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LA BELLEZZA IMMACOLATA DI “ORFEO ED EURIDICE” DI GLUCK

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Approda, per il quinto anno al Centro Candiani di Mestre, il Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città, il cui cartellone veneziano è stato presentato dal Direttore Artistico, Andrea Vettoretti insieme a Paola Mar, Assessore alla Promozione del Territorio del Comune di Venezia; quest’ultima ha ringraziato per la grande qualità della proposta musicale, capace di reinterpretare i più diversi generi musicali. “E’ la caratteristica del New Classical World, il movimento musicale, cui è dedicata la rassegna: musicisti di estrazione classica, che però allargano gli orizzonti verso sonorità crossover, capaci di raccogliere tutte le musiche del mondo” ha precisato Vettoretti, che sarà protagonista del concerto conclusivo in calendario mercoledì 4 Dicembre nelle prestigiose Sale Apollinee del Teatro La Fenice, in occasione dell’anteprima del prossimo album del chitarrista e compositore trevigiano (“Il respiro dell’acqua”) in uscita nel 2025. Per quanto riguarda Mestre, sarà la chitarra battente di Giovanni Seneca, accompagnato dalla versatile voce e dalle percussioni di Anissa Gouizi, ad aprire venerdì 4 Ottobre (ore 21.00) la due giorni di concerti all’auditorium Candiani; si tratta di uno strumento tipico della tradizione del Sud Italia con un suono simile al clavicembalo. La serata partirà da queste sonorità per arrivare alla Spagna attraverso i Balcani, la Grecia, la Turchia ed il Maghreb. Novità di quest’anno è il concerto doppio del sabato sera. Il 5 Ottobre (ore 21.00), primo a salire sul palco sarà l’Elisir Duo (Andrea Candeli e Matteo Salerno) con un programma quantomai estroso, che dalle ballate irlandesi trasporterà il pubblico fino in Argentina con la rivisitazione di celebri tanghi. A seguire sarà, per la prima volta ospite del Festival, l’Exaudia Duo (Mitja Rezman – Vojko Vesligaj), che propone, dopo anni di collaborazione in vari gruppi, un programma tra classica, jazz ed etno music, affondando le radici nelle culture musicali araba, iberica e sudamericana. “Anche quest’anno – ha concluso il Direttore Artistico – portiamo al Candiani artisti in sintonia con il cuore pulsante della città metropolitana. Non è certo un caso che il Festival 2024 sia partito da Cavallino Treporti prima di approdare a Treviso ed ora nel comune di Venezia: la nostra è una proposta d’area per una musica senza confini.” I biglietti sono acquistabili al botteghino del Centro Candiani a Mestre; è consigliata la prenotazione gratuita, telefonando al numero dedicato 320 0517000 oppure inviando una email a: festival@musikrooms.com .
Cercare le ragioni in base alle quali vengono abbinate le opere nelle serate in cui i teatri presentano i cosiddetti dittici, rappresenta un esercizio intellettuale stimolante e non di rado produttivo di esiti culturalmente raffinati, ovviamente qualora tali ragioni non siano evidenti: ed è questo il caso della coppia di lavori in programma alla Fenice, composta da “La fabbrica illuminata” di Luigi Nono, di cui ricorre il centenario della nascita, e da “Erwartung” di Arnold Schönberg, di cui si ricordano i centocinquant’anni sempre della nascita. Lo stesso regista Daniele Abbado ammette che l’abbinamento lo ha stupito prima di suscitarne l’adesione entusiastica. Ed in effetti l’eterogeneità strutturale oltre che culturale dei due lavori è evidente. “La fabbrica illuminata” è un progetto fortemente politicizzato e all’epoca (prima rappresentazione alla Fenice il 15 settembre 1964 nell’ambito della Biennale Musica) d’avanguardia sotto i profili concettuale e tecnologico, con la musica che viene utilizzata per raccontare o meglio per denunciare la disumanità della vita in fabbrica. La struttura musicale, infatti, è composta con i suoni e le voci registrate su nastro magnetico nell’acciaieria di Cornigliano, un quartiere di Genova, e poi rielaborate nello Studio di Fonologia di Milano. “Erwartung”, composta nel 1909 ma rappresentata a Praga solo il 6 giugno 1924, è un monodramma segnato da un contesto culturale assolutamente diverso rispetto a quello ‘progressista’ degli anni sessanta: la psicoanalisi freudiana, sempre più diffusa e ben presente nella preparazione accademica dell’autrice del testo, Marie Pappenheim, si sposa con l’atonalità della partitura, per cui la frammentarietà del testo letterario si specchia in quella del tessuto sonoro e viceversa, a creare un’atmosfera di incertezza, di disagio, di angoscia. Per quanto riguarda “Erwartung”, è del tutto condivisibile quanto afferma Daniele Abbado circa la necessità di superarne l’interpretazione psicoanalitica, che mi sembra possa essere abbandonata per una visione per così dire simbolista, meno datata storicamente e quindi più universale; per cui il viaggio notturno della donna, tormentato come un incubo, potrebbe rappresentare non uno stato mentale patologico ma piuttosto la tensione di ogni essere umano verso un bene assoluto che rappresenti il significato ultimo della vita, cioè l’amore come sintesi e compimento di ogni valore esistenziale. Ma gli innumerevoli segni di terrore e di morte incontrati nel bosco notturno preludiano al crollo dell’ideale atteso e cercato, quando la donna scopre il cadavere dell’amato imbrattato di sangue e abbandonato nei pressi dell’abitazione della rivale. Questa conclusione, che annulla la speranza coltivata dalla donna di ricongiungersi all’unica ragione della propria vita, può essere letta come la risposta, disperata e nichilista, ad un’altra attesa, che va liberata dal contesto socio-politico datato in cui la confina Nono per essere trasportata su una dimensione esistenziale di respiro più ampio. I versi conclusivi di Pavese (“...passeranno le angosce/non sarà così sempre/ritroverai qualcosa”) ne “La fabbrica illuminata” sembrano rivolgersi alla donna di “Erwartung”, la quale, nella programmazione della Fenice, deve ancora intraprendere il cammino nel bosco, ed alimentare in lei una speranza che invece andrà in frantumi. Quel “qualcosa” che si promette alla donna di ritrovare, infatti, sarà solo un cadavere, per giunta il cadavere di un traditore; la morte di un essere umano ma, prima ancora, dell’ideale che in esso si incarnava. La nuova produzione in scena alla Fenice (regia Daniele Abbado, scene e luci Angelo Linzalata, costumi Giada Masi, movimenti coreografici Riccardo Micheletti) sceglie la strada dell’essenzialità, anzi della nudità, forse la più efficace per la messa in scena di entrambi i lavori, che rifiutano la dimensione della teatralità tradizionale per aprirsi verso mondi altri, centrati sulla componente concettuale piuttosto che su quella spettacolare. Il palcoscenico è quindi praticamente vuoto, anche a simboleggiare quella solitudine esistenziale che in fondo è cifra comune a Nono – ché l’alienazione del lavoro in fabbrica impedisce una vera comunicazione umana – e, in maniera ancora più evidente, a Schönberg, dove nulla rompe la bolla di dolore ed angoscia in cui è rinchiusa la donna. L’oscurità della scena raramente è rotta da luci improvvise quanto crude. La messinscena de “La fabbrica illuminata” è arricchita dalle proiezioni sul fondo di scene registrate a Cornigliano in un severo bianco e nero, mentre sul palco alcuni figuranti rappresentano le maestranze. In “Erwartung” ci troviamo davanti un mucchio di corpi umani, a rappresentare fisicamente, carnalmente, la morte dell’amato e quindi di ogni speranza della donna. Il regista, quindi, ci abbandona soli all’impatto straniante e straziante con l’universo drammatico e sonoro di Nono e Schönberg, che, in questo modo, colpisce direttamente e duramente il bersaglio senza mediazioni. Ecco allora, in Nono, una miscellanea di suoni ora laceranti, ora esplosivi, ora sussurrati, alternati a pause di silenzio che rappresentano un plenum di significato anziché un vuoto; un magma sul quale si appoggia la voce solista del soprano Sarah Maria Sun, impegnata in un declamato-parlato che la vede un po’ in difetto di sicurezza nonostante sia una specialista del repertorio contemporaneo; ma non si deve trascurare che l’artista sostituisce l’indisposta titolare del ruolo, Valentina Corò. Nell’insieme Nono fa vivere l’esperienza di un’atmosfera allucinata, surreale, che dalla quotidianità della fabbrica porta in un mondo più mentale che reale, nel quale la denuncia politica e sociale sembra assumere connotati astratti, quasi metafisici. Poi si viene avvolti dall’universo di Schönberg, un oceano sonoro ricchissimo nel quale si incontra ogni variazione dinamica e timbrica in corrispondenza dell’alternarsi degli stati psicologici della donna. È musica strettamente connessa alla drammaturgia, come evidenzia il maestro Jérémie Rhorer, che la dirige alla Fenice; musica, si sa, che suona come disarticolata, sospesa, non risolvendo mai e quindi abbandonando lo spettatore a sé stesso, alla solitudine di un ascolto angosciato in cui non può trovare sollievo; come la protagonista del pezzo, d’altra parte. Qui si impone il soprano USA Heidi Melton, perfettamente adatta ad incarnare la tragedia della donna per l’accento incisivo, imperativo, e per la pienezza, la compattezza e la proiezione del suono. Sul podio il maestro Jérémie Rhorer conduce in porto felicemente le due impegnative esecuzioni, soprattutto Schönberg, nel quale è assecondato da un’orchestra della Fenice in gran spolvero. Apprezzabile soprattutto la sensibilità con cui Rhorer sa evidenziare e valorizzare la ricchezza e la maestria dell’orchestrazione in “Erwartung”. Ne “La fabbrica illuminata”, invece, determinante l’apporto di uno storico regista del suono come Alvise Vidolin. Alla serale di giovedì 19 settembre teatro quasi gremito da un pubblico eterogeneo, che ha reagito alla proposta non facile con un consenso nel complesso soddisfacente. Adolfo Andrighetti
E’ stata l’inusuale location di Batteria Pisani, nel comune di Cavallino Treporti, ad ospitare l’anteprima del Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città (Treviso-Venezia), suggellando l’avvio di una nuova collaborazione per il Comune lagunare; il concerto “Quantum One” (versione solo strumentale dell’omonimo reading teatrale con Veronica Placido) ha sancito anche la conclusione della stagione musicale estiva, che ha confermato anche il valore acustico della fortezza, sede di un museo storico. Per l’occasione si è esibito il trio composto dalla violoncellista Riviera Lazeri, dal clarinettista Fabio Battistelli e dal chitarrista, nonchè compositore dei brani, Andrea Vettoretti, direttore artistico del Festival. Le esecuzioni del progetto musicale Q1 (da “Before” a “Blue Down”), dedicato all’Universo ed al futuro del nostro Pianeta, hanno riscosso i ripetuti applausi del pubblico, che ha occupato tutti i posti disponibili; scontati, quindi, i bis (“A11” e “Space Freedom”). Dopo l’anteprima sul litorale veneziano, il Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città si trasferirà nell’auditorium del museo Santa Caterina a Treviso dove, venerdì 27 Settembre si terrà l’atteso concerto del Carlos Pinana Group, dedicato a “flamenco y baile”. Nel frattempo, Andrea Vettoretti è atteso da un prestigioso concerto nell’ambito di “Divinazione Expo” in occasione del “G7 Agricoltura” a Siracusa; giovedì 26 Settembre, il chitarrista trevigiano si esibirà in una performance dal titolo “Il respiro dell’acqua”, anticipatrice del suoundicesimo lavoro discografico in uscita a fine anno.
E’ stato il C.U.S. Bergamo a vincere, per il secondo anno consecutivo, il trofeo di volley femminile San Giacomo dell’Orio, giunto alla 49° edizione e le cui finali si sono disputate sui tradizionali “masegni” del campo veneziano. Nel match decisivo le orobiche hanno sconfitto 2-1 le croate della formazione “United Students of Zagreb” in un incontro caratterizzato da fasi alterne e seguito da numeroso pubblico; per il terzo posto il C.U.S. L’Aquila ha superato 2-0 il C.U.S. Venezia, mentre il C.U.S. Bologna si è imposto sul C.U.S. Milano Bicocca per il quinto posto (2-1). Miglior giocatrice è stata eletta la croata Iva Pazin ed un riconoscimento è andato anche alla bergamasca Giada Zambelli, la più giovane del torneo. Al termine, in un clima di grande festa, si sono svolte le premiazioni; insieme al Presidente del C.U.S. Venezia, Massimo Zanotto, erano presenti, tra gli altri il ViceSindaco ed Assessore allo Sport, Andrea Tomaello e la Presidente del Consiglio del Comune di Venezia, Linda Damiano; il VicePresidente dell’European University Sport Association, Haris Pavletic; il VicePresidente di FederCusi, Claudio Bortoletti. “Il clima di amicizia respirato nei tre giorni del torneo è stato il modo migliore per iniziare le celebrazioni per i 75 anni del C.U.S. Venezia – afferma Massimo Zanotto - Un grazie a tutta l’organizzazione ed a quanti ci hanno supportato con un ringraziamento particolare all’Ente per il Diritto allo Studio Universitario, che ci ha garantito l’ospitalità negli studentati.” Il tradizionale appuntamento sportivo è stato organizzato dal C.U.S. Venezia con le Università cittadine Ca’ Foscari e IUAV, nonchè la collaborazione dell’Autorità Portuale, il sostegno dell’Istituto per il Credito Sportivo e Culturale; Regione Veneto e Comune Venezia hanno patrocinato l’evento.
Inizierà da Cavallino Treporti l’edizione n.22 del Festival delle Due Città (Treviso-Venezia) considerato tra le più importanti kermesse chitarristiche internazionali e punto di rifermento mondiale per il genere musicale “New Classical World”: la novità dell’ “Anteprima Festival” al Museo Batteria Vettor Pisani di Ca’ Savio è annunciata dal Direttore Artistico della manifestazione, Andrea Vettoretti, che nell’occasione si esibirà nel “Quantum One Trio” assieme alla violoncellista, Riviera Lazeri ed al clarinettista, Fabio Battistelli (domenica 22 Settembre, ore 17.00). Da venerdì 27 a domenica 29 Settembre il Festival delle Due Città rientrerà nella tradizionale sede del Museo di Santa Caterina a Treviso, dove proseguirà il suo percorso di ricerca nel mondo della musica “di contaminazione” (classica, “world” e “crossover”) con tre concerti, che vedranno impegnati 6 virtuosi delle “sei corde” e spazieranno dal flamenco alla musica armena nel segno comune dell’innovazione musicale. Domenica 29 Settembre tornerà nel trevigiano Museo di Santa Caterina anche la Mostra Internazionale della Liuteria, cui si affiancherà la novità del “Young Platform Concert” eseguito da 10 allievi di Conservatorio. Venerdì 4 e sabato 5 Ottobre il Festival delle Due Città proseguirà nell’auditorium del Centro Candiani a Mestre con due serate dedicate a musica mediterranea, irlandese ed “etno world”. Il cartellone, i cui protagonisti saranno annunciati nei prossimi giorni, si concluderà mercoledì 4 Dicembre con l’ormai tradizionale concerto nelle Sale Apollinee del Gran Teatro La Fenice: ad esibirsi sarà lo stesso Direttore Artistico della manifestazione, Andrea Vettoretti, che nell’occasione anticiperà alcuni brani del nuovo CD “Il Respiro dell’Acqua” in uscita a fine anno. Grazie a questo progetto, Andrea Vettoretti è stato inviato a tenere un concerto anche in occasione del vertice mondiale “G7 dell’Agricoltura”, in calendario a fine Settembre nella città di Siracusa. Il Festival delle Due Città si conferma così essere una delle manifestazioni più attente all’evoluzione musicale nel mondo, puntando l’attenzione su un nuovo modo di fare musica, che parte dal percorso classico ed arriva a tradizioni culturali diverse in un tessuto continuo di esperienze correlate e componibili.
Contro il caldo opprimente nulla possono né la diplomazia, né il potere bancario e così, se la calura estiva sarà più sopportabile a Ginevra, il merito è della visionaria creatività italiana, targata Idrobase Group: è, infatti, nata a Borgoricco, nel Padovano, la tecnologia delle “isole di freschezza & salubrità”, come pratica risposta di adattamento alla crisi climatica. Ne sono apparse inaspettatamente in una dozzina di siti urbani dell’importante città elvetica e l’ innovativa presenza sta richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale; a presentarle sul mercato è la consociata Idrobase France, perchè oltralpe, così come nel cantone francofono della Svizzera, sono presenti normative (una prevede la creazione di oasi refrigeranti, l’altra regolamenta la qualità dell’acqua nebulizzata), che impongono aree cittadine di benessere, dove potersi difendere da afa e caldo. “In Italia, di fronte alla crisi climatica – commenta amaramente Bruno Ferrarese, contitolare di Idrobase Group – si consiglia ad anziani e persone a rischio di frequentare i centri commerciali, perché ambienti condizionati. All’estero, invece, si assume il problema come una questione sociale, cui contrapporre soluzioni pubbliche di adattamento. La nostra filosofia del respirare aria sana ha precorso i tempi e siamo sicuri che, entro breve, altri Paesi seguiranno l’esempio di Francia e Svizzera.” La normativa franco-svizzera è per altro estremamente severa e solo dopo attenti controlli è stata scelta la soluzione “made in Veneto”. L’acqua diffusa nelle oasi rinfrescanti è infatti microfiltrata in modo da eliminare particelle, sali minerali, calcare, nonchè sterilizzata contro ogni genere di virus, batteri, spore ed è dotata della soluzione tecnologica per prevenire il formarsi della temuta legionella. “Il nostro sistema nebulizzante è modulabile su aree di svariate dimensioni, adattandosi ai progetti, che stanno adottando le diverse municipalità – precisa Bruno Gazzignato, l’altro contitolare di Idrobase Group - Quello, che assicuriamo sempre è la salubrità della soluzione, frutto della qualità made in Italy.” “Le tecnologie dell’acqua in pressione sono il nostro core business qui declinato sulle esigenze di benessere all’interno di una comunità urbana – conclude Bruno Ferrarese – Come sempre, è curioso che ad intuirne le potenzialità siano prima di tutto all’estero, anche perché respirare aria sana è da tempo la nostra la nostra filosofia aziendale e non è certo legata alle normative di questo o quel Paese, ma è il nostro obbiettivo verso la comunità tutta.”
“Cambiare il paradigma finora rappresentato dal rapporto fornitore – cliente: io produco e tu acquisti, io detto le regole e tu esegui, vendendo i miei prodotti; prima comperavano da noi italiani, poi sono arrivati i cinesi, ora c’è voglia di emancipazione imprenditoriale nel Nord Africa” afferma Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group e così, in linea con gli obbiettivi del “Piano Mattei”, l’azienda leader nelle tecnologie dell’acqua in pressione e del “respirare aria sana” ha iniziato i contatti per avviare nuove linee produttive in Algeria e Libia. Il modello di “business” scelto dal gruppo imprenditoriale di Borgoricco, nel padovano, è un’originale integrazione fra “produzione su licenza” e “franchising”: individuati partner locali, Idrobase li metterà in rete, demandando la produzione su licenza di parte dei suoi componenti, assemblati in loco con il “cuore tecnologico” in arrivo dall’headquarter veneto, realizzando così macchinari ad alta qualità tecnologica “made in Italy”, ma a prezzi conformi con il mercato locale, cui sono destinati. Oltre che sulla fornitura di macchinari, gli accordi di partnership interesseranno il “know how”, la fornitura di alcuni particolari sensibili e l’utilizzo del marchio Idrobase, la cui promozione resterà però in capo alla casa madre italiana. “La nostra è una logica diversa dalla delocalizzazione, che chiude linee produttive in Italia per aprirle, dove il lavoro costa meno – precisa Bruno Ferrarese – Noi puntiamo ad aumentare i posti di lavoro, creando nuove opportunità di emancipazione produttiva per economie in crescita, concentrandoci in Italia sul core business aziendale, nonché su ricerca e sviluppo di prodotto. Perseguendo quanto già tracciato da Enrico Mattei negli anni ’50, ciò garantirà sviluppo su entrambe le sponde del Mar Mediterraneo, creando i presupposti per un futuro di pace.” Prima ad essere interessata dalla nuova strategia aziendale è l’Algeria con l’obbiettivo di partnership locali nei settori delle idropulitrici, dei nebulizzatori e dei detergenti; per quest’ultimo settore si stanno verificando opportunità produttive anche in Libia. Conclude il contitolare di Idrobase Group: “Contestualmente alla ricerca di nuove possibilità di mercato, puntiamo a rafforzare la nostra presenza in Cina nel settore del car washing; al contempo stiamo operando per la crescita del network Idrobase nel mondo: consolidata la presenza in Francia ed in crescita quella in Spagna, stiamo ora puntando agli Stati Uniti. In un mercato in costante evoluzione, la nostra caravella del made in Italy continua così a solcare i mercati della globalizzazione, creando collaborazioni sia all’estero che in patria.”
Si può sollevare qualche perplessità – umile, sommessa, sia chiaro – su “Ariadne auf Naxos” di Richard Strauss? Oppure tutto ciò che è uscito dalla mente del compositore tedesco e del suo coautore, il poeta Hugo von Hofmannsthal, deve considerarsi geniale a prescindere, quasi che per questa coppia di (grandissimi) artisti dovesse applicarsi quella presunzione di valore assoluto che si nega a tutti gli altri, anche altrettanto grandi? Insomma, si può dire che la drammaturgia di “Ariadne auf Naxos” sa di artificioso, di costruito, seppure abilmente? Certo non ha aiutato la laboriosa genesi dell’opera, concepita prima per accompagnare delle rappresentazioni della commedia “Bourgeois gentilhomme” di Molière e poi rilanciata come spettacolo autonomo con l’aggiunta di un Prologo, voluto proprio per dare una giustificazione sul piano drammatico a quanto succedeva dopo. Che poi i due autori siano riusciti nell’intento è discutibile, in quanto l’interazione, nell’opera vera e propria, delle maschere della commedia dell’arte con i personaggi del mito greco non scorre fluida ma appare traballante come un tavolino zoppo, al quale il Prologo cerca di restituire un equilibrio spiegando i motivi di questa forzata commistione fra due mondi che rimangono inconciliabili. La trovata del teatro nel teatro, poi, in base alla quale “Ariadne auf Naxos” consta di un’opera che ne costituisce la seconda parte e di un Prologo che racconta i preparativi per metterla in scena, oltre a non essere così originale, appesantisce ulteriormente una drammaturgia di per sé già laboriosa ed involuta. Per cui la versione definitiva di “Ariadne auf Naxos” si presenta quel 4 ottobre 1916 a Vienna con una struttura teatrale talmente costruita, talmente pensata – c’è chi dice genialmente pensata e sia pure – da risultare cerebrale se non addirittura cervellotica. Poi si sa, il pasticcio, anche se aggiustato alla meglio, esce sempre dalle mani non di un cuoco qualunque ma di uno chef della cultura di Hofmannsthal, la cui alta classe lascia qua e là nel testo segni inconfondibili ed eloquenti. Basti pensare all’assolo in cui Zerbinetta confessa, a sé stessa prima che ad Arianna, il segreto della propria femminilità, dalla passionalità trepida, fragile e fedele a sé stessa nella frenetica giostra dei partners. Per quanto riguarda la musica, poi, è preferibile lasciare spazio all’autorevolezza di Franco Abbiati, che così si esprime: “Strauss escogitò innumerevoli ed anche mirabili immagini orchestrali, incise passaggi armonici e tocchi timbrici squisiti, elaborò di gran belle arie, modellò eccellenti recitativi...Ma non fu il suo che un esercizio di alta scuola, il traguardo di una perfezione senza palpiti” (Abbiati, Storia della musica). Lo spettacolo in scena alla Fenice è in coproduzione fra il Teatro veneziano e quelli di Bologna e Trieste, ove si è già visto negli anni scorsi. È una messinscena che rassicura e gratifica il pubblico per la linearità, la chiarezza narrativa, la solida professionalità e il sano buon senso. Che qualche volta, poi, si corra il rischio della convenzionalità un po’ trita e non sempre di gusto impeccabile, come nei movimenti delle Maschere in sincrono col ritmo musicale, è quasi inevitabile in un’impostazione di questo tipo, che privilegia la comprensibilità rispetto all’originalità, e che va comunque apprezzata nel suo insieme proprio perché ricorda che il teatro per sua natura è chiamato a entrare in comunicazione con gli spettatori (paganti) e non rappresenta un’esperienza autoreferenziale. Il regista Paul Curran, molto bene assecondato nella sua visione dell’opera da Gary McCann (scene e costumi) e da Howard Hudson (disegno luci), ambienta il Prologo nella vasta sala, elegante, moderna, bianca e luminosa, di un’abitazione patrizia, ove sono in corso i preparativi per una festa importante. Il via vai dei personaggi, che battibeccano e si rincorrono nella tipica confusione che precede un grande evento, è organizzato con la giusta vivacità ed animazione, in un disordine apparente di cui la sicura mano del regista sa tenere saldamente le fila. Qui è protagonista il baritono austriaco Markus Werba, ottimo artista di casa alla Fenice da diversi anni, che domina la parte del Maestro di musica con piena padronanza tecnica e vocale, anche se la declamazione può risultare talvolta fin troppo imperiosa, quasi stentorea. Apprezzabile, ma perfettibile, risulta Il Compositore del mezzosoprano sudafricano Sophie Harmsen, che affronta l’impegnativo personaggio con apprezzabile impegno ma possiede la sensibilità e i mezzi vocali per scendere più in profondità nell’animo di questo giovane singolare e idealista, ancora convinto che si possa scrivere musica solo per esprimere i valori della bellezza e della verità artistica, senza scendere a compromessi di bottega. In fondo è l’unico personaggio veramente puro di “Ariadne auf Naxos”, considerato che la stessa protagonista, pronta a morire dopo la partenza dell’amato Teseo, finisce per sostituirlo prontamente con Bacco, applicando, certo con più nobiltà ma con gli stessi risultati, la filosofia spensierata e libertina di Zerbinetta. Tutti gli altri, che affollano il divertente e multicolore palcoscenico del Prologo, sono ben calati nella parte e adeguati al ruolo, a cominciare dal tenore di Skopje ma italiano d’adozione Blagoj Nacoski, un Maestro di ballo dalla caratterizzazione gay non particolarmente originale ma eseguita con misura e professionalità. Del tutto pertinente all’azione e all’ambiente anche l’attore bolzanino Karl-Heinz Maceck, un habitué dei ruoli recitati nell’opera lirica, il cui Maggiordomo è, come si conviene, disinvolto, noncurante e impegnatissimo nell’adempimento scrupoloso degli ordini del suo misterioso ed onnipotente signore. L’Opera che segue al Prologo si apre nella suggestiva ambientazione di una sorta di teatrino barocco ricostruito all’interno del palazzo. Qui Arianna piange calde e inconsolabili (?) lacrime sul suo amore perduto, circondata da Najade, Driade ed Eco (rispettivamente il soprano Jasmin Delfs, il mezzosoprano Marie Seidler, il soprano Giulia Bolcato, tutte proprio brave nell’unire le loro voci in un ensemble armonioso e mestamente elegiaco). Il contesto scenico è quello che tradizionalmente viene riferito ad una rappresentazione del mito classico e anche i bei costumi, nel Prologo moderni e molto colorati, rispondono a questo cliché. Ma l’insieme possiede un indubbio fascino evocativo e si sposa alla perfezione con le eleganti frasi musicali messe in bocca ad Arianna. L’attenzione viene catturata dal formidabile soprano USA Sara Jakubiak, che sfoggia come Arianna una colonna sonora compatta ed omogenea senza un’incrinatura e una smagliatura, veramente regale nell’ampiezza e nella solidità, eppure pronta a flettersi nell’espressione di ogni sfumatura espressiva dal pianissimo al fortissimo. Se fosse possibile avanzare qualche riserva su un’organizzazione vocale di tale splendore, sarebbe il caso di chiedersi se gli estremi acuti, peraltro pieni e convincenti, non potrebbero essere ancora più squillanti e risonanti e soprattutto dare meno l’impressione di rappresentare qualcosa di ‘aggiunto’, seppure abilmente, al resto dell’esecuzione, qualora fossero ‘girati’ in modo diverso. Con l’irrompere delle maschere, cambia completamente l’atmosfera. Il teatrino barocco perde la propria ragion d’essere e sparisce dal palcoscenico, sostituito dalla vasta sala con alti finestroni già vista nel Prologo. Qui si esprimono al meglio Arlecchino (il sonoro e ben timbrato baritono zurighese Äneas Humm), Scaramuccio (il tenore di Monaco di Baviera Mathias Frey), Truffaldino (il basso-baritono Szymon Chojnacki), Brighella (il tenore Enrico Casari). Tutti vestiti nelle diverse tonalità del rosa in sintonia cromatica con le luci, danno vita a dei siparietti in parte convenzionali, come si è accennato, ma caratterizzati da un simpatico tocco surreale, eseguiti con correttezza vocale e disinvoltura scenica. E poi, se prima è Sara Jakubiak a dominare la scena come Arianna, qui è lo spettacolare soprano USA Erin Morley a richiamare su di sé ogni attenzione ed ogni applauso. La sua Zerbinetta è vivida, luminosa, sensuale in ogni espressione, padrona della tecnica vocale e della scena, pirotecnica nelle agilità ma sempre con un’espressività ed una pienezza di suono che fanno di tali agilità non una semplice prova di bravura ma uno strumento comunicativo di cui il personaggio si serve per raccontare sé stessa. Giunge il momento del grande duetto d’amore fra Bacco e Arianna, purtroppo privato della sua carica passionale da un’ambientazione scenica livida e raggelante. Anziché riproporre, per esempio, il riuscito teatrino barocco, che sarebbe stato la degna cornice di un amore raccontato dal mito, ritroviamo la consueta grande sala, del tutto spoglia e illuminata da luci grige, prive di vita e di energia. In questo contesto così nudo ed insignificante, il grande amore fra Bacco e Arianna sembra non sbocciare mai, ma restare affidato solo ad una finzione di atteggiamenti e di gesti; un amore solo enunciato, nonostante la musica, mai vissuto. Ritroviamo, naturalmente, la sublime, nobilissima Arianna di Sara Jakubiak, mentre il Bacco del tenore USA John Matthew Myers non è abbastanza seducente sia nella voce, dal timbro anonimo salvo quando si illumina negli acuti, sia nella presenza scenica. Alla fine un Bacco un po’ frigido ed incolore nell’espressione del trasporto amoroso, pur nella correttezza complessiva dell’esecuzione. Ma va anche riconosciuto che del ruolo, più che ingrato, non ricordo esecuzioni che non si prestassero, per una ragione o per l’altra, a mende e riserve. L’interpretazione musicale, affidata ad un’orchestra del Teatro La Fenice in ottima sintonia con quel repertorio e alla direzione e concertazione del maestro Markus Stenz, è apparsa del tutto soddisfacente nel dare vita sia ai momenti di maggiore ampiezza sinfonica sia a quelli ironici ed ammiccanti, così come nel sottolineare le raffinatezze timbriche di una partitura che, da questo punto di vista, è un’autentica delizia. Adolfo Andrighetti
Ha giocato in casa il compositore trevigiano e direttore del Festival delle Due Città Treviso-Venezia, Andrea Vettoretti, per presentare ad un pubblico selezionato, in occasione della Giornata della Musica, la prima esecuzione dal vivo di due brani, che comporranno il nuovo lavoro dedicato alle forme dell’acqua; per il “Fuori Festival”, col padrone di casa sul palco del giardino Musikrooms si sono esibiti il virtuoso della chitarra andalusa, Paco Seco ed il duo olandese NIHZ con un repertorio di musica ebraica. Vettoretti, che viaggia ormai sui 70.000 “streaming” mensili (una platea di assoluto rilievo per un chitarrista “crossover”), sta intanto riscuotendo apprezzamento per “El segreto del agua”, il secondo brano disponibile in rete ed in cui l’artista unisce la maestosità della musica classica con l’energia pulsante di quella techno. Pubblicato da Compagnia Nuove Indye, il nuovo singolo segue la diffusione del brano “La Bellezza del Ghiaccio”, lanciato in Aprile. Altri due singoli sono previsti entro la fine dell’anno, anticipando l’uscita del nuovo album. Lo spettacolo dal precedente concept-album “Quantum One” è tuttora in tour con l’attrice Violante Placido ed il Vettoretti Trio con Riviera Lazeri al violoncello e Fabio Battistelli al clarinetto. Altre info sul sito www.andreavettoretti.it .
Si ripete anche quest’anno l’appuntamento con la Festa della Musica nel Giardino Musikrooms, a Treviso; il cartellone nazionale 2024 ha per tema “La prima orchestra siamo noi” sotto l’egida di Commissione Europea, Ministero della Cultura, Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento per le Politiche Giovanili ed il Servizio Civile Universale). A partire dalle ore 20.00 di domani, in viale Pasteur 38, l’ “Anteprima Festival delle Due Città” presenterà il duo NIHZ con un repertorio di musica ebraica, il flamenco del chitarrista andaluso, Paco Seco ed il “New Classical World” del chitarrista trevigiano e padrone di casa, Andrea Vettoretti. Seguirà cena a buffet ed a lume di candela. Ingresso su prenotazione: festival@musikrooms.com Informazioni: www.musikrooms.com

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Torna alla Fenice “Orfeo ed Euridice” di Gluck e si riproduce l’atmosfera incantata e superna che promana da questo capolavoro, nel quale trova una realizzazione perfettamente compiuta sul piano artistico la riforma del melodramma voluta dal compositore insieme al suo librettista Ranieri de’ Calzabigi e diretta a proporre una drammaturgia musicale più vera, più essenziale, più corrispondente alla parola, rispetto all’esibizionismo esornativo e virtuosistico caratterizzante il gusto barocco. Alla Fenice è stata messa in scena la prima versione dell’opera, quella originale, rappresentata al teatro di corte di Vienna nel 1762 per l’onomastico dell’imperatore Francesco I. E, come si accennava, la magia di quest’opera, baciata dalla bellezza perfetta e purissima delle Muse, si è ricreata intangibile dopo due secoli e mezzo. Ciò si deve ad uno spettacolo pienamente riuscito ed appagante sotto ogni angolo visuale. Si potrebbe osservare che il risultato ottimale dell’insieme fosse prevedibile se non scontato, in considerazione del livello dei responsabili della parte musicale e di quella visiva, rispettivamente Ottavio Dantone come direttore e maestro al cembalo, e Pier Luigi Pizzi, artefice di regia, scene e costumi. Ma non è così, perché nel teatro in musica, dove componenti numerose ed eterogenee sono chiamate ad interagire fra loro, la riuscita complessiva di ciò che si offre al pubblico è legata ad alchimie raffinate la cui positiva combinazione non sempre avviene, o almeno non sempre come era lecito aspettarsi. È da accogliere dunque con pieno gradimento l’”Orfeo ed Euridice” proposto alla Fenice e così l’ha salutato il pubblico alla serale del 4 maggio, esprimendo la soddisfazione appagata di chi ha potuto assistere ad un progetto artistico riuscito sotto ogni aspetto e abbracciando almeno virtualmente, con un entusiasmo caloroso e commosso, il glorioso Pier Luigi Pizzi, apparso sul palcoscenico insieme agli altri artefici dello spettacolo. Ottavio Dantone ci regala, con la positiva collaborazione di un ensemble di ridotte dimensioni tratto dall’Orchestra del Teatro, una lettura vivida e sensibilissima della partitura, della quale nulla è smarrito strada facendo o trascurato, mentre viene restituita in tutta la sua malia fatta di tinte ora malinconiche ora corrusche, ora estatiche ora passionali, e soprattutto di una bellezza ineffabile che possiede le armoniose proporzioni dell’ideale classico. Ha ragione Pizzi, ancora una volta, quando, riferendosi a Dantone, afferma che definirlo specialista della musica antica è riduttivo, perché questa classificazione “fa pensare in qualche modo a un virtuosismo raggelato, e non è questo il caso. Ottavio è un artista vero, dotato di una grande sensibilità, capace di emozionare”. Ottimo anche il cast dei solisti, nel quale si fa apprezzare in modo particolare l’Orfeo del mezzosoprano Cecilia Molinari, per la perfetta corrispondenza del suo canto all’atmosfera ed allo stile tanto della partitura quanto della messinscena, entrambi improntati ad un neoclassicismo nobile, elegante ma tuttavia vibrante di passione. L’artista si impone non tanto per le qualità naturali dello strumento, anche se del tutto adeguato al repertorio, quanto per la dizione perfetta, l’emissione pulita, l’inappuntabile intonazione, soprattutto una ammirevole varietà di accenti e di tinte che permette di esprimere con grande comunicativa l’intera gamma dei sentimenti che vive Orfeo. La sua Euridice è il soprano Mary Bevan, dalla adeguata presenza scenica e dal canto intensamente lirico, in grado di esprimere con la giusta carica drammatica, pur senza mai smarrire l’aplomb richiesto dal contesto culturale cui l’opera appartiene, la passione di una donna innamorata fra l’acre delusione e la felicità del pieno appagamento. Brava come sempre Silvia Frigato, artista ben nota al pubblico veneziano, che è un Amore dalla vocalità fresca e scintillante, come si addice al dio che incarna la gioia e la restituisce per due volte, l’ultima definitivamente, ai due amanti del mito. Di grande rilievo nell’opera di Gluck è il ruolo del coro, tant’è vero che la regia lo vuole sempre sul proscenio, a commentare lo svolgersi dell’azione con la compostezza e la ieraticità della tragedia greca. Si fa apprezzare soprattutto la componente femminile, ma in particolare nell’apoteosi finale qualche disomogeneità si è sentita. Al maestro Alfonso Caiani il compito di sistemare ciò che ancora sembra non funzionare proprio a puntino. Pier Luigi Pizzi, di cui non dirò l’età perché l’illustre regista non ha bisogno di alcun tipo di affettuosa condiscendenza dovuta agli anni fino ad ora vissuti, continua con questo spettacolo quel percorso di sottrazione del superfluo e di ricerca dell’essenziale che egli stesso dichiara di aver intrapreso da un po’ di tempo. Nulla quindi si vede di esornativo, ma solo un’eleganza scabra, asciutta, che evoca e allude con una drammaticità che non perde di vigore ma sia fa anzi più incisiva, più impressionante, in forza della sobria linearità con cui è realizzata. Anche l’eliminazione di fatto dei balli corrisponde a questa concezione severa dello spettacolo, nel quale si vuole che il protagonista dell’azione drammatica sia la musica. In totale sintonia con questa impostazione sono i costumi, neri tranne quello di Euridice, mentre il coro è vestito con tuniche grigio scuro. Il primo atto si apre su di una nuda scena cimiteriale con alcune pietre tombali nere, mentre dei cipressi ed un albero scheletrito si stagliano sullo sfondo di un cielo ingombro di nubi tempestose. L’effetto è di un sapore preromantico, rafforzato anche dalla presenza di due figuranti che restano immobili appoggiati ad una tomba, a ricordare la postura, tragica ed enfatica insieme, di certi monumenti funebri che si vedono spesso nei camposanti. La sena degli inferi è caratterizzata da uno spettacolare incendio perenne che arde dietro una parete nera alta fino al soffitto, a simboleggiare, con la collaborazione di alcuni mimi, l’impossibilità metafisica più che materiale di varcare quelle soglie oscure. I Campi Elisi sono resi soprattutto attraverso una luce candida, quasi abbagliante (“Che puro ciel! Che chiaro sol!”), mentre sullo sfondo si apre un mare placido e trasparente dai tenui riflessi azzurrini. Il drammatico incontro tra Orfeo ed Euridice si svolge davanti ad una sorta di tunnel che si apre con un andamento a spirale verso il fondo illuminato, a rappresentare l’ardua prova che i due amanti devono affrontare prima di potersi riabbracciare. Ma, nel finale, ecco la sorpresa. Il giubilo generale che accompagna il ritrovarsi definitivo di Orfeo ed Euridice si esprime davanti alla raffigurazione della facciata esterna del Teatro La Fenice; perché, spiega Pizzi, in Euridice io vedo la Musica e come rappresentare il ritrovamento da parte di Orfeo del suo ideale e della sua ragione di vita, cioè appunto Euridice-Musica, se non mettendo in scena un teatro? Ma non un teatro qualsiasi, aggiunge Pizzi, bensì il “nostro Teatro”. Grazie, maestro, anche per questo atto di amore verso, appunto, il “nostro Teatro”. Adolfo Andrighetti

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