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IDROBASE CREA BLISTER IN CARTONE ANTI INQUINAMENTO PLASTICA

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E’ il sandonatese Lorenzo Furlan, Dirigente di “Veneto Agricoltura” ma soprattutto scienziato ed entomologo di fama internazionale, il Premio A.R.G.A.V. 2024, indicato dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Regionale Giornalisti Agroambientali di Veneto e Trentino Alto Adige fra le personalità che, con la loro attività, danno lustro alla regione. Il Premio sarà consegnato nel corso di una semplice cerimonia, che si terrà sabato 7 Dicembre prossimo, alle ore 12.00, nel salone del Ristorante Villa Contarini, a Monselice (Padova). Nell’occasione sarà anche attribuito un Premio speciale all’imprenditore vicentino, Remo Pedon, per i 40 anni dell’omonimo gruppo alimentare ed il suo impegno filantropico.
La stagione d’opera 2024-25 si inaugura alla Fenice con “Otello” di Verdi: diretto e concertato dal maestro sud-coreano Myung-Whun Chung, scelta sicura e vincente per diverse inaugurazioni del passato e sempre sottoscrivibile con convinzione, trattandosi, a mio modesto avviso, della bacchetta più emozionante e coinvolgente apparsa sui palcoscenici veneziani negli ultimi vent’anni insieme al compianto Jeffrey Tate; con Francesco Meli nel ruolo del titolo, un artista consapevole e tecnicamente ferratissimo la cui adeguatezza vocale per un ruolo così spinto rappresentava però per molti un punto interrogativo, considerato anche che non molti anni fa, sempre a Venezia, era un applaudito Conte d’Almaviva nel “Barbiere” rossiniano; e con la regia di Fabio Ceresa, il cui immaginario, per sua stessa ammissione, “si nutre di costumi grandiosi e maestose scenografie” e che, dopo averci divertito ed ammaliato in Vivaldi, era atteso alla prova con un mondo culturale affatto distante da quello barocco. I motivi di richiamo in questa prima della stagione, quindi, non mancavano e a cominciare dalla scelta stessa del titolo: un’opera imponente non per le dimensioni (non sono queste che fanno il capolavoro) ma per la carica drammatica che contiene e che sprigiona, creando un’atmosfera di tensione che a volte rimane sotto traccia, a volte esplode furiosamente, ma è sempre presente in maniera inquietante e dolorosa dal primo all’ultimo istante. Di questa tensione lancinante si è fatto interprete ideale il maestro Myung-Whun Chung, che ha trovato proprio nei passi più drammatici, se non addirittura tragici, l’estro più felice e la via di una comunicazione diretta e immediata con il pubblico: come nella travolgente, sconvolgente tempesta iniziale o, per portare un esempio opposto dal punto di vista dello scenario sonoro, la morte di Otello. Per il resto racconta da par suo, riuscendo persino a creare un’atmosfera colloquiale, quasi familiare, là dove, come nella scena Jago-Cassio del terzo atto, la tensione rimane latente. Ovazioni per il maestro a fine spettacolo, ben meritate non solo per la conduzione impeccabile della serata ma anche per quanto ha dato fino ad ora al teatro veneziano ed al suo pubblico in tanti indimenticabili spettacoli. Francesco Meli fa onore al principio che, quando si sa cantare, si può cantare tutto (o quasi). Il suo è un Otello vincente e convincente. La declamazione in zona centrale lo trova incisivo ed efficace e anche la salita all’acuto è sicura, salvo un paio di episodi alla fine marginali come nelle due puntature consecutive e di micidiale difficoltà che concludono il monologo del Secondo Atto “Ora e per sempre addio” sulle parole “Della gloria d’Otello è questo il fin” e il selvaggio “Gioia!!” (non per niente con due punti esclamativi nel libretto...) con cui Otello accoglie la notizia dell’arrivo di Cassio nel Terzo Atto. Risultano di alto livello artistico, per contro, il duetto d’amore del Primo Atto, soprattutto nella frase conclusiva “Già la pleiade ardente al mar discende...Vien...Venere splende”, la cui salita all’acuto in pianissimo è tecnicamente impervia mentre il nostro risolve alla grande; e la magistrale esecuzione del monologo del Terzo Atto, “Dio mi potevi scagliar tutti i mali”, nel quale Meli esprime tutta la stanchezza e la desolazione di Otello mentre guarda alla propria vita che sta piombando nel baratro dell’insignificanza. Dalla lettura che ne dà Meli, con uno strumento fondamentalmente lirico ma supportato da una impostazione impeccabile in cui il sostegno perfetto del fiato permette di dare piena risonanza e proiezione alle note, esce un Otello profondamente umano e quindi tanto più credibile. Certo, in alcuni momenti, come ad esempio nella scena della morte, la tragicità sconvolgente e, per così dire, cosmica, che echeggia in altre esecuzioni, è assente, e al suo posto si trova una sofferenza straziante, sì, ma personale, quasi borghese, non eroica. Ma si tratta di una lettura pienamente convincente, che non scende a patti con la partitura ma la interpreta entro i limiti e le possibilità (ampie, integrate anche dal bellissimo timbro) dello strumento. Lo Jago di Luca Micheletti è il più applaudito e in effetti non manca di nulla. Sa tutto quello che deve fare e lo fa proprio bene, in ogni momento, sostenuto da una voce salda ed omogenea in tutta la gamma, in grado di sfogare con sicurezza in acuto e capace di espressive (anche se non troppo frequenti) variazioni dinamiche. Eppure...Eppure, a causa forse di un’emissione un po’ ruvida, di un timbro che potrebbe essere più limpido, il personaggio risulta troppo sbilanciato verso il lato ‘vilain’, mentre sarebbe più completo se risultasse ancora più sottile, più insinuante, visto che lo stesso Verdi, nell’epistolario, raccomanda che sia raffigurato come una brava persona, affabile, rassicurante, affinché la sua perfidia risulti moltiplicata dall’ipocrisia con cui viene occultata. Ciò riesce molto bene all’artista nella presenza scenica, assolutamente disinvolta e convincente, meno nel canto. Il suo “Credo”, infatti, tanto per portare l’esempio più noto, suona giocato troppo sulla declamazione stentorea e troppo poco sulla sottigliezza degli accenti. La Desdemona del soprano sud-coreano Karah Son è difficilmente decifrabile. L’artista sa fare buon uso del proprio strumento, sa modulare, alleggerire e rinforzare, ma spesso sfoga in alto in modo brusco e con un vibrato fastidioso, mentre il suono dovrebbe aprirsi rotondo, dolce, seppure intenso. Se è vero che Desdemona è un angelo, come ci suggerisce anche il regista, va detto che un angelo, per quanto piagato da sofferenze terrene, non canta così, con un’emissione disomogenea e suoni spesso spigolosi, un timbro asprigno e centri talvolta come sordi, ovattati. Un angelo, insomma, deve trovare espressioni più morbide, più alate, più sublimi. Ed è un peccato, perché si capisce che le potenzialità non mancano. Così la canzone del Salce è ben modulata e altrettanto può dirsi dell’”Ave Maria”, eseguita con emissione raccolta e controllata. Ma la canzone si conclude con un brutto acuto finale filato sulla parola “amarlo”, né si può definire riuscito l’”Amen” con cui termina la preghiera. Il resto del cast è più che attendibile. Peccato solo che il Cassio di Francesco Marsiglia sia tanto fresco, luminoso, giovanile nel canto quanto impacciato sulla scena. Gli altri sono Enrico Casari (Roderigo), Francesco Milanese (Lodovico), William Corrò (Montano), Anna Malavasi (Emilia), l’artista del Coro Antonio Casagrande (Un araldo). E a proposito di Coro, diretto dal maestro Alfonso Caiani, non si può che lodarne senza riserve la prestazione, insieme ai sempre bravissimi Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio. Sul palcoscenico Fabio Ceresa torna a proporre, con esiti sempre felici, il proprio stile fantasioso ed immaginifico, coadiuvato da Massimo Checchetto (scene), Claudia Pernigotti (costumi), Fabio Barettin (luci), Sergio Metalli (video), Mattia Agatiello (movimenti coreografici). L’idea di base è quella di mettere in evidenza la venezianità della vicenda, che si svolge tutta all’ombra della Serenissima pur essendo geograficamente ambientata a Cipro, collocandola all’interno di un palazzo che si apre verso la platea con una trifora il cui stile e i cui decori richiamano quelli della Basilica di San Marco. La proposta dello stile bizantino, attraverso i mosaici, le dorature, le luci, non vuole ovviamente essere una riproduzione calligrafica di quel mondo, ma piuttosto, come spiega bene lo stesso regista che è il caso di citare, la traduzione del “concetto in immagine, perché l’immagine acquisti dignità di simbolo e si trasformi in uno strumento in grado di trasmettere significato e suscitare emozione”. I costumi, anch’essi dorati, contribuiscono alla ricreazione simbolica del gusto bizantino, evocando un’atmosfera ricca e luminosa che contrasta efficacemente con l’oscurità della tragedia che si consuma fra tanto splendore. All’interno di questa cornice i personaggi si muovono con accurata pertinenza rispetto alla situazione che vivono e a ciò che cantano. Desdemona, in particolare, è rappresentata in conformità ad un’iconografia mariana, accompagnata da creature angeliche e fatta agire sullo sfondo di cieli stellati, a sottolineare la sua natura di perfetta innocente all’interno di un mondo segnato dal peccato e dalla colpa. Un contributo non secondario all’efficacia del messaggio teatrale è dato dai bravissimi mimi, che rappresentano il Leone di San Marco, sempre presente accanto ad Otello quando costui è ancora padrone di sé stesso e del proprio ruolo, e l’Idra scura del male, che spinge le sue teste e le sue braccia verso Otello per soffocarlo secondo il diabolico disegno di Jago. Il leone, del resto, nell’opera di Verdi simboleggia sia la Serenissima sia lo stesso Otello; per cui, alla fine del terzo atto, quando Jago trafigge con la spada il mimo che rappresenta il Leone di San Marco, muoiono insieme Venezia e l’eroe che ne incarna la grandezza. Ma nel conflitto tra Leone e Idra, cioè fra bene e male, Ceresa sembra immaginare la vittoria di quest’ultima, con Jago che domina dall’alto, imperscrutabile e imperturbabile, l’agonia di Otello alla fine dell’opera. Un’osservazione conclusiva sulla scelta di presentare un Otello bianco, cioè non di colore. Ha ragione Ceresa quando la motiva col fatto che enfatizzare la componente razziale è riduttivo rispetto alla complessità dei sentimenti di Otello, che vanno oltre la questione del colore della pelle. Tuttavia questa opzione trascura un elemento importante della tragedia, che trae origine dal senso di inferiorità di Otello per la sua diversità etnica rispetto a quel mondo veneziano che pure l’ha accolto come un eroe e per la sua matura seriosità rispetto alla giovanile sfrontatezza di Cassio. Alla fine della serale di venerdì 29 novembre, il teatro gremito al massimo della capienza ha riservato agli artefici dello spettacolo un successo ai limiti dell’entusiasmo. Adolfo Andrighetti
E’ nato in Italia, grazie ad un’innovazione della padovana Idrobase Group, il nuovo “Fog box salute” per la nebulizzazione idrica, in grado di garantire non solo la massima salubrità dell’acqua attraverso filtri contro le impurità, nonchè la sterilizzazione anti virus, batteri e spore, ma anche, grazie ad un innovativo sistema, l’eliminazione delle condizioni per lo sviluppo della pericolosa legionella. La presentazione del nuovo macchinario è avvenuta al salone internazionale Ecomondo nell’ambito della Rete d’Impresa “Safebreath.net”, creata con la novarese Sibilia e la trevigiana Mion. La legionellosi viene normalmente acquisita per inalazione e per questo la pericolosità delle particelle d’acqua infettate è inversamente proporzionale alla loro dimensione: gocce piccole arrivano più facilmente alle basse vie respiratorie; la malattia ha una letalità fra il 5% ed il 10% dei casi. La prevenzione delle infezioni da legionella si basa essenzialmente sulla corretta progettazione e realizzazione degli impianti tecnologici, che comportano la nebulizzazione e/o il riscaldamento dell’acqua. “Per chi, come noi, è leader nelle tecnologie dell’acqua in pressione, la salubrità della risorsa idrica è un dogma ed il nuovo nemico si chiama legionella - afferma Bruno Ferrarese, contitolare della veneta Idrobase Group - Il ristagno d’acqua ne è veicolo di propagazione e per questo la nostra ricerca è impegnata ad abbatterne il rischio.” Finora solo quattro Stati (Francia, Spagna, Svizzera, Singapore) hanno normative stringenti in materia, ma all’Idrobase Group si guarda già al futuro nel rispetto del “claim” aziendale “Respira aria sana”. L’innovazione può trovare immediata applicazione in altre due novità presentate alla fiera riminese: i “fog makers” per l’abbattimento delle polveri in ambienti di lavoro “Elefante Silenzioso” che, a parità di prestazioni, riduce la rumorosità del 20% ed “Elefantino 2.0” che, più industrializzato rispetto alle versioni precedenti, “spara” aria con un incremento di potenza pari al 25%. “Possiamo dire – aggiunge Bruno Gazzignato, contitolare dell’azienda con sede a Borgoricco – che questi sono i primi risultati della riorganizzazione del processo produttivo interno, secondo la metodologia lean, passando dal concetto di linea di montaggio a quello di oasi produttiva, valorizzando la professionalità di ogni singolo addetto. L’effetto è un maggiore protagonismo dei lavoratori, che aumenta creatività ed efficienza produttiva, consentendo un abbattimento del 15% nei prezzi di listino, permettendoci maggiore competitività sui mercati della globalizzazione, pur mantenendo l’alta qualità del made in Italy.” L’apprezzamento del mercato è stato immediato, testimoniato anche dalla presenza alla fiera “Issa Clean Euarasia “ organizzata ad Istanbul in Turchia e che vede la presentazione dei nuovi kit Dolly per idropulitrici semiprofessionali.
“La vita è sogno”, il dramma seicentesco in versi di Pedro Calderόn de la Barca da cui è tratta l’omonima opera di Gian Francesco Malipiero, all’interno di un’ambientazione fiabesca ed arcana anticipa in qualche modo la ragione prima dell’angoscia esistenziale dell’uomo moderno: l’impossibilità, cioè, di trovare la consistenza della realtà e quindi di distinguerla dalla irrealtà, anche dal sogno, per cui la vita trascorre come all’interno di una bolla in cui dominano l’incertezza, la fluidità, lo smarrimento. L’opera di Malipiero, che ne scrisse anche il libretto, è fedele al dramma da cui è ricavata e ne ripropone l’assunto filosofico soprattutto nella figura del principe, il quale è incapace di capire se è realtà la torre in cui si trova rinchiuso oppure la reggia in cui si desta perché ricondottovi dal re suo padre, pentito di aver imprigionato il figlio solo perché infausti segni della natura confermati dagli oroscopi ne avevano accompagnato la nascita. Ma, di fronte alla reazione violenta del principe infuriato per una reclusione che non ha fine, il re lo avverte che forse è la stessa reggia ad essere un sogno, lo fa riaddormentare e lo riporta nella torre. Ma allora, che cos’è realtà? La prigione oppure la reggia? O forse entrambe si confondono come in una visione all’interno di una dimensione vaga, inconsistente, nella quale tutto e il contrario di tutto si sovrappongono e alla fine si annullano? Neppure l’amore, impersonato da Diana, riesce a restituire un ‘ubi consistam’ al povero principe, che si rivolge alla donna di cui è innamorato e ha compassione di lui dicendole di sentirsi ancora prigioniero del sogno. E anche quando la folla lo acclama e ne ottiene la liberazione, il suo stato di confusione rimane e lo fa sentire ancora prigioniero non più della torre ma di una dimensione di sogno che lo avviluppa. E anche se il lieto fine conclude la singolare vicenda attraverso la piena riconciliazione del principe con il re suo padre e di quest’ultimo con il figlio, rimane la sensazione inquietante di un’ambiguità di fondo che accomuna l’esperienza del principe a quella di ogni essere umano, che sarebbe incapace di vivere il reale come una presenza solida ed oggettiva, rispondente a principi fisici e morali certi ai quali potersi affidare. Così ci raccontano scrittori e poeti esistenzialisti quali Sartre ne “La nausea”, tanto per portare l’esempio forse più illustre ma certo più emblematico. L’eccellente nuova produzione in scena al Teatro Malibran rappresenta il giusto e doveroso omaggio che Venezia tributa ad un suo figlio illustre, Gian Francesco Malipiero, considerato uno dei più significativi compositori del secolo scorso, e, insieme, ad un suo lavoro ricco di musica e di dramma – e di musica perfettamente intonata al dramma – quale appunto “La vita è sogno”, che ritorna in laguna dopo un ingiustificato oblio durato ben ottant’anni da quella prima veneziana del 1944 che fece seguito alla prima assoluta all’Opernhaus di Breslavia del 30 giugno 1943. Come ogni tanto capita, infatti, si è realizzata questa volta una virtuosa ed equilibratissima sinergia fra i tre elementi costitutivi di una rappresentazione operistica: il prodotto della creatività del compositore, qui anche librettista, con la sua realizzazione teatrale e musicale, riuniti in un insieme organico dove le due componenti per così dire esecutive sembrano aiutarsi e sostenersi a vicenda nel cercare e alla fine trovare la chiave per aprire lo scrigno di note contenente la bellezza e il significato voluti dal compositore. Il tutto a beneficio del pubblico - destinatario ultimo e fondamentale di ogni proposta teatrale - al quale viene offerta una produzione che lo rispetta e lo coinvolge. Molto del merito di questa felicissima riuscita va a quello che spesso rappresenta l’anello debole o più discutibile della catena, cioè la regia. In questo caso Valentino Villa, coadiuvato al meglio da Massimo Checchetto per le scene, Elena Cicorella per i costumi, Fabio Barettin per le luci, Marco Angelilli per i movimenti coreografici, sceglie con lodevole umiltà, così rara fra i suoi colleghi, la strada di un’interpretazione semplice e pulita ma mai banale, che aiuta lo spettatore a entrare dentro un’opera ancora sconosciuta comprendendone al meglio le ragioni musicali, drammaturgiche e alla fine culturali. Lo spettacolo si avvale di una scenografia tanto essenziale quanto efficace ed evocativa, che si riduce a delle pareti incombenti, cupe e minacciose quando rappresentano la prigione in cui è rinchiuso il principe, soffuse di una luce dorata ma non per questo meno opprimenti quando la vicenda si trasferisce nella reggia. All’interno di questa cornice, in cui trova un’ambientazione perfettamente adeguata ed espressiva il pessimismo di cui è impregnata l’opera di Malipiero nonostante l’ambiguo lieto fine, si muove con assoluta pertinenza oltre che con ammirevole professionalità un cast di alto livello, aiutato nel compito dai bei costumi, che richiamano un seicento un po’ realistico e molto favolistico. Il vero protagonista è il principe straziato, sofferto, del tenore Leonardo Cortellazzi, che non trascura nulla di ciò che serve a definire l’indole inquieta ed inquietante del personaggio nel suo essere schiavo della confusione fra sogno e realtà di cui le catene che lo avvincono rappresentano un simbolo, offrendoci una caratterizzazione di assoluto rilievo. L’artista conferma per l’ennesima volta la sua preparazione e duttilità nell’affrontare, sempre con ottimi esiti, repertori e personaggi anche molto distanti. Qui, aiutato da una tessitura sostanzialmente centrale, brilla per l’intensità del declamato, che trova i momenti di maggiore verità umana ed artistica nell’alternanza frequente dell’invettiva violenta alle frasi sussurrate dolcemente in pianissimo, quasi in una sorta di mesta rassegnazione ad un destino troppo pesante per essere stornato. Gli altri gli fanno da contorno, seppure con ottima riuscita: la Diana veemente, appassionata, di Veronica Simeoni, che risolve in maniera più che apprezzabile, grazie ad un’emissione limpida e sicura e ad uno strumento omogeneo e sonoro, una parte dalla tessitura fin troppo acuta per un mezzosoprano; il solenne, ieratico e un po’ stordito re del basso Riccardo Zanellato, che mette a disposizione la propria imponente presenza scenica e la propria voce dal bel timbro scuro e dalla morbida emissione ad un personaggio in fondo pavido e superstizioso, nel quale le paure indotte da equivoci presagi hanno la meglio su uno dei più intensi fra i sentimenti umani, l’amore paterno; il Clotaldo, più cortigiano che carceriere, ben caratterizzato vocalmente e scenicamente dal baritono Simone Alberghini, il quale ci offre un personaggio che fa del principe la propria vittima perché anch’egli è a suo modo una vittima, della fedeltà assoluta dovuta al re e al sistema di cui è parte integrante. Più o meno adeguati, nei ruoli di contorno, Francesca Gerbasi (Estrella), Levent Bakirci (don Arias e uno della folla) e Enrico Di Geronimo (un servo di Diana e uno scudiero del re). Fondamentale il ruolo del coro, sia nell’intonazione precisa e suggestiva dei madrigali che impreziosiscono la vita raffinata della reggia, sia nell’imponente compattezza sonora con cui interpreta la folla che acclama il principe e lo vuole definitivamente libero e a capo del suo popolo; ben meritati gli applausi che lo salutano al termine dello spettacolo insieme al maestro Alfonso Caiani. Tutto questo è reso possibile dalla presenza sul podio del maestro Francesco Lanzillotta, che offre allo spettatore un’esperienza rara immergendolo nel mondo di Malipiero, costituito in quest’opera da un tessuto sonoro di raffinata elaborazione strumentale e insieme di straordinaria aderenza al nucleo drammatico della vicenda; in Britten è dato incontrare, lo scorso secolo, una tale corrispondenza fra musica e parola, per cui il suono si esalta nel suo mettersi al servizio del dramma e quest’ultimo si arricchisce di un valore emotivo altrimenti impossibile. La rappresentazione di giovedì 7 novembre è stata salutata da un successo vivo e cordiale. Adolfo Andrighetti
Approda, per il quinto anno al Centro Candiani di Mestre, il Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città, il cui cartellone veneziano è stato presentato dal Direttore Artistico, Andrea Vettoretti insieme a Paola Mar, Assessore alla Promozione del Territorio del Comune di Venezia; quest’ultima ha ringraziato per la grande qualità della proposta musicale, capace di reinterpretare i più diversi generi musicali. “E’ la caratteristica del New Classical World, il movimento musicale, cui è dedicata la rassegna: musicisti di estrazione classica, che però allargano gli orizzonti verso sonorità crossover, capaci di raccogliere tutte le musiche del mondo” ha precisato Vettoretti, che sarà protagonista del concerto conclusivo in calendario mercoledì 4 Dicembre nelle prestigiose Sale Apollinee del Teatro La Fenice, in occasione dell’anteprima del prossimo album del chitarrista e compositore trevigiano (“Il respiro dell’acqua”) in uscita nel 2025. Per quanto riguarda Mestre, sarà la chitarra battente di Giovanni Seneca, accompagnato dalla versatile voce e dalle percussioni di Anissa Gouizi, ad aprire venerdì 4 Ottobre (ore 21.00) la due giorni di concerti all’auditorium Candiani; si tratta di uno strumento tipico della tradizione del Sud Italia con un suono simile al clavicembalo. La serata partirà da queste sonorità per arrivare alla Spagna attraverso i Balcani, la Grecia, la Turchia ed il Maghreb. Novità di quest’anno è il concerto doppio del sabato sera. Il 5 Ottobre (ore 21.00), primo a salire sul palco sarà l’Elisir Duo (Andrea Candeli e Matteo Salerno) con un programma quantomai estroso, che dalle ballate irlandesi trasporterà il pubblico fino in Argentina con la rivisitazione di celebri tanghi. A seguire sarà, per la prima volta ospite del Festival, l’Exaudia Duo (Mitja Rezman – Vojko Vesligaj), che propone, dopo anni di collaborazione in vari gruppi, un programma tra classica, jazz ed etno music, affondando le radici nelle culture musicali araba, iberica e sudamericana. “Anche quest’anno – ha concluso il Direttore Artistico – portiamo al Candiani artisti in sintonia con il cuore pulsante della città metropolitana. Non è certo un caso che il Festival 2024 sia partito da Cavallino Treporti prima di approdare a Treviso ed ora nel comune di Venezia: la nostra è una proposta d’area per una musica senza confini.” I biglietti sono acquistabili al botteghino del Centro Candiani a Mestre; è consigliata la prenotazione gratuita, telefonando al numero dedicato 320 0517000 oppure inviando una email a: festival@musikrooms.com .
Cercare le ragioni in base alle quali vengono abbinate le opere nelle serate in cui i teatri presentano i cosiddetti dittici, rappresenta un esercizio intellettuale stimolante e non di rado produttivo di esiti culturalmente raffinati, ovviamente qualora tali ragioni non siano evidenti: ed è questo il caso della coppia di lavori in programma alla Fenice, composta da “La fabbrica illuminata” di Luigi Nono, di cui ricorre il centenario della nascita, e da “Erwartung” di Arnold Schönberg, di cui si ricordano i centocinquant’anni sempre della nascita. Lo stesso regista Daniele Abbado ammette che l’abbinamento lo ha stupito prima di suscitarne l’adesione entusiastica. Ed in effetti l’eterogeneità strutturale oltre che culturale dei due lavori è evidente. “La fabbrica illuminata” è un progetto fortemente politicizzato e all’epoca (prima rappresentazione alla Fenice il 15 settembre 1964 nell’ambito della Biennale Musica) d’avanguardia sotto i profili concettuale e tecnologico, con la musica che viene utilizzata per raccontare o meglio per denunciare la disumanità della vita in fabbrica. La struttura musicale, infatti, è composta con i suoni e le voci registrate su nastro magnetico nell’acciaieria di Cornigliano, un quartiere di Genova, e poi rielaborate nello Studio di Fonologia di Milano. “Erwartung”, composta nel 1909 ma rappresentata a Praga solo il 6 giugno 1924, è un monodramma segnato da un contesto culturale assolutamente diverso rispetto a quello ‘progressista’ degli anni sessanta: la psicoanalisi freudiana, sempre più diffusa e ben presente nella preparazione accademica dell’autrice del testo, Marie Pappenheim, si sposa con l’atonalità della partitura, per cui la frammentarietà del testo letterario si specchia in quella del tessuto sonoro e viceversa, a creare un’atmosfera di incertezza, di disagio, di angoscia. Per quanto riguarda “Erwartung”, è del tutto condivisibile quanto afferma Daniele Abbado circa la necessità di superarne l’interpretazione psicoanalitica, che mi sembra possa essere abbandonata per una visione per così dire simbolista, meno datata storicamente e quindi più universale; per cui il viaggio notturno della donna, tormentato come un incubo, potrebbe rappresentare non uno stato mentale patologico ma piuttosto la tensione di ogni essere umano verso un bene assoluto che rappresenti il significato ultimo della vita, cioè l’amore come sintesi e compimento di ogni valore esistenziale. Ma gli innumerevoli segni di terrore e di morte incontrati nel bosco notturno preludiano al crollo dell’ideale atteso e cercato, quando la donna scopre il cadavere dell’amato imbrattato di sangue e abbandonato nei pressi dell’abitazione della rivale. Questa conclusione, che annulla la speranza coltivata dalla donna di ricongiungersi all’unica ragione della propria vita, può essere letta come la risposta, disperata e nichilista, ad un’altra attesa, che va liberata dal contesto socio-politico datato in cui la confina Nono per essere trasportata su una dimensione esistenziale di respiro più ampio. I versi conclusivi di Pavese (“...passeranno le angosce/non sarà così sempre/ritroverai qualcosa”) ne “La fabbrica illuminata” sembrano rivolgersi alla donna di “Erwartung”, la quale, nella programmazione della Fenice, deve ancora intraprendere il cammino nel bosco, ed alimentare in lei una speranza che invece andrà in frantumi. Quel “qualcosa” che si promette alla donna di ritrovare, infatti, sarà solo un cadavere, per giunta il cadavere di un traditore; la morte di un essere umano ma, prima ancora, dell’ideale che in esso si incarnava. La nuova produzione in scena alla Fenice (regia Daniele Abbado, scene e luci Angelo Linzalata, costumi Giada Masi, movimenti coreografici Riccardo Micheletti) sceglie la strada dell’essenzialità, anzi della nudità, forse la più efficace per la messa in scena di entrambi i lavori, che rifiutano la dimensione della teatralità tradizionale per aprirsi verso mondi altri, centrati sulla componente concettuale piuttosto che su quella spettacolare. Il palcoscenico è quindi praticamente vuoto, anche a simboleggiare quella solitudine esistenziale che in fondo è cifra comune a Nono – ché l’alienazione del lavoro in fabbrica impedisce una vera comunicazione umana – e, in maniera ancora più evidente, a Schönberg, dove nulla rompe la bolla di dolore ed angoscia in cui è rinchiusa la donna. L’oscurità della scena raramente è rotta da luci improvvise quanto crude. La messinscena de “La fabbrica illuminata” è arricchita dalle proiezioni sul fondo di scene registrate a Cornigliano in un severo bianco e nero, mentre sul palco alcuni figuranti rappresentano le maestranze. In “Erwartung” ci troviamo davanti un mucchio di corpi umani, a rappresentare fisicamente, carnalmente, la morte dell’amato e quindi di ogni speranza della donna. Il regista, quindi, ci abbandona soli all’impatto straniante e straziante con l’universo drammatico e sonoro di Nono e Schönberg, che, in questo modo, colpisce direttamente e duramente il bersaglio senza mediazioni. Ecco allora, in Nono, una miscellanea di suoni ora laceranti, ora esplosivi, ora sussurrati, alternati a pause di silenzio che rappresentano un plenum di significato anziché un vuoto; un magma sul quale si appoggia la voce solista del soprano Sarah Maria Sun, impegnata in un declamato-parlato che la vede un po’ in difetto di sicurezza nonostante sia una specialista del repertorio contemporaneo; ma non si deve trascurare che l’artista sostituisce l’indisposta titolare del ruolo, Valentina Corò. Nell’insieme Nono fa vivere l’esperienza di un’atmosfera allucinata, surreale, che dalla quotidianità della fabbrica porta in un mondo più mentale che reale, nel quale la denuncia politica e sociale sembra assumere connotati astratti, quasi metafisici. Poi si viene avvolti dall’universo di Schönberg, un oceano sonoro ricchissimo nel quale si incontra ogni variazione dinamica e timbrica in corrispondenza dell’alternarsi degli stati psicologici della donna. È musica strettamente connessa alla drammaturgia, come evidenzia il maestro Jérémie Rhorer, che la dirige alla Fenice; musica, si sa, che suona come disarticolata, sospesa, non risolvendo mai e quindi abbandonando lo spettatore a sé stesso, alla solitudine di un ascolto angosciato in cui non può trovare sollievo; come la protagonista del pezzo, d’altra parte. Qui si impone il soprano USA Heidi Melton, perfettamente adatta ad incarnare la tragedia della donna per l’accento incisivo, imperativo, e per la pienezza, la compattezza e la proiezione del suono. Sul podio il maestro Jérémie Rhorer conduce in porto felicemente le due impegnative esecuzioni, soprattutto Schönberg, nel quale è assecondato da un’orchestra della Fenice in gran spolvero. Apprezzabile soprattutto la sensibilità con cui Rhorer sa evidenziare e valorizzare la ricchezza e la maestria dell’orchestrazione in “Erwartung”. Ne “La fabbrica illuminata”, invece, determinante l’apporto di uno storico regista del suono come Alvise Vidolin. Alla serale di giovedì 19 settembre teatro quasi gremito da un pubblico eterogeneo, che ha reagito alla proposta non facile con un consenso nel complesso soddisfacente. Adolfo Andrighetti
E’ stata l’inusuale location di Batteria Pisani, nel comune di Cavallino Treporti, ad ospitare l’anteprima del Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città (Treviso-Venezia), suggellando l’avvio di una nuova collaborazione per il Comune lagunare; il concerto “Quantum One” (versione solo strumentale dell’omonimo reading teatrale con Veronica Placido) ha sancito anche la conclusione della stagione musicale estiva, che ha confermato anche il valore acustico della fortezza, sede di un museo storico. Per l’occasione si è esibito il trio composto dalla violoncellista Riviera Lazeri, dal clarinettista Fabio Battistelli e dal chitarrista, nonchè compositore dei brani, Andrea Vettoretti, direttore artistico del Festival. Le esecuzioni del progetto musicale Q1 (da “Before” a “Blue Down”), dedicato all’Universo ed al futuro del nostro Pianeta, hanno riscosso i ripetuti applausi del pubblico, che ha occupato tutti i posti disponibili; scontati, quindi, i bis (“A11” e “Space Freedom”). Dopo l’anteprima sul litorale veneziano, il Festival Chitarristico Internazionale delle Due Città si trasferirà nell’auditorium del museo Santa Caterina a Treviso dove, venerdì 27 Settembre si terrà l’atteso concerto del Carlos Pinana Group, dedicato a “flamenco y baile”. Nel frattempo, Andrea Vettoretti è atteso da un prestigioso concerto nell’ambito di “Divinazione Expo” in occasione del “G7 Agricoltura” a Siracusa; giovedì 26 Settembre, il chitarrista trevigiano si esibirà in una performance dal titolo “Il respiro dell’acqua”, anticipatrice del suoundicesimo lavoro discografico in uscita a fine anno.
E’ stato il C.U.S. Bergamo a vincere, per il secondo anno consecutivo, il trofeo di volley femminile San Giacomo dell’Orio, giunto alla 49° edizione e le cui finali si sono disputate sui tradizionali “masegni” del campo veneziano. Nel match decisivo le orobiche hanno sconfitto 2-1 le croate della formazione “United Students of Zagreb” in un incontro caratterizzato da fasi alterne e seguito da numeroso pubblico; per il terzo posto il C.U.S. L’Aquila ha superato 2-0 il C.U.S. Venezia, mentre il C.U.S. Bologna si è imposto sul C.U.S. Milano Bicocca per il quinto posto (2-1). Miglior giocatrice è stata eletta la croata Iva Pazin ed un riconoscimento è andato anche alla bergamasca Giada Zambelli, la più giovane del torneo. Al termine, in un clima di grande festa, si sono svolte le premiazioni; insieme al Presidente del C.U.S. Venezia, Massimo Zanotto, erano presenti, tra gli altri il ViceSindaco ed Assessore allo Sport, Andrea Tomaello e la Presidente del Consiglio del Comune di Venezia, Linda Damiano; il VicePresidente dell’European University Sport Association, Haris Pavletic; il VicePresidente di FederCusi, Claudio Bortoletti. “Il clima di amicizia respirato nei tre giorni del torneo è stato il modo migliore per iniziare le celebrazioni per i 75 anni del C.U.S. Venezia – afferma Massimo Zanotto - Un grazie a tutta l’organizzazione ed a quanti ci hanno supportato con un ringraziamento particolare all’Ente per il Diritto allo Studio Universitario, che ci ha garantito l’ospitalità negli studentati.” Il tradizionale appuntamento sportivo è stato organizzato dal C.U.S. Venezia con le Università cittadine Ca’ Foscari e IUAV, nonchè la collaborazione dell’Autorità Portuale, il sostegno dell’Istituto per il Credito Sportivo e Culturale; Regione Veneto e Comune Venezia hanno patrocinato l’evento.
Inizierà da Cavallino Treporti l’edizione n.22 del Festival delle Due Città (Treviso-Venezia) considerato tra le più importanti kermesse chitarristiche internazionali e punto di rifermento mondiale per il genere musicale “New Classical World”: la novità dell’ “Anteprima Festival” al Museo Batteria Vettor Pisani di Ca’ Savio è annunciata dal Direttore Artistico della manifestazione, Andrea Vettoretti, che nell’occasione si esibirà nel “Quantum One Trio” assieme alla violoncellista, Riviera Lazeri ed al clarinettista, Fabio Battistelli (domenica 22 Settembre, ore 17.00). Da venerdì 27 a domenica 29 Settembre il Festival delle Due Città rientrerà nella tradizionale sede del Museo di Santa Caterina a Treviso, dove proseguirà il suo percorso di ricerca nel mondo della musica “di contaminazione” (classica, “world” e “crossover”) con tre concerti, che vedranno impegnati 6 virtuosi delle “sei corde” e spazieranno dal flamenco alla musica armena nel segno comune dell’innovazione musicale. Domenica 29 Settembre tornerà nel trevigiano Museo di Santa Caterina anche la Mostra Internazionale della Liuteria, cui si affiancherà la novità del “Young Platform Concert” eseguito da 10 allievi di Conservatorio. Venerdì 4 e sabato 5 Ottobre il Festival delle Due Città proseguirà nell’auditorium del Centro Candiani a Mestre con due serate dedicate a musica mediterranea, irlandese ed “etno world”. Il cartellone, i cui protagonisti saranno annunciati nei prossimi giorni, si concluderà mercoledì 4 Dicembre con l’ormai tradizionale concerto nelle Sale Apollinee del Gran Teatro La Fenice: ad esibirsi sarà lo stesso Direttore Artistico della manifestazione, Andrea Vettoretti, che nell’occasione anticiperà alcuni brani del nuovo CD “Il Respiro dell’Acqua” in uscita a fine anno. Grazie a questo progetto, Andrea Vettoretti è stato inviato a tenere un concerto anche in occasione del vertice mondiale “G7 dell’Agricoltura”, in calendario a fine Settembre nella città di Siracusa. Il Festival delle Due Città si conferma così essere una delle manifestazioni più attente all’evoluzione musicale nel mondo, puntando l’attenzione su un nuovo modo di fare musica, che parte dal percorso classico ed arriva a tradizioni culturali diverse in un tessuto continuo di esperienze correlate e componibili.
Contro il caldo opprimente nulla possono né la diplomazia, né il potere bancario e così, se la calura estiva sarà più sopportabile a Ginevra, il merito è della visionaria creatività italiana, targata Idrobase Group: è, infatti, nata a Borgoricco, nel Padovano, la tecnologia delle “isole di freschezza & salubrità”, come pratica risposta di adattamento alla crisi climatica. Ne sono apparse inaspettatamente in una dozzina di siti urbani dell’importante città elvetica e l’ innovativa presenza sta richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale; a presentarle sul mercato è la consociata Idrobase France, perchè oltralpe, così come nel cantone francofono della Svizzera, sono presenti normative (una prevede la creazione di oasi refrigeranti, l’altra regolamenta la qualità dell’acqua nebulizzata), che impongono aree cittadine di benessere, dove potersi difendere da afa e caldo. “In Italia, di fronte alla crisi climatica – commenta amaramente Bruno Ferrarese, contitolare di Idrobase Group – si consiglia ad anziani e persone a rischio di frequentare i centri commerciali, perché ambienti condizionati. All’estero, invece, si assume il problema come una questione sociale, cui contrapporre soluzioni pubbliche di adattamento. La nostra filosofia del respirare aria sana ha precorso i tempi e siamo sicuri che, entro breve, altri Paesi seguiranno l’esempio di Francia e Svizzera.” La normativa franco-svizzera è per altro estremamente severa e solo dopo attenti controlli è stata scelta la soluzione “made in Veneto”. L’acqua diffusa nelle oasi rinfrescanti è infatti microfiltrata in modo da eliminare particelle, sali minerali, calcare, nonchè sterilizzata contro ogni genere di virus, batteri, spore ed è dotata della soluzione tecnologica per prevenire il formarsi della temuta legionella. “Il nostro sistema nebulizzante è modulabile su aree di svariate dimensioni, adattandosi ai progetti, che stanno adottando le diverse municipalità – precisa Bruno Gazzignato, l’altro contitolare di Idrobase Group - Quello, che assicuriamo sempre è la salubrità della soluzione, frutto della qualità made in Italy.” “Le tecnologie dell’acqua in pressione sono il nostro core business qui declinato sulle esigenze di benessere all’interno di una comunità urbana – conclude Bruno Ferrarese – Come sempre, è curioso che ad intuirne le potenzialità siano prima di tutto all’estero, anche perché respirare aria sana è da tempo la nostra la nostra filosofia aziendale e non è certo legata alle normative di questo o quel Paese, ma è il nostro obbiettivo verso la comunità tutta.”

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Idrobase Group, leader del “made in Italy” nella produzione di tecnologie per l’acqua in pressione e per respirare aria pulita, rivoluziona “l’ultimo miglio” della propria filiera produttiva ed elimina la plastica dal “packaging”, anticipando la nuova normativa sugli imballaggi, che sarà approvata dall’Unione Europea nell’ambito dei provvedimenti per il “green deal”: ad annunciarlo è Bruno Ferrarese, Contitolare dell’azienda con sede in provincia di Padova. Ad oggi, ma il dato è in crescita, ogni cittadino comunitario smaltisce annualmente circa 36 chilogrammi di imballi in plastica, di cui solo il 40% viene riciclato; tale processo, infatti, presenta non poche criticità, perché la plastica riciclata non torna materia prima, ma per essere utilizzabile deve essere miscelata con una significativa percentuale di plastica nuova, prodotta da idrocarburi. La nuova normativa europea, in fase di approvazione, dovrebbe prevedere l’obbligo a vendere parte dei prodotti in confezioni ricaricabili o riutilizzabili, nonché il divieto di utilizzare imballaggi “chiaramente inutili”. Nell’ “head quarter” dell’impresa a Borgoricco, la più recente novità si chiama “dBase” ed è un innovativo tubo in cartone a lunghezza variabile, chiuso da un nastrino in carta riciclabile così come l’etichetta; l’idea è frutto dell’esperienza del team di Idrobase, un’industria dove la transizione ecologica è vissuta con coerenti scelte produttive. Così, perseguendo una visione olistica dell’azienda, dopo quello per i dipendenti con la creazione di innovativi spazi di lavoro privi di inquinanti, è ora il momento di accelerare per il benessere del Pianeta, riducendo il numero degli imballaggi destinati ad accogliere pezzi e minuterie di ricambio: fatti in cartone riciclabile, sono prodotti “a chilometri zero”, valorizzando il tessuto produttivo locale. “Nei prossimi 3 anni – indica Bruno Gazzignato, Contitolare di Idrobase Group - è previsto che, per la sola divisione Dolly Spare Parts, cioè i ricambi per le pompe, quasi un milione di blisters in plastica saranno sostituiti con i tubi in cartone; la loro lunghezza variabile permetterà di ridurre del 35%, il numero delle tipologie di scatole.” Non solo: come annunciato per contrastare i furti di identità aziendale, ora ogni singolo pezzo viene marchiato a laser, riproducendo i loghi Idrobase e Made in Italy. “Stiamo costruendo l’azienda del futuro, dove sostenibilità ambientale, economica e sociale devono coesistere – conclude Bruno Ferrarese - Non solo: stiamo innovando per rendere difficile il lavoro dei copiatori seriali perchè, anche in questo, prevenire è meglio che curare.”

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