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“I DUE FOSCARI”: TORNA A VENEZIA L’OPERA PIU’ VENEZIANA

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Grande soddisfazione alla Canottieri Mestre per l’attribuzione di due benemerenze durante la recente cerimonia svoltasi nel municipio di Cavarzere per la consegna dei riconoscimenti C.O.N.I. a dirigenti, tecnici ed atleti della provincia di Venezia. Ad essere premiati sono stati Alberto Vianello, insignito della Stella al Merito Sportivo come dirigente e Paolo Carraro, che ha ricevuto la Palma di Bronzo al merito tecnico come allenatore. Ogni anno il C.O.N.I., rappresentato a Cavarzere dal Presidente regionale, Dino Ponchio e dal Delegato per la provincia di Venezia, Massimo Zanotto, vuole così premiare personaggi, che si sono particolarmente distinti durante la propria carriera agonistica, dedicando tempo e passione allo sviluppo della pratica sportiva.
E’ a poca distanza dall’Italia, è una porta naturale verso l’Africa, gode di maestranze ben istruite, infrastrutture e costi del lavoro adeguati ad un piano di sviluppo d’area: così la veneta Idrobase Group ha individuato l’Algeria come “head quarter” per il proprio sviluppo nel Continente Nero, considerato uno degli obbiettivi principali del 2025. L’azienda, che ha sede a Borgoricco nel Padovano, è leader nei settori delle tecnologie per l’utilizzo dell’acqua in pressione e del “respirare aria sana”, riconosciuta portabandiera del “made in Italy” nel mondo. “Anticipando i nuovi scenari mondiali, stiamo lavorando da tempo per riposizionare le nostre strategie internazionali. Pur ribadendo e volendo consolidare la nostra presenza sui mercati della Cina e degli U.S.A., abbiamo deciso di investire nel settore del cleaning anche in Africa, continente dalle enormi potenzialità, aggiungendo così un tassello in linea con il Piano Mattei, indicato dal Governo” indica Bruno Ferrarese, Contitolare di Idrobase Group. Le peculiarità della vastità delle terre africane necessitano, però, di prodotti adatti alle esigenze dei singoli mercati. “Per questo – aggiunge Bruno Gazzignato, anch’egli Contitolare della “multinazionale” tascabile padovana - abbiamo deciso di spostare parte delle produzioni dall’unità produttiva cinese di Idrobase Ningbo all’Algeria dove, grazie a partnership con imprenditori locali, saranno assemblate con componenti in arrivo dall’Italia, dando vita a prodotti di buona qualità, ma con un prezzo adeguato al mercato africano.” Non solo Africa, però, nel futuro di Idrobase Group: all’indomani dell’annuncio sull’accordo strategico Italia-Arabia Saudita, l’azienda veneta rende, infatti, noto che il primo appuntamento fieristico 2025 sarà a Riyad.
Ridurre del 40% il tempo-lavoro per dedicarlo alla formazione ed essere pronti alle sfide dell’innovazione come l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale per lo sviluppo di prodotti innovativi: è questo uno dei visionari scopi della riorganizzazione aziendale della padovana Idrobase Group, diventata un “caso scuola” per la valorizzazione del capitale umano, proprio mentre il diritto al lavoro torna drammaticamente d’attualità anche in Europa; è la via nippo-veneta all’applicazione della metodologia Lean-Toyota, oggetto di un recente approfondimento della CUOA Business School, uno dei più qualificati centri formativi in “management” italiani. Il percorso di trasformazione aziendale è iniziato nel II° semestre dell’anno scorso e terminerà nel 2026, interessando tutti i comparti dell’ “headquarter” a Borgoricco (acquisti, produzione, magazzino, commerciale, marketing, amministrativo, finanziario). “Abbiamo due obbiettivi dichiarati per migliorare la nostra competitività sui mercati mondiali, condizionati in questo momento di crisi da prodotti a basso costo e qualità: abbattere del 15% i prezzi nei nostri listini, mantenendo caratteristiche e servizio made in Italy; contestualmente migliorare le performance di prodotto e di processo, valorizzando la professionalità della forza lavoro - evidenzia Bruno Ferrarese, contitolare dell’impresa - I risultati si stanno vedendo ad iniziare dai reparti, dove il metodo Lean è in fase di implementazione: acquisti, magazzino, produzione. Ciò ci ha già permesso di ridurre i prezzi della linea Spara Nebbia, liberando contestualmente energie da dedicare alla crescita professionale.” La trasformazione più evidente è l’abbandono della tradizionale linea produttiva, dove ripetitivamente ciascuno svolge una mansione, in favore invece dell’ “oasi produttiva”, dove le fasi lavorative sono interamente seguite dallo stesso addetto. Non solo: l’organizzazione di ogni reparto è “work in progress” attraverso costanti confronti interni per individuare criticità e proporre soluzioni. “Siamo un’azienda in costante cambiamento con l’ambizione di trasformare il mercato - chiosa l’altro contitolare del gruppo, Bruno Gazzignato - Da sempre riteniamo che un grande valore di Idrobase sia la capacità di fare squadra come dimostrato anche dall’immediata ripresa a seguito del grave incendio di due anni fa: dopo la realizzazione degli uffici dove si respira aria sana, ora stiamo valorizzando ogni apporto d’esperienza. Vogliamo osare quello, che gli altri non fanno, per contribuire a cambiare il mondo.”
"Siamo una società egoista in cui cani e gatti prendono il posto dei figli”: il paradigma dell’egoismo umano citato da Papa Francesco qualche tempo fa ha fatto molto riflettere i segusinesi, tanto da farli convergere all'unanimità nel dedicare l'edizione 2024 del Presepio artistico all'importante tema della denatalità, fenomeno che affligge in particolare l'Italia da qualche decennio a questa parte. Affermano gli Amici del Presepio, soci onorari Argav: "Papa Francesco punta l’indice sulla negazione della genitorialità, affermando che la società contemporanea sta vivendo un inverno demografico un po’ dettato dall’egoismo, ma anche un po’ dettato (aggiungiamo noi) da situazioni economiche incerte che potrebbero far preferire ai figli, gli amici a quattro zampe; rischiando però di condannare la nostra società a restare orfana del futuro. Papa Francesco ha ribadito questo messaggio in occasione dell’Epifania di due anni fa, un messaggio che potrebbe apparire un po’ ironico, ma che a noi, Amici del Presepio di Segusino, ha fatto riflettere e ci ha portato indietro nel tempo agli anni 20-40 del Novecento: gli anni della fame, ma anche gli anni dove le famiglie erano numerose e dove non mancavano i figli. Quei figli che poi hanno dato vita allo sviluppo economico e alla crescita che oggi tutti noi, comodamente, viviamo". Genitori si diventa Continuano gli Amici del Presepio: "L’accontentarsi delle cucce piene lasciando le culle vuote, nonostante Papa Bergoglio affermi che “non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne padri o madri”, ci dovrebbe portare a ragionare sia sul come si può essere genitori (e non necessariamente si può esserlo solo biologicamente, e qui infatti il Papa cita l’adozione) ma anche il “come” lo si è. Padri e madri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui: nell’etica religiosa, laica e nella responsabilità, dove il tutto si esplicita in un atto di puro amore unito all’insegnamento dei valori della persona nella società. Nel Presepio di Segusino, edizione Natale 2024 ci sarà questo forte confronto: l’oggi e il ieri, il nuovo e il vecchio, le nuove famiglie ricche di cani e gatti e le grandi famiglie di un tempo ricche di bambini. Le cucce piene, le culle vuote e le culle quando erano piene; il tutto vicino a quella che è la nascita più importante: quella di Gesù. Senza ovviamente il voler giudicare nessuno (non è sicuramente nostro compito farlo), ma solo ed esclusivamente con la volontà di voler aprire uno spunto di riflessione. Informazioni per la visita Il Presepio Artistico di Segusino (Treviso), allestito come di consueto nella ex casa del Cappellano, in viale Italia 270, sarà aperto tutti i pomeriggi dalla notte di Natale fino al 2 febbraio 2025, e i giorni festivi anche al mattino, gli orari completi e tutte le informazioni si possono trovare sul sito internet www.presepiosegusino.it sui canali social Presepio Segusino, oppure telefonando al 334.3797867. L’entrata è libera. Alla scoperta dei presepi e dei borghi di Segusino Ritorna a Segusino anche l'iniziativa “Alla scoperta dei presepi e dei Borghi di Segusino” con vari presepi allestiti nei borghi e una serie di eventi (dettagli nel sito sopracitato e nei canali social Presepio Segusino).
E’ il sandonatese Lorenzo Furlan, Dirigente di “Veneto Agricoltura” ma soprattutto scienziato ed entomologo di fama internazionale, il Premio A.R.G.A.V. 2024, indicato dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Regionale Giornalisti Agroambientali di Veneto e Trentino Alto Adige fra le personalità che, con la loro attività, danno lustro alla regione. Il Premio sarà consegnato nel corso di una semplice cerimonia, che si terrà sabato 7 Dicembre prossimo, alle ore 12.00, nel salone del Ristorante Villa Contarini, a Monselice (Padova). Nell’occasione sarà anche attribuito un Premio speciale all’imprenditore vicentino, Remo Pedon, per i 40 anni dell’omonimo gruppo alimentare ed il suo impegno filantropico.
La stagione d’opera 2024-25 si inaugura alla Fenice con “Otello” di Verdi: diretto e concertato dal maestro sud-coreano Myung-Whun Chung, scelta sicura e vincente per diverse inaugurazioni del passato e sempre sottoscrivibile con convinzione, trattandosi, a mio modesto avviso, della bacchetta più emozionante e coinvolgente apparsa sui palcoscenici veneziani negli ultimi vent’anni insieme al compianto Jeffrey Tate; con Francesco Meli nel ruolo del titolo, un artista consapevole e tecnicamente ferratissimo la cui adeguatezza vocale per un ruolo così spinto rappresentava però per molti un punto interrogativo, considerato anche che non molti anni fa, sempre a Venezia, era un applaudito Conte d’Almaviva nel “Barbiere” rossiniano; e con la regia di Fabio Ceresa, il cui immaginario, per sua stessa ammissione, “si nutre di costumi grandiosi e maestose scenografie” e che, dopo averci divertito ed ammaliato in Vivaldi, era atteso alla prova con un mondo culturale affatto distante da quello barocco. I motivi di richiamo in questa prima della stagione, quindi, non mancavano e a cominciare dalla scelta stessa del titolo: un’opera imponente non per le dimensioni (non sono queste che fanno il capolavoro) ma per la carica drammatica che contiene e che sprigiona, creando un’atmosfera di tensione che a volte rimane sotto traccia, a volte esplode furiosamente, ma è sempre presente in maniera inquietante e dolorosa dal primo all’ultimo istante. Di questa tensione lancinante si è fatto interprete ideale il maestro Myung-Whun Chung, che ha trovato proprio nei passi più drammatici, se non addirittura tragici, l’estro più felice e la via di una comunicazione diretta e immediata con il pubblico: come nella travolgente, sconvolgente tempesta iniziale o, per portare un esempio opposto dal punto di vista dello scenario sonoro, la morte di Otello. Per il resto racconta da par suo, riuscendo persino a creare un’atmosfera colloquiale, quasi familiare, là dove, come nella scena Jago-Cassio del terzo atto, la tensione rimane latente. Ovazioni per il maestro a fine spettacolo, ben meritate non solo per la conduzione impeccabile della serata ma anche per quanto ha dato fino ad ora al teatro veneziano ed al suo pubblico in tanti indimenticabili spettacoli. Francesco Meli fa onore al principio che, quando si sa cantare, si può cantare tutto (o quasi). Il suo è un Otello vincente e convincente. La declamazione in zona centrale lo trova incisivo ed efficace e anche la salita all’acuto è sicura, salvo un paio di episodi alla fine marginali come nelle due puntature consecutive e di micidiale difficoltà che concludono il monologo del Secondo Atto “Ora e per sempre addio” sulle parole “Della gloria d’Otello è questo il fin” e il selvaggio “Gioia!!” (non per niente con due punti esclamativi nel libretto...) con cui Otello accoglie la notizia dell’arrivo di Cassio nel Terzo Atto. Risultano di alto livello artistico, per contro, il duetto d’amore del Primo Atto, soprattutto nella frase conclusiva “Già la pleiade ardente al mar discende...Vien...Venere splende”, la cui salita all’acuto in pianissimo è tecnicamente impervia mentre il nostro risolve alla grande; e la magistrale esecuzione del monologo del Terzo Atto, “Dio mi potevi scagliar tutti i mali”, nel quale Meli esprime tutta la stanchezza e la desolazione di Otello mentre guarda alla propria vita che sta piombando nel baratro dell’insignificanza. Dalla lettura che ne dà Meli, con uno strumento fondamentalmente lirico ma supportato da una impostazione impeccabile in cui il sostegno perfetto del fiato permette di dare piena risonanza e proiezione alle note, esce un Otello profondamente umano e quindi tanto più credibile. Certo, in alcuni momenti, come ad esempio nella scena della morte, la tragicità sconvolgente e, per così dire, cosmica, che echeggia in altre esecuzioni, è assente, e al suo posto si trova una sofferenza straziante, sì, ma personale, quasi borghese, non eroica. Ma si tratta di una lettura pienamente convincente, che non scende a patti con la partitura ma la interpreta entro i limiti e le possibilità (ampie, integrate anche dal bellissimo timbro) dello strumento. Lo Jago di Luca Micheletti è il più applaudito e in effetti non manca di nulla. Sa tutto quello che deve fare e lo fa proprio bene, in ogni momento, sostenuto da una voce salda ed omogenea in tutta la gamma, in grado di sfogare con sicurezza in acuto e capace di espressive (anche se non troppo frequenti) variazioni dinamiche. Eppure...Eppure, a causa forse di un’emissione un po’ ruvida, di un timbro che potrebbe essere più limpido, il personaggio risulta troppo sbilanciato verso il lato ‘vilain’, mentre sarebbe più completo se risultasse ancora più sottile, più insinuante, visto che lo stesso Verdi, nell’epistolario, raccomanda che sia raffigurato come una brava persona, affabile, rassicurante, affinché la sua perfidia risulti moltiplicata dall’ipocrisia con cui viene occultata. Ciò riesce molto bene all’artista nella presenza scenica, assolutamente disinvolta e convincente, meno nel canto. Il suo “Credo”, infatti, tanto per portare l’esempio più noto, suona giocato troppo sulla declamazione stentorea e troppo poco sulla sottigliezza degli accenti. La Desdemona del soprano sud-coreano Karah Son è difficilmente decifrabile. L’artista sa fare buon uso del proprio strumento, sa modulare, alleggerire e rinforzare, ma spesso sfoga in alto in modo brusco e con un vibrato fastidioso, mentre il suono dovrebbe aprirsi rotondo, dolce, seppure intenso. Se è vero che Desdemona è un angelo, come ci suggerisce anche il regista, va detto che un angelo, per quanto piagato da sofferenze terrene, non canta così, con un’emissione disomogenea e suoni spesso spigolosi, un timbro asprigno e centri talvolta come sordi, ovattati. Un angelo, insomma, deve trovare espressioni più morbide, più alate, più sublimi. Ed è un peccato, perché si capisce che le potenzialità non mancano. Così la canzone del Salce è ben modulata e altrettanto può dirsi dell’”Ave Maria”, eseguita con emissione raccolta e controllata. Ma la canzone si conclude con un brutto acuto finale filato sulla parola “amarlo”, né si può definire riuscito l’”Amen” con cui termina la preghiera. Il resto del cast è più che attendibile. Peccato solo che il Cassio di Francesco Marsiglia sia tanto fresco, luminoso, giovanile nel canto quanto impacciato sulla scena. Gli altri sono Enrico Casari (Roderigo), Francesco Milanese (Lodovico), William Corrò (Montano), Anna Malavasi (Emilia), l’artista del Coro Antonio Casagrande (Un araldo). E a proposito di Coro, diretto dal maestro Alfonso Caiani, non si può che lodarne senza riserve la prestazione, insieme ai sempre bravissimi Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio. Sul palcoscenico Fabio Ceresa torna a proporre, con esiti sempre felici, il proprio stile fantasioso ed immaginifico, coadiuvato da Massimo Checchetto (scene), Claudia Pernigotti (costumi), Fabio Barettin (luci), Sergio Metalli (video), Mattia Agatiello (movimenti coreografici). L’idea di base è quella di mettere in evidenza la venezianità della vicenda, che si svolge tutta all’ombra della Serenissima pur essendo geograficamente ambientata a Cipro, collocandola all’interno di un palazzo che si apre verso la platea con una trifora il cui stile e i cui decori richiamano quelli della Basilica di San Marco. La proposta dello stile bizantino, attraverso i mosaici, le dorature, le luci, non vuole ovviamente essere una riproduzione calligrafica di quel mondo, ma piuttosto, come spiega bene lo stesso regista che è il caso di citare, la traduzione del “concetto in immagine, perché l’immagine acquisti dignità di simbolo e si trasformi in uno strumento in grado di trasmettere significato e suscitare emozione”. I costumi, anch’essi dorati, contribuiscono alla ricreazione simbolica del gusto bizantino, evocando un’atmosfera ricca e luminosa che contrasta efficacemente con l’oscurità della tragedia che si consuma fra tanto splendore. All’interno di questa cornice i personaggi si muovono con accurata pertinenza rispetto alla situazione che vivono e a ciò che cantano. Desdemona, in particolare, è rappresentata in conformità ad un’iconografia mariana, accompagnata da creature angeliche e fatta agire sullo sfondo di cieli stellati, a sottolineare la sua natura di perfetta innocente all’interno di un mondo segnato dal peccato e dalla colpa. Un contributo non secondario all’efficacia del messaggio teatrale è dato dai bravissimi mimi, che rappresentano il Leone di San Marco, sempre presente accanto ad Otello quando costui è ancora padrone di sé stesso e del proprio ruolo, e l’Idra scura del male, che spinge le sue teste e le sue braccia verso Otello per soffocarlo secondo il diabolico disegno di Jago. Il leone, del resto, nell’opera di Verdi simboleggia sia la Serenissima sia lo stesso Otello; per cui, alla fine del terzo atto, quando Jago trafigge con la spada il mimo che rappresenta il Leone di San Marco, muoiono insieme Venezia e l’eroe che ne incarna la grandezza. Ma nel conflitto tra Leone e Idra, cioè fra bene e male, Ceresa sembra immaginare la vittoria di quest’ultima, con Jago che domina dall’alto, imperscrutabile e imperturbabile, l’agonia di Otello alla fine dell’opera. Un’osservazione conclusiva sulla scelta di presentare un Otello bianco, cioè non di colore. Ha ragione Ceresa quando la motiva col fatto che enfatizzare la componente razziale è riduttivo rispetto alla complessità dei sentimenti di Otello, che vanno oltre la questione del colore della pelle. Tuttavia questa opzione trascura un elemento importante della tragedia, che trae origine dal senso di inferiorità di Otello per la sua diversità etnica rispetto a quel mondo veneziano che pure l’ha accolto come un eroe e per la sua matura seriosità rispetto alla giovanile sfrontatezza di Cassio. Alla fine della serale di venerdì 29 novembre, il teatro gremito al massimo della capienza ha riservato agli artefici dello spettacolo un successo ai limiti dell’entusiasmo. Adolfo Andrighetti
E’ nato in Italia, grazie ad un’innovazione della padovana Idrobase Group, il nuovo “Fog box salute” per la nebulizzazione idrica, in grado di garantire non solo la massima salubrità dell’acqua attraverso filtri contro le impurità, nonchè la sterilizzazione anti virus, batteri e spore, ma anche, grazie ad un innovativo sistema, l’eliminazione delle condizioni per lo sviluppo della pericolosa legionella. La presentazione del nuovo macchinario è avvenuta al salone internazionale Ecomondo nell’ambito della Rete d’Impresa “Safebreath.net”, creata con la novarese Sibilia e la trevigiana Mion. La legionellosi viene normalmente acquisita per inalazione e per questo la pericolosità delle particelle d’acqua infettate è inversamente proporzionale alla loro dimensione: gocce piccole arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie; la malattia ha una letalità fra il 5% ed il 10% dei casi. La prevenzione delle infezioni da legionella si basa essenzialmente sulla corretta progettazione e realizzazione degli impianti tecnologici, che comportano la nebulizzazione e/o il riscaldamento dell’acqua. “Per chi, come noi, è leader nelle tecnologie dell’acqua in pressione, la salubrità della risorsa idrica è un dogma ed il nuovo nemico si chiama legionella - afferma Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group - Il ristagno d’acqua ne è veicolo di propagazione e per questo la nostra ricerca è impegnata ad abbatterne il rischio.” Finora solo quattro Stati (Francia, Spagna, Svizzera, Singapore) hanno normative stringenti in materia, ma all’Idrobase Group si guarda già al futuro nel rispetto del “claim” aziendale “Respira aria sana”. L’innovazione può trovare immediata applicazione in altre due novità presentate alla fiera riminese: i “fog makers” per l’abbattimento delle polveri in ambienti di lavoro “Elefante Silenzioso” che, a parità di prestazioni, riduce la rumorosità del 20% ed “Elefantino 2.0” che, più industrializzato rispetto alle versioni precedenti, “spara” aria con un incremento di potenza pari al 25%. “Possiamo dire – aggiunge Bruno Gazzignato, contitolare dell’azienda con sede a Borgoricco – che questi sono i primi risultati della riorganizzazione del processo produttivo interno, secondo la metodologia lean, passando dal concetto di linea di montaggio a quello di oasi produttiva, valorizzando la professionalità di ogni singolo addetto. L’effetto è un maggiore protagonismo dei lavoratori, che aumenta creatività ed efficienza produttiva, consentendo un abbattimento del 15% nei prezzi di listino, permettendoci maggiore competitività sui mercati della globalizzazione, pur mantenendo l’alta qualità del made in Italy.” L’apprezzamento del mercato è stato immediato, testimoniato anche dalla presenza alla fiera “Issa Clean Euarasia “ organizzata ad Istanbul in Turchia e che vede la presentazione dei nuovi kit Dolly per idropulitrici semiprofessionali.
“La vita è sogno”, il dramma seicentesco in versi di Pedro Calderόn de la Barca da cui è tratta l’omonima opera di Gian Francesco Malipiero, all’interno di un’ambientazione fiabesca ed arcana anticipa in qualche modo la ragione prima dell’angoscia esistenziale dell’uomo moderno: l’impossibilità, cioè, di trovare la consistenza della realtà e quindi di distinguerla dalla irrealtà, anche dal sogno, per cui la vita trascorre come all’interno di una bolla in cui dominano l’incertezza, la fluidità, lo smarrimento. L’opera di Malipiero, che ne scrisse anche il libretto, è fedele al dramma da cui è ricavata e ne ripropone l’assunto filosofico soprattutto nella figura del principe, il quale è incapace di capire se è realtà la torre in cui si trova rinchiuso oppure la reggia in cui si desta perché ricondottovi dal re suo padre, pentito di aver imprigionato il figlio solo perché infausti segni della natura confermati dagli oroscopi ne avevano accompagnato la nascita. Ma, di fronte alla reazione violenta del principe infuriato per una reclusione che non ha fine, il re lo avverte che forse è la stessa reggia ad essere un sogno, lo fa riaddormentare e lo riporta nella torre. Ma allora, che cos’è realtà? La prigione oppure la reggia? O forse entrambe si confondono come in una visione all’interno di una dimensione vaga, inconsistente, nella quale tutto e il contrario di tutto si sovrappongono e alla fine si annullano? Neppure l’amore, impersonato da Diana, riesce a restituire un ‘ubi consistam’ al povero principe, che si rivolge alla donna di cui è innamorato e ha compassione di lui dicendole di sentirsi ancora prigioniero del sogno. E anche quando la folla lo acclama e ne ottiene la liberazione, il suo stato di confusione rimane e lo fa sentire ancora prigioniero non più della torre ma di una dimensione di sogno che lo avviluppa. E anche se il lieto fine conclude la singolare vicenda attraverso la piena riconciliazione del principe con il re suo padre e di quest’ultimo con il figlio, rimane la sensazione inquietante di un’ambiguità di fondo che accomuna l’esperienza del principe a quella di ogni essere umano, che sarebbe incapace di vivere il reale come una presenza solida ed oggettiva, rispondente a principi fisici e morali certi ai quali potersi affidare. Così ci raccontano scrittori e poeti esistenzialisti quali Sartre ne “La nausea”, tanto per portare l’esempio forse più illustre ma certo più emblematico. L’eccellente nuova produzione in scena al Teatro Malibran rappresenta il giusto e doveroso omaggio che Venezia tributa ad un suo figlio illustre, Gian Francesco Malipiero, considerato uno dei più significativi compositori del secolo scorso, e, insieme, ad un suo lavoro ricco di musica e di dramma – e di musica perfettamente intonata al dramma – quale appunto “La vita è sogno”, che ritorna in laguna dopo un ingiustificato oblio durato ben ottant’anni da quella prima veneziana del 1944 che fece seguito alla prima assoluta all’Opernhaus di Breslavia del 30 giugno 1943. Come ogni tanto capita, infatti, si è realizzata questa volta una virtuosa ed equilibratissima sinergia fra i tre elementi costitutivi di una rappresentazione operistica: il prodotto della creatività del compositore, qui anche librettista, con la sua realizzazione teatrale e musicale, riuniti in un insieme organico dove le due componenti per così dire esecutive sembrano aiutarsi e sostenersi a vicenda nel cercare e alla fine trovare la chiave per aprire lo scrigno di note contenente la bellezza e il significato voluti dal compositore. Il tutto a beneficio del pubblico - destinatario ultimo e fondamentale di ogni proposta teatrale - al quale viene offerta una produzione che lo rispetta e lo coinvolge. Molto del merito di questa felicissima riuscita va a quello che spesso rappresenta l’anello debole o più discutibile della catena, cioè la regia. In questo caso Valentino Villa, coadiuvato al meglio da Massimo Checchetto per le scene, Elena Cicorella per i costumi, Fabio Barettin per le luci, Marco Angelilli per i movimenti coreografici, sceglie con lodevole umiltà, così rara fra i suoi colleghi, la strada di un’interpretazione semplice e pulita ma mai banale, che aiuta lo spettatore a entrare dentro un’opera ancora sconosciuta comprendendone al meglio le ragioni musicali, drammaturgiche e alla fine culturali. Lo spettacolo si avvale di una scenografia tanto essenziale quanto efficace ed evocativa, che si riduce a delle pareti incombenti, cupe e minacciose quando rappresentano la prigione in cui è rinchiuso il principe, soffuse di una luce dorata ma non per questo meno opprimenti quando la vicenda si trasferisce nella reggia. All’interno di questa cornice, in cui trova un’ambientazione perfettamente adeguata ed espressiva il pessimismo di cui è impregnata l’opera di Malipiero nonostante l’ambiguo lieto fine, si muove con assoluta pertinenza oltre che con ammirevole professionalità un cast di alto livello, aiutato nel compito dai bei costumi, che richiamano un seicento un po’ realistico e molto favolistico. Il vero protagonista è il principe straziato, sofferto, del tenore Leonardo Cortellazzi, che non trascura nulla di ciò che serve a definire l’indole inquieta ed inquietante del personaggio nel suo essere schiavo della confusione fra sogno e realtà di cui le catene che lo avvincono rappresentano un simbolo, offrendoci una caratterizzazione di assoluto rilievo. L’artista conferma per l’ennesima volta la sua preparazione e duttilità nell’affrontare, sempre con ottimi esiti, repertori e personaggi anche molto distanti. Qui, aiutato da una tessitura sostanzialmente centrale, brilla per l’intensità del declamato, che trova i momenti di maggiore verità umana ed artistica nell’alternanza frequente dell’invettiva violenta alle frasi sussurrate dolcemente in pianissimo, quasi in una sorta di mesta rassegnazione ad un destino troppo pesante per essere stornato. Gli altri gli fanno da contorno, seppure con ottima riuscita: la Diana veemente, appassionata, di Veronica Simeoni, che risolve in maniera più che apprezzabile, grazie ad un’emissione limpida e sicura e ad uno strumento omogeneo e sonoro, una parte dalla tessitura fin troppo acuta per un mezzosoprano; il solenne, ieratico e un po’ stordito re del basso Riccardo Zanellato, che mette a disposizione la propria imponente presenza scenica e la propria voce dal bel timbro scuro e dalla morbida emissione ad un personaggio in fondo pavido e superstizioso, nel quale le paure indotte da equivoci presagi hanno la meglio su uno dei più intensi fra i sentimenti umani, l’amore paterno; il Clotaldo, più cortigiano che carceriere, ben caratterizzato vocalmente e scenicamente dal baritono Simone Alberghini, il quale ci offre un personaggio che fa del principe la propria vittima perché anch’egli è a suo modo una vittima, della fedeltà assoluta dovuta al re e al sistema di cui è parte integrante. Più o meno adeguati, nei ruoli di contorno, Francesca Gerbasi (Estrella), Levent Bakirci (don Arias e uno della folla) e Enrico Di Geronimo (un servo di Diana e uno scudiero del re). Fondamentale il ruolo del coro, sia nell’intonazione precisa e suggestiva dei madrigali che impreziosiscono la vita raffinata della reggia, sia nell’imponente compattezza sonora con cui interpreta la folla che acclama il principe e lo vuole definitivamente libero e a capo del suo popolo; ben meritati gli applausi che lo salutano al termine dello spettacolo insieme al maestro Alfonso Caiani. Tutto questo è reso possibile dalla presenza sul podio del maestro Francesco Lanzillotta, che offre allo spettatore un’esperienza rara immergendolo nel mondo di Malipiero, costituito in quest’opera da un tessuto sonoro di raffinata elaborazione strumentale e insieme di straordinaria aderenza al nucleo drammatico della vicenda; in Britten è dato incontrare, lo scorso secolo, una tale corrispondenza fra musica e parola, per cui il suono si esalta nel suo mettersi al servizio del dramma e quest’ultimo si arricchisce di un valore emotivo altrimenti impossibile. La rappresentazione di giovedì 7 novembre è stata salutata da un successo vivo e cordiale. Adolfo Andrighetti
Approda, per il quinto anno al Centro Candiani di Mestre, il Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città, il cui cartellone veneziano è stato presentato dal Direttore Artistico, Andrea Vettoretti insieme a Paola Mar, Assessore alla Promozione del Territorio del Comune di Venezia; quest’ultima ha ringraziato per la grande qualità della proposta musicale, capace di reinterpretare i più diversi generi musicali. “E’ la caratteristica del New Classical World, il movimento musicale, cui è dedicata la rassegna: musicisti di estrazione classica, che però allargano gli orizzonti verso sonorità crossover, capaci di raccogliere tutte le musiche del mondo” ha precisato Vettoretti, che sarà protagonista del concerto conclusivo in calendario mercoledì 4 Dicembre nelle prestigiose Sale Apollinee del Teatro La Fenice, in occasione dell’anteprima del prossimo album del chitarrista e compositore trevigiano (“Il respiro dell’acqua”) in uscita nel 2025. Per quanto riguarda Mestre, sarà la chitarra battente di Giovanni Seneca, accompagnato dalla versatile voce e dalle percussioni di Anissa Gouizi, ad aprire venerdì 4 Ottobre (ore 21.00) la due giorni di concerti all’auditorium Candiani; si tratta di uno strumento tipico della tradizione del Sud Italia con un suono simile al clavicembalo. La serata partirà da queste sonorità per arrivare alla Spagna attraverso i Balcani, la Grecia, la Turchia ed il Maghreb. Novità di quest’anno è il concerto doppio del sabato sera. Il 5 Ottobre (ore 21.00), primo a salire sul palco sarà l’Elisir Duo (Andrea Candeli e Matteo Salerno) con un programma quantomai estroso, che dalle ballate irlandesi trasporterà il pubblico fino in Argentina con la rivisitazione di celebri tanghi. A seguire sarà, per la prima volta ospite del Festival, l’Exaudia Duo (Mitja Rezman – Vojko Vesligaj), che propone, dopo anni di collaborazione in vari gruppi, un programma tra classica, jazz ed etno music, affondando le radici nelle culture musicali araba, iberica e sudamericana. “Anche quest’anno – ha concluso il Direttore Artistico – portiamo al Candiani artisti in sintonia con il cuore pulsante della città metropolitana. Non è certo un caso che il Festival 2024 sia partito da Cavallino Treporti prima di approdare a Treviso ed ora nel comune di Venezia: la nostra è una proposta d’area per una musica senza confini.” I biglietti sono acquistabili al botteghino del Centro Candiani a Mestre; è consigliata la prenotazione gratuita, telefonando al numero dedicato 320 0517000 oppure inviando una email a: festival@musikrooms.com .
Cercare le ragioni in base alle quali vengono abbinate le opere nelle serate in cui i teatri presentano i cosiddetti dittici, rappresenta un esercizio intellettuale stimolante e non di rado produttivo di esiti culturalmente raffinati, ovviamente qualora tali ragioni non siano evidenti: ed è questo il caso della coppia di lavori in programma alla Fenice, composta da “La fabbrica illuminata” di Luigi Nono, di cui ricorre il centenario della nascita, e da “Erwartung” di Arnold Schönberg, di cui si ricordano i centocinquant’anni sempre della nascita. Lo stesso regista Daniele Abbado ammette che l’abbinamento lo ha stupito prima di suscitarne l’adesione entusiastica. Ed in effetti l’eterogeneità strutturale oltre che culturale dei due lavori è evidente. “La fabbrica illuminata” è un progetto fortemente politicizzato e all’epoca (prima rappresentazione alla Fenice il 15 settembre 1964 nell’ambito della Biennale Musica) d’avanguardia sotto i profili concettuale e tecnologico, con la musica che viene utilizzata per raccontare o meglio per denunciare la disumanità della vita in fabbrica. La struttura musicale, infatti, è composta con i suoni e le voci registrate su nastro magnetico nell’acciaieria di Cornigliano, un quartiere di Genova, e poi rielaborate nello Studio di Fonologia di Milano. “Erwartung”, composta nel 1909 ma rappresentata a Praga solo il 6 giugno 1924, è un monodramma segnato da un contesto culturale assolutamente diverso rispetto a quello ‘progressista’ degli anni sessanta: la psicoanalisi freudiana, sempre più diffusa e ben presente nella preparazione accademica dell’autrice del testo, Marie Pappenheim, si sposa con l’atonalità della partitura, per cui la frammentarietà del testo letterario si specchia in quella del tessuto sonoro e viceversa, a creare un’atmosfera di incertezza, di disagio, di angoscia. Per quanto riguarda “Erwartung”, è del tutto condivisibile quanto afferma Daniele Abbado circa la necessità di superarne l’interpretazione psicoanalitica, che mi sembra possa essere abbandonata per una visione per così dire simbolista, meno datata storicamente e quindi più universale; per cui il viaggio notturno della donna, tormentato come un incubo, potrebbe rappresentare non uno stato mentale patologico ma piuttosto la tensione di ogni essere umano verso un bene assoluto che rappresenti il significato ultimo della vita, cioè l’amore come sintesi e compimento di ogni valore esistenziale. Ma gli innumerevoli segni di terrore e di morte incontrati nel bosco notturno preludiano al crollo dell’ideale atteso e cercato, quando la donna scopre il cadavere dell’amato imbrattato di sangue e abbandonato nei pressi dell’abitazione della rivale. Questa conclusione, che annulla la speranza coltivata dalla donna di ricongiungersi all’unica ragione della propria vita, può essere letta come la risposta, disperata e nichilista, ad un’altra attesa, che va liberata dal contesto socio-politico datato in cui la confina Nono per essere trasportata su una dimensione esistenziale di respiro più ampio. I versi conclusivi di Pavese (“...passeranno le angosce/non sarà così sempre/ritroverai qualcosa”) ne “La fabbrica illuminata” sembrano rivolgersi alla donna di “Erwartung”, la quale, nella programmazione della Fenice, deve ancora intraprendere il cammino nel bosco, ed alimentare in lei una speranza che invece andrà in frantumi. Quel “qualcosa” che si promette alla donna di ritrovare, infatti, sarà solo un cadavere, per giunta il cadavere di un traditore; la morte di un essere umano ma, prima ancora, dell’ideale che in esso si incarnava. La nuova produzione in scena alla Fenice (regia Daniele Abbado, scene e luci Angelo Linzalata, costumi Giada Masi, movimenti coreografici Riccardo Micheletti) sceglie la strada dell’essenzialità, anzi della nudità, forse la più efficace per la messa in scena di entrambi i lavori, che rifiutano la dimensione della teatralità tradizionale per aprirsi verso mondi altri, centrati sulla componente concettuale piuttosto che su quella spettacolare. Il palcoscenico è quindi praticamente vuoto, anche a simboleggiare quella solitudine esistenziale che in fondo è cifra comune a Nono – ché l’alienazione del lavoro in fabbrica impedisce una vera comunicazione umana – e, in maniera ancora più evidente, a Schönberg, dove nulla rompe la bolla di dolore ed angoscia in cui è rinchiusa la donna. L’oscurità della scena raramente è rotta da luci improvvise quanto crude. La messinscena de “La fabbrica illuminata” è arricchita dalle proiezioni sul fondo di scene registrate a Cornigliano in un severo bianco e nero, mentre sul palco alcuni figuranti rappresentano le maestranze. In “Erwartung” ci troviamo davanti un mucchio di corpi umani, a rappresentare fisicamente, carnalmente, la morte dell’amato e quindi di ogni speranza della donna. Il regista, quindi, ci abbandona soli all’impatto straniante e straziante con l’universo drammatico e sonoro di Nono e Schönberg, che, in questo modo, colpisce direttamente e duramente il bersaglio senza mediazioni. Ecco allora, in Nono, una miscellanea di suoni ora laceranti, ora esplosivi, ora sussurrati, alternati a pause di silenzio che rappresentano un plenum di significato anziché un vuoto; un magma sul quale si appoggia la voce solista del soprano Sarah Maria Sun, impegnata in un declamato-parlato che la vede un po’ in difetto di sicurezza nonostante sia una specialista del repertorio contemporaneo; ma non si deve trascurare che l’artista sostituisce l’indisposta titolare del ruolo, Valentina Corò. Nell’insieme Nono fa vivere l’esperienza di un’atmosfera allucinata, surreale, che dalla quotidianità della fabbrica porta in un mondo più mentale che reale, nel quale la denuncia politica e sociale sembra assumere connotati astratti, quasi metafisici. Poi si viene avvolti dall’universo di Schönberg, un oceano sonoro ricchissimo nel quale si incontra ogni variazione dinamica e timbrica in corrispondenza dell’alternarsi degli stati psicologici della donna. È musica strettamente connessa alla drammaturgia, come evidenzia il maestro Jérémie Rhorer, che la dirige alla Fenice; musica, si sa, che suona come disarticolata, sospesa, non risolvendo mai e quindi abbandonando lo spettatore a sé stesso, alla solitudine di un ascolto angosciato in cui non può trovare sollievo; come la protagonista del pezzo, d’altra parte. Qui si impone il soprano USA Heidi Melton, perfettamente adatta ad incarnare la tragedia della donna per l’accento incisivo, imperativo, e per la pienezza, la compattezza e la proiezione del suono. Sul podio il maestro Jérémie Rhorer conduce in porto felicemente le due impegnative esecuzioni, soprattutto Schönberg, nel quale è assecondato da un’orchestra della Fenice in gran spolvero. Apprezzabile soprattutto la sensibilità con cui Rhorer sa evidenziare e valorizzare la ricchezza e la maestria dell’orchestrazione in “Erwartung”. Ne “La fabbrica illuminata”, invece, determinante l’apporto di uno storico regista del suono come Alvise Vidolin. Alla serale di giovedì 19 settembre teatro quasi gremito da un pubblico eterogeneo, che ha reagito alla proposta non facile con un consenso nel complesso soddisfacente. Adolfo Andrighetti

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Venezia: città magica e reale, per secoli potenza economica e militare dominatrice del Mar Mediterraneo e insieme centro di una vita animatissima e non di rado libertina, repubblica oligarchica dalle rigide e severe strutture istituzionali ma anche luogo “altro”, emergente dall’acqua come un miraggio della Fata Morgana, meta di viaggi, desideri, fantasie. Venezia, insomma, irripetibile palcoscenico spalancato sulla laguna, cornice da favola all’interno della quale la realtà si è sempre manifestata anche in tutta la sua crudezza, non poteva non affascinare il teatro in musica: questa straordinaria scatola magica che si apre su ogni possibile meraviglia, ma che, nella sua assoluta eppure simbolica incongruenza, da sempre racconta – o sarebbe più appropriato dire “canta” – chi è l’essere umano, cosa desidera e perché soffre. Le opere ambientate in tutto o in parte a Venezia, quindi, non sono poche. A parte le commedie goldoniane dei veneziani Francesco Malipiero e Ermanno Wolf Ferrari, sarà il caso di ricordare almeno, citando a memoria, “Marin Faliero” di Donizetti, “Attila” di Verdi, in cui si mette in scena addirittura la fondazione della città, “La Gioconda” di Ponchielli, diverse altre ambientate in parte a Venezia e in parte altrove. All’interno di questa categoria di opere “lagunari”, un posto particolare è occupato da “I due Foscari”. In effetti l’originalità dell’opera di Verdi – libretto del muranese Francesco Maria Piave dall’omonimo dramma di Lord Byron, prima rappresentazione al Teatro Argentina di Roma il 3 novembre 1844 – risiede nel fatto di trarre ispirazione non dall’atmosfera misteriosa e sospesa che circonda Venezia, ma dal suo sistema politico di impostazione aristocratica, pronto a chiudersi come una tenaglia sia a difesa di sé stesso sia per schiacciare il presunto elemento disgregatore, che può mettere a rischio l’assetto costituito. La trama, tutt’altro che banale nonostante le apparenze, mette in contrasto un potere collettivo ed anonimo, incarnato dal Consiglio dei Dieci che è espressione dell’aristocrazia dominante, e un potere individuale e personale, quello del Doge Francesco Foscari. Nel sistema politico veneziano, che non è monocratico e nel quale il Doge non può esercitare un’autorità autonoma rispetto a quella della nobiltà da cui proviene, il conflitto non può che risolversi a favore del Consiglio dei Dieci: ne va della sopravvivenza stessa della Serenissima, alla cui gloria secolare può ben esser sacrificato un solo individuo, per quanto figlio di Doge, cioè Jacopo Foscari, e poi il Doge stesso. L’opera, inoltre, costituisce un fecondo laboratorio in cui Verdi si esercita su due temi particolarmente vicini alla sua sensibilità e che conosceranno memorabili sviluppi futuri: quello della paternità drammaticamente sofferta e provata, e quello del conflitto tra affetti privati e ragion di Stato. Per riportare “I due Foscari” nella sua cornice naturale, quella di Venezia e quindi della Fenice, dopo un’assenza che durava dal 1977, si è scelta una produzione proveniente dal Maggio Musicale Fiorentino, a firma Grischa Asagaroff (regia), Luigi Perego (scene e costumi), Valerio Tiberi (luci), Cristiano Colangelo (coreografie). Ma non valeva la pena aspettare così a lungo per poi trovarsi di fronte un allestimento così scialbo ed anonimo, privo di appeal sul piano estetico e di contenuti significativi sul piano della proposta culturale. L’idea di collocare al centro del palcoscenico una sorta di torre che si rifà al monumento del doge Francesco Foscari nella basilica dei Frari, una struttura che ruota su sé stessa spinta da dei mimi per accompagnare il variare delle situazioni, non basta a conferire vitalità all’allestimento. Nonostante le rotazioni, infatti, la torre presenta sempre facciate monotone, insignificanti, che nell’ultimo atto la proiezione di prima uno e poi tre leoni di San Marco non riesce a vivificare. I costumi, d’epoca anche se semplificati, sono almeno dignitosi, se si eccettua la trovata, cervellotica e alla fine ridicola, di mascherare nel III atto Loredano, Barbarigo e i notabili veneziani con il tipico ferro da gondola, il dolfin, che viene inalberato sulla sommità del cranio forse come un orgoglioso simbolo di identità. Le coreografie, pulite ma nell’insieme insignificanti, sembrano adeguarsi al generale tono dello spettacolo, al quale ciò che manca, alla fine, è un progetto registico chiaro ed originale. I solisti sembrano abbandonati a sé stessi e alla loro iniziativa personale, mentre il coro brilla per staticità. Andiamo decisamente meglio sul piano musicale. Sebastiano Rolli si getta a capofitto nella partitura, vivendola e facendocela vivere fino in fondo, anche se talvolta con qualche eccessivo turgore sonoro, ma elettrizzando sempre negli accompagnamenti. Belle anche le variazioni nei “da capo” delle cabalette. Il doge Francesco Foscari è Luca Salsi, esemplare in primo luogo per la convinzione e l’impegno con cui si cala nel personaggio, di cui fa rivivere tutta l’impotente grandezza. Ma ad un risultato di così intenso spessore drammatico si può arrivare solo grazie ad u dominio totale della parola scenica, della quale viene restituita ogni sfumatura, ogni declinazione emotiva, mentre il suono rimane rotondo, pieno, ben appoggiato. Ne esce un doge imponente e grandioso proprio perché l’artista ne sa restituire, prima di tutto attraverso il canto ma anche la carismatica presenza scenica, la dimensione umana, costituita dalla drammatica consapevolezza di ciò che rappresenta l’autorità dogale nel contrasto fra il suo prestigio e la sua stessa impotenza di fronte alla sofferenza degli affetti più cari. Il figlio del doge Foscari, l’infelice Jacopo, è impersonato da Francesco Meli, che incontro sempre con gioia alla Fenice. La sua voce, infatti, di squisita fragranza tenorile e di un impasto di rara bellezza timbrica, è manovrata con un’ammirevole perizia tecnica, che trova il suo fondamento nell’ottimale uso dei fiati. Se ne giova l’espressività del canto, che viene smorzato e rinforzato a piacere giungendo addirittura ad una messa di voce nel bellissimo recitativo che introduce l’aria di ingresso: una finezza non riuscita fino in fondo a causa di un impercettibile arrochimento nel diminuendo di ritorno, ma comunque da apprezzare perché dimostra come la preparazione vocale possa essere messa al servizio di una più puntuale definizione drammatica del personaggio, in questo caso un eroe romantico che trova in un’esecuzione vocale variata, dolce e virile insieme come quella di Meli, il suo più fedele biglietto da visita. Grazie all’impostazione ottimale, quindi, il canto dell’artista si espande libero, ampio, bello in maniera struggente come deve esserlo appunto quello di un eroe innocente, infelice e perseguitato. E pazienza se gli acuti, peraltro non frequenti in questa parte, suonano come sempre un po’ tesi, un po’ forzati, anche un po’ aperti nel tentativo di renderli il più possibile risonanti e forse anche come conseguenza dell’ingrossamento dei centri richiesto dalla necessità di reggere l’intensità del fraseggio verdiano: il canto di Francesco Meli, un canto screziato di nostalgia, di sofferenza, di rabbia, è quello di Jacopo Foscari. Si può domandare di più? La Lucrezia Contarini di Anastasia Bartoli possiede un impeto ed una carica emotiva incontenibili, rafforzati da una presenza scenica da dominatrice e dall’attraente figura. Il materiale vocale è di primordine per robustezza e resistenza e le consente un canto sempre incisivo, imperativo, capace di portarsi via il pubblico trascinandolo all’entusiasmo. Anche le agilità di forza e i passi più esposti, che la parte assai impegnativa richiede, sono risolti con una sicurezza ed uno slancio ammirevoli. Tuttavia l’emissione sembra mantenere qualcosa di poco fluido, di artefatto, che rimane finché la voce non sfoga nell’acuto di forza, sempre risolutivo per la penetrante sonorità. Rimane, insomma, l’impressione di una voce che fatica a riposare su sonorità morbide, liriche, estatiche, che pure sono richieste nel repertorio romantico, mentre viene spinta di preferenza in un canto teso ed aggressivo, quindi alla lunga poco vario. Eccellente, per il bel colore e la pienezza del timbro ma anche per la padronanza dello strumento, lo Jacopo Loredano di Riccardo Fassi, un artista sempre più apprezzato che farebbe piacere vedere e sentire in ruoli più impegnativi. Da sottolineare anche l’efficacia della sua presenza in palcoscenico: quasi sempre immobile, riesce però a far arrivare agli spettatori l’impressione netta di quella gelida indifferenza, di quella superiorità sprezzante, che contraddistinguono l’atteggiamento del perfido Loredano verso le sofferenze degli odiati Foscari. Affidabile, efficace, convincente come sempre il tenore Marcello Nardis come Barbarigo. E a posto anche la Pisana del mezzosoprano Carlotta Vichi. Resta da dire del coro, diretto da Alfonso Caiani, e qui ascoltato in una delle sue prove migliori per compattezza, sonorità ma anche per la capacità di modulare il suono quando necessario. Al termine della serale di giovedì 12 ottobre, successo entusiastico e meritato per tutti. Adolfo Andrighetti

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