” “tutto quello che succede è pretestuoso ed è principalmente un’occasione per far esplodere il belcanto”. In proposito mi permetterei di essere più cauto, perché, se è vero che Enrico VIII e Percy corrispondono in fondo a due stereotipi, altrettanto non si può dire di Anna, che vive con grande intensità il dramma di chi, dopo aver perso l’amore, viene privata anche del proprio rango, e di Giovanna Seymour, combattuta fra il rimorso del male che arreca ad Anna accettando le profferte del re, l’amore sincero che la lega a quest’ultimo, il desiderio umano di gloria che manifesta allo stesso Enrico. Figure non banali, insomma, umanamente vive, attorno alle quali la tragedia si compie in maniera forte e compatta. Ma il punto è un altro. Che si tratti di un’opera in cui il canto è fondamentale non vi è dubbio, secondo la logica e l’ispirazione del melodramma italiano del primo ottocento; a confermarlo, basti nominare i primi interpreti: Giuditta Pasta, Giovanni Battista Rubini, Filippo Galli. Qui non si tratta – e Dio ce ne guardi – di evocare un passato immerso nelle nebbie della leggenda per confrontarlo con un presente inevitabilmente inadeguato; ma di provare a vedere se, anche dal punto di vista del canto, che in questo repertorio è determinante, la ripresa alla Fenice, dopo più di 150 anni di assenza, di un titolo storicamente ed artisticamente così rilevante, sia stata all’altezza dell’occasione. La protagonista, la russa Lidia Fridman, merita di essere sostenuta per la giovane età (è nata nel 1996) e per una dotazione vocale di assoluto rispetto. La sua Anna Bolena, che debuttava, sorprende per la colonna sonora compatta, imponente, omogenea, senza una smagliatura, senza una debolezza, prodotta da uno strumento certamente fuori dall’ordinario anche per l’estensione, grazie al quale l’artista affronta il ruolo senza problemi di sorta sul piano vocale. Ne vengono esaltati i momenti di maggiore intensità drammatica, che sono risolti con una compattezza sonora a tratti impressionante; ma anche le oasi liriche sono affrontate con la corretta impostazione e le giuste intenzioni. Purtroppo tutto questo non basta per restituire con piena credibilità un personaggio così complesso e sfaccettato quale Anna Bolena, al quale, nella interpretazione del soprano russo, manca ancora, ma potrà arrivare col tempo, quella sensibilità di donna, quelle trepidazioni, quelle sottolineature espressive, che uno strumento di tale portata, paradossalmente ma non troppo, forse non aiuta a trovare. Ecco, forse manca, in questa Anna Bolena, quel profumo di femminilità che potrebbe impreziosire il personaggio e che viene sacrificato anche a causa del timbro androgino, soprattutto nella prima ottava, del soprano. Quindi, per portare un esempio, se “Al dolce guidami” è carente di abbandono estatico, di quell’incanto sognante che è l’anima del pezzo, “Coppia iniqua”, invece, è trascinante e pieno d’impeto. Chi, invece, non ha problemi nel fraseggiare con espressività, sensibilità e varietà di accenti è la Giovanna Seymour del soprano Carmela Remigio, che, in un ruolo di solito affidato ad un mezzo, continua a dare prova di una versatilità artistica ammirevole, grazie ad una solida impostazione tecnica e ad una preparazione di tutto rispetto. Nonostante lo strumento, infatti, manifesti qua e là qualche durezza e in certi casi richiederebbe un suono più pieno e rigoglioso, il personaggio viene restituito a tutto tondo nel profilo drammatico ed onorato anche sul piano vocale e stilistico. Altrettanto può dirsi dello Smeton di Manuela Custer, al quale, in certi momenti, si adatterebbe un timbro più fresco, più adolescenziale, ma che è proposto con piena credibilità nella sua patetica natura di ragazzo innamorato, smarrito, vittima di eventi più grandi di lui. Per quanto riguarda il settore maschile, non passa inosservato – e sarebbe da meravigliarsi del contrario – l’Enrico VIII di Alex Esposito, colmo di protervia, di aggressività, di malvagità, al punto da sembrare più un vilain da tradizione che un sovrano, seppure altero, superbo e abituato a imporre a tutti il proprio capriccio. L’approccio vocale privilegia l’accentazione violenta e, appunto, aggressiva, sulla levigatezza e l’omogeneità dell’emissione, il che è discutibile in questo repertorio, anche perché l’artista non ama le mezze misure ma spinge le proprie interpretazioni sempre fino al limite e anche oltre, con esiti di assoluta efficacia sul piano drammatico ma talvolta rischiando, almeno in questo caso, di alterare la linea di canto in nome dell’espressività. La presenza teatrale è del tutto coerente con quella vocale: è un Enrico VIII che tradisce la meschinità delle emozioni che lo agitano muovendosi sul palco con un atteggiamento bieco ben poco regale e non disdegnando di alzare le mani su chi capita. Il Percy di Enea Scala sarebbe molto appropriato se la parte prevedesse solo la zona centrale del pentagramma, dove l’artista sfoggia un fraseggio di bella grana tenorile, nel quale sono presenti abbandono, languore, slancio romantico, quell’afflato lirico, insomma, in cui consiste il fascino di questi ruoli. Purtroppo la zona acuta, affrontata sempre di forza e a voce piena, viene guadagnata con una fatica che compromette la linea e non giova alla resa complessiva. La presenza in scena, però, è viva e spigliata, per cui agli occhi dello spettatore si presenta un Percy come lo si potrebbe immaginare. Anche questo conta. Ottimo, per la vocalità rotonda, nobile e di bel timbro, il Rochefort di William Corrò, mentre ha convinto meno l’Hervey di Luigi Morassi, dall’emissione spesso spinta in un canto che suona stentoreo e forzato. Il ruolo del coro, collocato da Pizzi sul fondo della scena a commentare la vicenda in decorativi tableaux vivant, è fondamentale in quest’opera e viene risolto al meglio, con un suono sempre pieno e compatto a tutti i livelli dinamici, dalla compagine del Teatro istruita da Alfonso Caiani, alla quale vengono giustamente riservati applausi scoscianti al termine dello spettacolo. Ma va detto che un successo pieno ha accolto alla fine della serale di venerdì 4 aprile tutti gli interpreti. Un vero e proprio trionfo, con l’omaggio tradizionale e gentile del mazzo di fiori, è toccato a Lidia Fridman, ma piena soddisfazione è stata riconosciuta a tutti gli altri, a cominciare dal maestro Renato Balsadonna, direttore e concertatore. Questi privilegia i momenti a maggiore intensità drammatica e quindi le sonorità forti e i colori scuri a scapito delle oasi liriche e sentimentali, con un approccio che risulta a tratti un po’ pesante o solo troppo spiccatamente verdiano, specie in alcuni accompagnamenti; una scelta che forse ha influito sullo stile dei cantanti e sul loro modo di affrontare i rispettivi ruoli, ma che va accettata nell’insieme come una delle tante, attendibili letture che si possono dare del capolavoro donizettiano. Adolfo Andrighetti

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Più pericoloso del PM 10, che ammorba la Pianura Padana in assenza di piogge dilavatrici, il PM 2.5, prodotto in alcuni cicli industriali (acciaierie, cementifici, ecc.) e deleterio soprattutto per l’apparato respiratorio, ha ora un’innovativa soluzione di contrasto “Made in Italy”: l’idea è della padovana Idrobase Group che, dopo aver lanciato il primo cannone sparanebbia a 120 bar per abbattere le polveri sottili, anticipa i competitor mondiali e propone la formula del noleggio a manutenzione programmata, iniziando da mercati più evoluti quali Giappone e Korea. «Il nostro obbiettivo è garantire costi certi predeterminati, azzerando il rischio di rotture e conseguenti fermi macchina – indica Bruno Ferrarese, co-Presidente dell’azienda di Borgoricco, di ritorno da una missione nel Far East – A questa nuova sfida commerciale stiamo facendo conseguire un’opportuna ristrutturazione della rete distributiva». Novità interessante di questa strategia è la prossima nascita di Idrobase Japan, sulla base delle analoghe esperienze in Korea e Francia; obiettivo primo è la commercializzazione dei cannoni sparanebbia in un Paese ad accresciuta sensibilità ambientalista. Più ambizioso è il target per Idrobase Korea dove, grazie alla strategia dell’efficienza costante, si punta al raddoppio del fatturato, guardando soprattutto ai cantieri edili ed all’industria dell’acciaio. E’ la manutenzione programmata, infine, l’asset, con cui Idrobase Group punta anche a consolidarsi sul mercato statunitense, dove è stata individuata una rete di distributori con l‘obiettivo di aumentare un fatturato, che oggi rappresenta il 5% di quello aziendale. «Ci impegniamo – precisa Ferrarese – a fornire un pacchetto completo per offrire massima garanzia al mercato: dai pezzi di ricambio ad ausilii per garantire efficienza costante, fino alla formazione del personale. L’usura delle macchine deve essere anticipata dalla costante manutenzione che, forti della nostra esperienza, siamo in grado di assicurare, unici al mondo». La partita, infatti, è molto importante, non solo in termini di business, per chi fa del “Respira Aria Sana” la propria filosofia d’impresa: basti pensare che le micropolveri PM 2.5, possono raggiungere i bronchi e perfino gli alveoli, entrando nel ciclo sanguigno e nelle cellule, aumentando sensibilmente il rischio di cancro a polmoni, intestino, colon e seno. Con lo stesso obiettivo, Idrobase Group è convinta promotrice con la trevigiana MVT – Mion Ventoltermica e la novarese Sibilia di “Safebreath.net”, la prima rete d’impresa italiana per l’abbattimento delle polveri sottili; il network operativo prosegue ed il marchio sarà presente in prossimi appuntamenti fieristici. Nell’head quarter italiano di Idrobase Group, infine, proseguono i lavori di ristrutturazione, seguiti al grave incendio dello scorso Luglio e la cui inaugurazione è già prevista esattamente ad un anno di distanza: già ora, però, i magazzini verticali sono saliti a 4 (3 per la logistica ed 1 per la produzione) per supportare il programmato aumento di fatturato 2023, indicato in +20%.

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